Il vice commissario Ambrosio si chinò per prendere il pacchetto delle Muratti sotto il cruscotto della Golf: proprio in quell’istante udì il fracasso, qualcosa di fulmineo che lo lasciò sconvolto, il cuore impazzito. L’istinto gli impedì di alzarsi. Si ritrovò disteso sui sedili, immobile, il vetro di destra ridotto a un’orrida ragnatela, il montante di sinistra del parabrezza bucato, come se avessero usato un trapano.
Quanti secondi rimase lì, le mani gelate, la bocca arida?
Udì alcune voci, una in particolare, quella di Saverio, il meccanico del garage, e allora si alzò e uscì dalla macchina.
«Come sta, dottore... come sta?»
«Bene,» disse Ambrosio «sto bene.»
«È pallido.» Saverio lo guardò, sorpreso e triste, almeno così gli parve.
«Hanno sparato» disse una donna anziana con la borsa della spesa a rotelle, e in cima ai pacchi un mazzo di asparagi.
«Chiamo la Volante?»
«Non fa niente» rispose Ambrosio guardandosi in giro. «Dev’essere stato qualcuno dalla strada.»
Osservò il foro sul metallo, lo sfiorò con un dito:
«Qualcuno con un’arma di buon calibro.»
«È stato fortunato, dottore» ammise il meccanico, toccandogli il braccio.
Stava arrivando gente.
«Forse non volevano uccidermi.» Lo disse soltanto perché non sopportava l’idea che poteva essere già morto, morto da tre minuti, con la testa fracassata da un colpo di carabina, i sedili dell’auto imbevuti del suo sangue.
Il traffico continuava come se non fosse accaduto nulla.
«Quando ho abbassato la testa mi hanno sparato» disse a Massagrande, il capo della mobile, mezz’ora dopo. Aveva lasciato la Golf in garage ed era andato a piedi in via Fatebenefratelli.
«Pensa a un avvertimento?»
«Forse, ma non ne sono sicuro.»
«Hanno rischiato di far fuori anche qualche passante.»
«Credo che il proiettile sia finito nel muro della casa di fronte.»
«Da dove avranno sparato?»
«Da un camioncino, da un furgone.»
«Come lo sa, Ambrosio?»
«Lo immagino. Da un’auto no, troppo pericoloso, qualcuno avrebbe potuto vederli. Per quanto... Però ci sono dei furgoni che hanno delle aperture laterali, a perno» e fece il gesto con la mano.
«Doveva essere un fucile a cannocchiale» aggiunse.
«È sempre una sua supposizione.»
«Ho messo le mani su qualcosa che...»
«È convinto che si tratti della faccenda Merisi?»
«Non mi occupo d’altro, in questi giorni.»
«Sono tempi balordi, sparano a chiunque.»
«Capo, a meno che non mi abbiano preso per un altro, e non lo credo, allora hanno deciso di eliminarmi, o di farmi paura.»
«Se ne vada fuori dalle scatole per una settimana, Ambrosio.»
«Non ne ho voglia.»
«Si prenda una vacanza, Cristo. Vada a Portofino. Lei è mezzo scapolo, rischia persino di divertirsi.»
«Che cosa ha intenzione di fare?»
«Amico mio, ragioni un attimo: dove lo trova un magistrato disposto a incriminare qualcuno in base alle nostre supposizioni? Anzi, alle sue supposizioni.»
«Lei non mi crede?»
«È tutto così fluido, inafferrabile.»
Massagrande, in effetti, non aveva torto. Almeno dal suo punto di vista.
La storia era cominciata, per il vice commissario, la domenica precedente quando, alle sette meno venti minuti, un certo Aldo Benni, ingegnere della Face Standard, mentre passeggiava, fumando la sua prima sigaretta, ai margini del parco Ravizza, nella zona Sud di Milano, insieme a Frau, un pastore tedesco di due anni, notò un uomo, che indossava un impermeabile chiaro, sdraiato dietro una panchina di pietra. Sembrava dormisse.
