Beauvoir in love
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Beauvoir in love

  1. 372 pagine
  2. Italian
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Beauvoir in love

Informazioni su questo libro

1947, Chicago: un incontro improbabile. C'è Simone de Beauvoir, l'icona femminile dell'esistenzialismo, la pazza eccentrica dalle abitudini dissolute, la viziosa che – dicono i comunisti – da giovane ballava nuda sulle botti, la gelida teorica del Secondo sesso, colei che in tacchi bassi e con i capelli tirati assomiglia a un'istitutrice o a una caposquadra dei boyscout, la compagna di Jean-Paul Sartre. E poi c'è Nelson Algren, semplicemente lo scrittore dannato d'America. Il primo scambio di battute tra i due è uno shock. Il secondo, l'attrazione. Poi verranno i tormenti. Tra i due la passione è ingovernabile e divorante, rompe ogni difesa, trasformando l'algida intellettuale parigina in una ragazzina in preda alle ansie amorose. Perché in America Simone è felice, si dimentica di tutto e tutti, ma non di Sartre, dei suoi successi e della sua gloria, della loro unione intellettuale complice e profonda, dei suoi tradimenti che possono da un momento all'altro trasformarsi in amore. Lacerata da desiderio e gelosia, può la donna più in vista del mondo culturale di Francia trovare il coraggio per rompere con quello che è molto più del compagno di una vita? Potrà la controllatissima Simone de Beauvoir abbandonare il suo cuore a una passione senza nessun controllo?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804635130
eBook ISBN
9788852050480

Prima parte

APPENA PRIMA

1

“Mi succede qualcosa – che cosa mi succede?”
La voce insiste. Risuona nel buio della stanza.
Il corpo si dibatte, si sforza di riconquistare le acque limpide della coscienza. La crosta del sonno si fende a poco a poco, ma la sensazione di soffocamento perdura.
Colpa del riscaldamento, sicuramente. È al massimo.
Progressivo risveglio della memoria. Ieri sera, al LaGuardia, sbarcando dal volo proveniente da Parigi, il caldo era già asfissiante. All’interno dell’aeroporto, i doganieri erano gli unici a non boccheggiare. Questione d’abitudine. Svolgevano pigramente la loro piccola routine, chi con distrazione, chi con pignoleria: controllo del passaporto, delle vaccinazioni, delle valigie, ispezione dei denti, esame meticoloso delle spesse pagine del visto – “Bertrand de Beauvoir Simone-Lucie-Ernestine-Marie, nata a Parigi il 9 gennaio 1908”. Quando finalmente l’ultimo addetto ha apposto il timbro tanto atteso, “Ufficio Immigrazione degli Stati Uniti, 25 gennaio 1947”, si è affrettata a recuperare il suo unico bagaglio, una valigia a soffietto, e si è precipitata verso l’uscita.
Stava ancora sudando, mezz’ora più tardi, quando l’auto della delegata dell’ambasciata ha attraversato il ponte di Brooklyn. Stavolta, ha dato la colpa alle cattive notizie che la diplomatica le aveva appena comunicato: avrebbe tenuto soltanto sei conferenze in tre mesi di soggiorno. E anche gli incontri con la stampa si contavano sulle dita di una mano. Le avevano sabotato il tour.
La vettura ha lasciato il ponte per addentrarsi in una selva di edifici altissimi. Per qualche minuto, le è sembrato di respirare meglio. La strana bellezza della città, forse, le cascate di luci che si riversavano sui viali, le automobili, i bus che scivolavano silenziosi sull’asfalto del sabato sera, i mille neon multicolori. Poi la macchina si è fermata davanti all’albergo e, appena entrata nella hall, il caldo ha ricominciato a opprimerla. È a quel punto che si è detta: “Da queste parti hanno la mania di tenere il riscaldamento al massimo”.
