Capì che l’uomo con il pigiama turchese era morto quando il gatto nero balzò improvviso sul letto miagolando, e non successe nulla. Il vice commissario Giulio Ambrosio sfiorò con la mano destra la fronte gelida, guardò l’infermiera e disse:
«È andato, e da molte ore.»
Che strana giornata. Si era alzato d’umore incerto, svegliato da una telefonata di Emanuela che stava partendo con un’amica per Forte dei Marmi, e per un attimo aveva pensato che gli dicesse che rimaneva a Milano per passare il Ferragosto con lui, come le aveva chiesto. E invece con quella sua voce bassa, che lo turbava sempre:
«Fammi un piacere, Giulio, sii buono, questa mia ex collega che adesso è in pensione ha bisogno di te. Ha il sospetto che sia successo qualcosa di grave a un suo cliente anziano. Si è ricordata che ho un amico poliziotto e mi ha telefonato due minuti fa.»
«Come si chiama questa tua infermiera?»
«Ida Fuseri.»
«È quella che avete festeggiato in gennaio quando ha lasciato l’ospedale?»
«Che memoria. Sì, è lei.»
«Capirai, era di domenica e io ero stato costretto a mangiare da solo.»
«Giulio...»
«Sì?»
«Fai il bravo, vai in via Anelli. Sai dov’è? Ti aspettano in portineria.»
Gli aveva dato il numero civico esatto e lui era andato a prendere la Golf verde erba nel garage di San Marco, a due passi dalla sua casa di via Solferino. Indossava un abito di cotone color panna, una camicia a righe bianche e azzurre con una cravatta ruggine, antico dono di Francesca, l’ex signora Ambrosio trasmigrata a Roma.
Mattina di afa con qualche nuvola, traffico scarso, un vago malessere alla nuca.
Via Luigi Anelli è una strada quieta che unisce via Quadronno a viale Beatrice d’Este, tra Porta Vigentina e Porta Lodovica. Una volta ci abitavano Mario Del Monaco e Natalino Otto (Ba, ba, baciami piccina), i palazzi sono quasi tutti moderni, piuttosto sobri, ricoperti di edera e vite canadese, salvo quello segnalatogli da Emanuela, del primo Novecento quando erano di moda i finti castelli color mattone con finestre ad arco. Una pianta di glicine prosperava dal giardinetto sulla strada, protetto da una cancellata nera da residenza inglese, e si protendeva rigogliosa sino al quarto piano coprendo un balcone che sarebbe piaciuto a un pittore preraffaellita.
La portinaia, una ragazza minuta con un viso da topo, in jeans e camicetta rosa, lo aspettava davanti al portone insieme a una donna sulla sessantina, pallida nonostante l’estate, con un neo tra le sopracciglia che le dava un aspetto vagamente maligno, da zia anziana, rimasta nubile per remote traversie amorose che l’avevano resa brusca, ostile. Ma quando Ambrosio le disse chi era, la voce di lei, forse per l’accento veneto che ha una sua gradevole blandizia, ne trasformò l’immagine, e il vice commissario, con quella fantasia che lo perseguitava sin dall’infanzia, la vide vestita da suora.
«Capisce, commissario, tutte le mattine alle sette vengo dal dottor Bulgari per fargli una iniezione. Ieri non mi sono sentita bene e così non sono venuta. Stamattina ho suonato, suonato, ma non rispondeva. Allora ho pensato che fosse uscito, magari per andare al pronto soccorso del Gaetano Pini.»
«E invece?»
«Invece no, perché ho chiesto alla Bettina se l’aveva visto e lei mi ha detto che doveva essere in casa, forse dormiva.»
«E poi?»
«Ecco...» sembrava imbarazzata. «Poi abbiamo cercato di aprire la porta dell’appartamento, ma non è stato possibile.»
«Perché?»
«C’è la chiave nella serratura, dall’interno.»
«Lei è la custode del palazzo?» chiese Ambrosio che non chiamava mai portinaie le portinaie.
«Sì» disse Bettina.
«Ha una copia della chiave dell’appartamento?»
«Ho le chiavi di ogni appartamento, soprattutto di questa stagione quando gli inquilini sono in vacanza.»
«Lui non va in vacanza?» chiese Ambrosio indicando con un lieve moto del capo la porta d’ingresso dell’appartamento che si trovava al piano rialzato, subito a sinistra del portone.
«Quasi mai. Però spesso viaggia per affari. Sta via due o tre giorni. Vive solo. Io gli tengo in ordine la casa.»
«Va da lui tutti i giorni?»
«Due volte alla settimana, il lunedì e il giovedì.»
«Bene» disse Ambrosio, tentando a sua volta di aprire la porta in noce massiccio con la targa rettangolare di ottone su cui era inciso in corsivo Dott. Andrea Bulgari.
«È scapolo?»
«No, è separato dalla moglie. Lei viene spesso a trovarlo, sono amici.»
«Adesso si usa» ammise l’infermiera, e nel tono della voce c’era una specie di disappunto, tipico di chi vede le questioni della vita senza sfumature.
«Hanno anche una figlia di vent’anni,» aggiunse Bettina «si chiama Lia.»
«Di lei il padre si è lamentato con me, gli dà delle preoccupazioni. I giovani sono diventati tutti matti» concluse l’infermiera, mentre Ambrosio, visto che era impossibile entrare dalla porta principale, aveva chiesto alla portinaia la chiave del piccolo cancello che dava sul giardino davanti all’appartamento per vedere se era possibile forzare la portafinestra, o rompere magari un vetro.