Era in un bagno di sudore. E questa sensazione non l’ha più abbandonata per tutta la serata. Al ristorante e anche dopo, per le strade di Manhattan, quando si è liberata della funzionaria dell’ambasciata per andare alla ricerca di Stefa. Ovunque si trovasse, le sembrava di soffocare. Davanti alla porta dell’appartamento dell’amica, che non era in casa, ma anche nell’ascensore dell’hotel, al rientro, e nei lunghi corridoi che l’hanno condotta fino a qui. Se la stanchezza e la delusione non l’avessero sfinita, il caldo l’avrebbe tenuta sveglia per tutta la notte.
E ora, questa voce.
Perché ricomincia. Non proferisce parola, eppure parla. Una voce muta. Assurdo!
Assurdo ma vero. Quello che dice è perfettamente comprensibile, ed è la stessa frase di prima: “Mi succede qualcosa – che cosa mi succede?”.
È il residuo di un sogno, questo è certo. Ma quale sogno? Non ne ha la minima idea. Sicuramente uno di quei misteriosi incubi che la perseguitano quasi tutte le notti.
Presto, bisogna svegliarsi del tutto. Aprire gli occhi, accendere la luce. Vederci chiaro, subito!
La stanza emerge dall’oscurità. È una camera d’albergo. La sua camera. Lincoln Hotel, 8th Avenue, Manhattan.
E alla fine tutto si spiega: è a New York! Troppa impazienza, in questi ultimi mesi. Troppo tempo ad aspettare l’America.
Bisogna riaddormentarsi, è l’unica cosa da fare.
Ma non c’è verso. Che ore sono?
Di nuovo l’interruttore della luce, poi l’orologio. Le cinque del mattino. Notte troppo breve, come sempre.
“Che cosa mi succede?” si ostina a ripetere la voce, malgrado tutto.
La stanza ripiomba nell’oscurità: non serve spremersi le meningi. Quello che le succede, è già successo diciotto mesi fa. E si può riassumere in tre sillabe: Dolores.
Dolores l’incubo, Dolores il dolore, come suggerisce il suo nome.
Basta dire “Dolores” per ritrovarsi con i nervi a fior di pelle, in agguato, giorno e notte, senza tregua. Ricominciare con il rancore e le emicranie, passare dall’agitazione allo sconforto, rivivere le crisi di pianto tra le quattro mura della stanza – senza darlo a vedere, soprattutto, senza dire niente. E dibattersi senza sosta tra la disperazione e la speranza più irrazionale: “La Maledetta lo lascerà presto. O sarà Sartre a piantarla”.
Ma lui non la pianta. E nemmeno lei lo lascia. Anzi, accade esattamente il contrario, più il tempo passa e più il loro legame si rafforza: tutte quelle telefonate, negli ultimi tempi, tutte quelle lettere, quei telegrammi oltreoceano. E dire che lei abita proprio qui, a cinque o sei isolati di distanza.
Sicuramente lei non ne ha di incubi, la Maledetta. Non conosce il sapore dei sonniferi sciolti nell’alcol, non sa cosa siano i risvegli amari.
E Sartre che si fa sempre più silenzioso. O che apre bocca solo per dire che hanno gli stessi desideri, lui e Dolores, nello stesso istante. Che è confuso, che è un miracolo, che una cosa del genere non gli era mai successa.
Ogni sua parola è una fitta atroce tra le costole, un dolore così strano che ha dovuto trovargli un nome. Ma le mancava l’ispirazione, la gelosia è anche questo, azzera ogni risorsa. E si è accontentata della prima espressione che le è venuta in mente: “Colpo al cuore”.
Sarebbe meglio dire “pang”, all’inglese. Suona come uno schiaffo, esattamente l’effetto che fa Dolores-il-dolore: una cesoia che ti stringe e, pang!, ti trancia in due.
Il pang più violento risale a qualche settimana prima, la mattina in cui Sartre le ha chiesto: «Quali sono le date definitive del vostro viaggio in America, mio bel Castoro?».
«25 gennaio - 24 aprile.»
«Benissimo, allora avverto Dolores.»