Non ci fu bisogno di nulla, poiché il gatto nero, quando il vice commissario seguito dall’infermiera e da Bettina stava per salire i quattro gradini che dal sentiero di ghiaia portavano al soggiorno, si alzò rapido dall’ultimo gradino ed entrò in casa: la porta era soltanto accostata.
L’appartamento con i pavimenti in rovere, le pareti tappezzate di carta a righe gialle e senape, i mobili vittoriani di noce, i tappeti persiani sparsi in ogni locale, i quadri del Novecento italiano alle pareti (Ambrosio aveva notato subito una Via San Leonardo di Ottone Rosai), era in una morbida penombra, quasi fresco rispetto alla calura esterna, ma con un odore indefinibile, forse dolciastro, fastidioso.
La camera da letto era ampia, l’uomo in pigiama turchese sul lenzuolo bianco pareva dormisse e Ambrosio stava per chiamarlo, quando il gatto con quel suo scatto imprevisto lo fece trasalire. Bettina portò la mano alla bocca e l’infermiera, dopo che lui aveva toccato il volto dell’uomo disteso, confermò:
«È proprio andato, è morto, poveretto.» Poi aggiunse, carezzando la manica del pigiama: «Me lo sentivo che era morto».
Il gatto miagolava.
«Dategli un po’ di latte per piacere» disse Ambrosio.
Seduto sul divano chiese all’infermiera perché mai avesse avuto questa specie di premonizione e le fece cenno di accomodarsi accanto a lui, ma la donna rimase in piedi, mentre Bettina era andata in cucina con il gatto.
«Il dottor Bulgari era malato, aveva una grave forma di diabete.»
«Gli faceva iniezioni di insulina?»
«Sì, trenta unità al giorno.»
«Tutti i giorni?»
«Quando era in città sì, tutti i giorni.»
«Come mai non si iniettava l’insulina da solo? Molti malati lo fanno.»
«I giovani soprattutto, ma le persone di una certa età spesso si rifiutano, provano repulsione, o paura. Non so. Lo fanno solo in casi estremi. Il dottor Bulgari chiudeva persino gli occhi quando gli facevo la sottocutanea. Pensi che gli aghi sono sottilissimi e non danno alcun dolore.»
«Dove si fanno queste iniezioni, in che parti del corpo?»
«All’esterno del braccio o della coscia. Oppure anche sulla fascia dei muscoli addominali.»
«Perché ha pensato al peggio quando non le ha aperto la porta?»
«Non lo so. Forse perché ieri non l’avevo visto, ero stata costretta a non venire da un’indisposizione. Sa come succede quando si rompe una consuetudine? Ci si preoccupa, e se la persona è malata si pensa al peggio.»
«Già ,» disse Ambrosio, alzandosi dal divano, «adesso bisognerà che avverta gli amici.»
«Quali amici?» chiese l’infermiera.
Quando capì che il vice commissario intendeva i colleghi di via Fatebenefratelli, anzi in particolare il sostituto procuratore della Repubblica, la donna emise un sospiro di sollievo e aggiunse:
«Meno male che c’è lei, grazie a Emanuela. Così non ci saranno sospetti.»
«Sospetti? Quali sospetti?»
«Se c’è di mezzo la polizia e c’è un morto, e il morto poi viveva da solo, strambo...» disse la portinaia nell’intento di aiutare l’infermiera. Era capitata alle spalle di Ambrosio senza che lui se ne accorgesse e lo fece trasalire, irritandolo.
«Che cosa vuol dire strambo?»
«Non era come tutti gli altri, ecco.»
«Cioè?»
«Stava da solo, parlava poco, riceveva soltanto un amico, era separato, o divorziato, dalla moglie, però lei gli faceva da segretaria. E poi la figlia...»
«Ebbene?»
«Quando si vedevano bisticciavano. Si sentivano alte le loro voci. L’ultima volta è stato qualche settimana fa, qui in giardino. La signora del piano di sopra, che adesso è al mare, mi ha detto che ha avuto persino paura che lui la picchiasse.»
«E poi?» chiese Ambrosio, avvicinandosi al tavolo da lavoro di Andrea Bulgari, che pareva tolto dalla cabina di una goletta inglese. C’era sopra un telefono nero.
«E poi?»
Non fece in tempo a udire la voce della portinaia, perché l’apparecchio cominciò a suonare, facendo per un istante balzare il cuore in gola ad Ambrosio, di umore infelice, che urlò:
«Pronto!»
E dall’altra parte:
«Chi parla?»
«Sono John. Ma chi è lì? Non sei Andrea, vero? Vero? Chi parla?»
Mentre Ambrosio stava per rispondere, la comunicazione venne interrotta e il vice commissario, quasi placato da quella voce inattesa, chiese:
«L’amico del dottor Bulgari è uno straniero?»
«Un americano» rispose la portinaia. Aggiunse: «È un uomo che al posto della cravatta porta il foulard».
Questa ragazza non è una sciocca, pensò, e si domandò perché avesse provato finora un certo fastidio, anzi una specie di risentimento nei suoi riguardi. Forse per quel guizzo d’astuzia malevola che aveva nel raccontare le faccende altrui, eppure la piccola sapeva cogliere i particolari meglio di certi questurini di sua conoscenza, t...