«Come Dolores?»
«Sì, verrà in Francia durante quel periodo...»
Aveva architettato una vera e propria staffetta. Ed era troppo tardi per protestare: i biglietti aerei di entrambe erano già stati acquistati, e negli Stati Uniti il ciclo di conferenze era già stato organizzato – o almeno così aveva giurato l’ambasciata.
Dolores, quindi, lascerà Manhattan giovedì prossimo. E rientrerà negli Stati Uniti un po’ prima del 24 aprile, data in cui il bel Castoro, o piuttosto l’ingombrante Castoro, volerà di nuovo in Francia. Cosa accadrà a Parigi durante questi tre mesi? Dolores ha iniziato le pratiche per il divorzio, e c’è chi mormora che Sartre stia per sposarla.
E se fosse questa la profezia annunciata dalla voce?
“Mio bel Castoro...” È stato questo il ritornello di Sartre negli ultimi sei mesi.
L’altra, la Maledetta, la chiama Dolores. Ma per Simone non usa mai il suo nome. È sempre rimasto fedele a Castoro, il soprannome che le avevano dato i loro amici comuni, al tempo in cui preparavano il concorso per l’insegnamento di filosofia. Per Sartre, anche durante gli otto anni in cui sono andati a letto insieme, è sempre stata “Castoro” o “Il Castoro”, al maschile. Eppure, lo concorda al femminile, “Il Castoro è infuriata”. Anche se spesso la differenza si perde: “Il Castoro è felice”. Lei non ha mai protestato. Questa androginia le sta bene.
Perlomeno finché è sveglia. Perché di notte, quando sogna, sembra che la situazione peggiori notevolmente. Come se da là sotto, là dove nascono gli incubi, Simone si innervosisse. Recrimina, geme, rivendica la sua parte d’amore, fa “la donnicciola” come direbbe Sartre.
E non bisogna lasciarle campo libero; se non la si tiene a freno, non la smette più. L’unica soluzione è attenersi alla decisione presa diciotto anni fa, all’inizio del legame con Sartre: essere la sua stella fissa, qualunque cosa accada.
Ma ecco che nella vita di Sartre c’è una nuova stella. Ora è a Dolores che sono rivolti le sue parole, i suoi pensieri, le sue fantasie, tutto. L’anno prima, in esergo al dramma Morti senza tomba, aveva scritto: “A Dolores”.
Pang. E qualche tempo dopo, aveva dedicato ancora “A Dolores” il primo numero di “Les Temps modernes”.
Non l’aveva avvisata, e lei aveva scoperto l’affronto quando era ormai troppo tardi, durante la serata organizzata per festeggiare la nascita della rivista. Qualcuno aveva notato che le sue guance erano impallidite: «Il Castoro sta per svenire...».
I commenti della gente avevano ferito il suo orgoglio. Ma era riuscita a riprendersi in tempo. E il suo contegno era stato così impeccabile che nessuno aveva mai saputo niente di quello che era successo in seguito – crisi di pianto-sbronza-incubi nella piccola stanza d’albergo che affitta per tutto l’anno a Saint-Germain-des-Prés. Ma da quel giorno, la sua la vita si era trasformata in una sequenza interminabile di pangs. Quelli che ti aspetti, perché sai che arriveranno. Quelli che ti piombano addosso di sorpresa, mentre non ci pensi. E anche quelli che sei tu stesso a provocare, nei giorni in cui non ne puoi più di essere dilaniato dal dolore dalla mattina alla sera, e in cui ti svegli prendendo a pugni il muro: “Fa’ che un ultimo pang mi uccida e non se ne parli più!”.
Sei mesi prima, c’era mancato poco che accadesse. Lei e Sartre stavano pranzando, lui sembrava così pensieroso e i suoi silenzi erano tanto pesanti che la domanda era sorta spontanea: «Francamente, tenete di più a Dolores o a me?». E lui aveva risposto all’istante, come se aspettasse quella domanda da settimane: «Tengo enormemente a Dolores, ma è con voi che sto».
Il pang, quel giorno, non era stato provocato solo dalle sue parole – la risposta del classico maschilista, che vuole tenersi stretta sia la moglie che l’amante – ma anche dal tono con cui le aveva pronunciate: la stessa sfumatura metallica che usava con le sue giovani conquiste, nel momento in cui decideva di abbandonarle.
Aveva iniziato a fissare il piatto, la testa bassa come una ragazzina che è appena stata messa in punizione. E l’evidenza era esplosa, lampante e atroce al tempo stesso: quella tra lui e Dolores non era un’avventura, era passione. Quei due si amavano. E Sartre non aveva usato giri di parole il giorno in cui aveva confessato di non aver mai vissuto un simile miracolo.
Miracolo, solo questo aveva detto: dove era finita, dunque, la sua splendida ragione ragionante, l’arte di dare risposte semplici a tutto ciò che per i comuni mortali rappresenta un enigma? Non solo aveva perso la sua lucidità, ma si inchinava, si prostrava davanti al mistero, strisciava davanti a questa Dolores che era riuscita laddove tutte le altre donne avevano fallito. Una sconfitta in campo aperto: molto banalmente, era caduto nelle sue grinfie.
E lei, Il Castoro, che era stata la più giovane abilitata all’insegnamento di filosofia in Francia, per la prima volta in vita sua si ritrovava nel gruppo delle bocciate.
La scena al ristorante se la ricorderà per tutta la vita nei minimi dettagli. L’arco descritto da quello squisito pesce bianco sul piatto di ceramica, il coltello e la forchetta in silver plate, che aveva sollevato e subito posato sulla tovaglia damascata perché non c’era più verso di inghiottire un solo boccone. E Sartre che continuava a masticare come se niente fosse. Quando l’aveva vista rimanere immobile, si era innervosito: «Tutto bene?».
«Ho ingoiato una spina» aveva risposto prontamente.
Era dalla voce che Sartre aveva capito che era una cosa seria. Un filo di voce rauca, invece del suo abituale tono acuto. Si era alzato, l’aveva presa per un braccio e l’aveva portata a casa sua, lontano da sguardi indiscreti. E una volta lì, con quel misto di tenerezza e virtuosismo verbale che riusciva a far dimenticare a tutte le donne quanto somigliasse a uno gnomo, le aveva rifilato un po’ di filosofia: «Si è trattato di un banale malinteso, mi sono espresso male. Ma tra noi due, lo sapete, contano solo i fatti. L’avete visto: non vi ho mai, e dico mai, abbandonata. E potete stare certa che non vi lascerò mai».
Lei gli aveva creduto. Come sempre.
Qualche tempo dopo si era preso la parotite. E questo aveva impedito ogni ulteriore discussione. Lui aveva bisogno di riposare, e lei è corsa a sprangare la porta per evitare visite inopportune.
Improvvisamente, si era riaccesa la passione di quando aveva vent’anni. E la sera in cui i dubbi avevano ripreso il sopravvento, li aveva scacciati con forza: “Lavoro troppo di fantasia. Nessuno è più sincero di Sartre. Il patto tra me e lui regge ancora. Il nostro legame è indissolubile, e nessuno riuscirà a spezzarlo. Nemmeno quella carogna”.
E subito le erano tornati in mente i bei momenti trascorsi insieme. I giorni felici. Quanto tempo era passato? Diciotto anni. Diciotto anni da quella magnifica estate in cui Sartre continuava a ripeterle che avevano in fronte dei segni gemelli che solo loro potevano vedere. Eppure, un giorno, si era accorta che per Sartre ogni occasione era buona per adocchiare altre donne. Probabilmente lei aveva già avuto qualche incubo, o un paio di crisi di nervi, perché è in quel periodo che Sartre aveva estratto dal cilindro la storia del patto. «Stipuleremo un contratto di due anni, rinnovabile...» Spinta dall’ardore giovanile – e anche colta di sorpresa – aveva accettato. Senza riflettere, senza rendersi conto che, in ambito diplomatico o militare, si parla di patti quando c’è il rischio che scoppi una guerra.
Da quel momento in poi, del resto, aveva iniziato a vivere nel terrore. Erano ricominciati gli incubi, le crisi di nervi. Nonostante si fossero promessi un legame eterno: il loro sarebbe stato “l’amore necessario”, aveva dichiarato Sartre, e le altre relazioni avrebbero rappresentato solo degli amori “contingenti”. Avrebbero reinventato le regole dell’amore. Avrebbero potuto concedere ad altri il loro corpo, senza farsi mai coinvolgere mentalmente. A una sola condizione: quella di dirsi tutto.
E se la trovata del patto non fosse stata altro che un gioco di prestigio? Un giro di parole, un espediente per giustificare i peggiori tradimenti? Perché Sartre, sin dall’inizio, aveva mentito, questo è certo; o perlomeno non aveva raccontato tutto. E la contingenza, nei suoi scritti filosofici e nei suoi romanzi, in fin dei conti aveva un ruolo diverso e molto più essenziale! Nessuno poteva saperlo meglio di lei: era stata la prima a leggere il manoscritto dell’opera che lo aveva reso celebre prima della guerra, quel libro che gli era costato tanta fatica, La nausea. Lo avevano rimaneggiato insieme decine di volte, fino a quando Sartre aveva trovato un editore. L’unico punto in comune tra il suo rapporto con Sartre e la contingenza filosofica – o almeno quella che aveva messo in scena in quel romanzo – era l’amara consapevolezza di essere di troppo in un mondo che non si curava affatto dell’infelicità degli esseri umani che lo popolavano. Era esattamente quella la sensazione che aveva avuto sei mesi prima, al ristorante, quando si era messa a fissare il piatto di pesce: “È Dolores, ora, l’amore necessario, e io sono solo una contingente... Sono diventata la donna di troppo...”.
Si scrolla di dosso il lenzuolo. Con lo stesso gesto di stizza con cui aveva buttato il tovagliolo sul tavolo nel momento in cui Sartre l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva trascinata fuori dal ristorante.
Inutile, fa comunque caldo. E fuori è ancora buio. Il mattino non arriverà mai. Bisogna strapparsi dalle tenebre della memoria senza aspettare che faccia giorno.
Ma i ricordi sono come la pece. Una sostanza vischiosa che ostruisce tutte le vie d’uscita. E i più dolorosi sono anche i più sfuocati. Il periodo prima della guerra – quand’era esattamente? il 1936, ’37, ’38? – quando aveva aperto gli occhi: Sartre si concedeva continuamente ad altre donne. Mentre lei non lo tradiva quasi mai.
Quando accadeva, era sempre con delle ragazze. Il più delle volte con le sue allieve, che si gettavano tra le sue braccia affascinate. Lei non si opponeva e faceva in modo che, prima o poi, le ragazzine finissero nel letto di Sartre. Così, almeno, sapeva con chi la tradiva. E, dal momento che si dicevano tutto, sapeva anche come.
Il loro patto si era ridotto a questo. Il legame indispensabile, la fusione spirituale, la condivisione delle ambizioni, la promessa di assistenza reciproca nel bene e nel m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Beauvoir in love
  3. Premessa
  4. Prima parte - APPENA PRIMA
  5. Seconda parte - COLLISIONE
  6. Terza parte - SULLE SPINE
  7. Quarta parte - WABANSIA
  8. Quinta parte - LONTANO
  9. Sesta parte - GIORNATE INQUIETE A WINDY CITY
  10. Settima parte - VIAGGIO SENTIMENTALE
  11. Ottava parte - PARIGI FU QUASI UNA FESTA
  12. Nona parte - IN TUTTE LE LACRIME INDUGIA UNA SPERANZA...
  13. Nota dell’autrice
  14. Bibliografia
  15. Ringraziamenti
  16. Copyright