Il cane si avvicinò a quel corpo, annusandolo. Poi cominciò ad abbaiare. Quando l’ingegnere si accorse della macchia di sangue che l’uomo aveva sul petto, mise il guinzaglio alla bestia che, in quegli istanti, pareva una lupa selvatica tanto era agitata, anzi furiosa, e la trascinò a casa, ai limiti del viale, per telefonare al 113.
Alle sette, nel chiarore di quella mattina di marzo – la primavera era sopraggiunta dopo un inverno insolito, stranamente mite – giunse la prima auto della Volante, e più tardi, verso le otto, il medico e uno dei sostituti di turno.
La domenica tutti sono un po’ irritabili, quando lavorano, e Ambrosio percepì quel senso di precarietà, che di solito assume chi agisce di malavoglia, anche nell’atteggiamento degli addetti al furgone nero dell’obitorio. Come se trasportare cadaveri di martedì o di sabato fosse più consolante. Invece, per quanto lo riguardava, quella chiamata lo aveva distratto dalla noia sottile, un po’ maligna, che lo coglieva sempre nelle pause dei giorni festivi trascorsi alla scrivania, in sostituzione di qualche collega in vacanza, o malato, come questa volta. Miccichè si era spezzato una caviglia sciando, lo sciagurato, alla sua età. Che poi era quella di Ambrosio.
Gli trovarono in tasca un tesserino amaranto dell’ordine dei giornalisti, si chiamava Walter Merisi, era nato a Como nel 1943, abitava in via Giovanni Rotondi, vicino alla Fiera campionaria. Non aveva danaro nelle tasche, né portafoglio, e neppure l’orologio al polso.
«Probabile rapina» disse il sostituto procuratore.
«La morte risale, più o meno, a otto ore fa» concluse il medico, sbadigliando: era tarchiato, rosso di capelli, pieno di efelidi. Ambrosio notò le unghie rosicchiate e le ciglia color carota, nel sole.
Mentre la barella veniva infilata nel furgone e gli agenti della Volante riprendevano posto in macchina, il vice commissario si incamminò verso la Golf, che aveva posteggiato dall’altra parte del viale, guardando le betulle, gli ippocastani, gli aceri con le gemme appena spuntate, che davano al parco un’aria da acquarello inglese.
Teneva in mano la tessera amaranto con la fotografia della vittima. Doveva essere stato uno di quei giovanotti che piacciono alle donne: occhi chiari, naso ben disegnato, folti i baffi biondi su una bocca vagamente crudele. Sua madre invece era una vecchina magra, occhiali azzurrati con la montatura d’oro; indossava un abito grigio perla, i capelli bianchi in una retina di nailon, aveva una voce acuta. Viveva in quell’appartamento fuori moda, sovraccarico di ninnoli d’argento, di ventagli sottovetro, di disegni a carboncino di Pompeo Mariani: donne con cappelli a tesa larga, carrozze, cavalli, ragazze con stivaletti e nastri. Il pavimento in parquet di rovere scricchiolava, lucido di cera. Nella penombra, profumo di deodorante alla lavanda, e anche un sentore di soffritto.
Dalla finestra del soggiorno si vedevano i rami di un tiglio, ancora spogli, come tutti quelli degli alberi della strada, quieta nella domenica di primavera.
Aveva suonato al citofono del custode, ma non rispondeva nessuno. Gli sarebbe piaciuto chiedere qualche informazione, non capitare così e dare, brutalmente, quella notizia di morte. E invece.
«Sono un conoscente di Walter» disse.
«È qualcuno del giornale?» chiese lei.
«Sì» mentì Ambrosio. Lo scatto del cancello, il giardinetto con la siepe di ligustro, la porta a vetri, l’ascensore. Lo prese un filo d’angoscia osservando nella cassetta delle lettere una busta con quel nome: “dottor Walter Merisi”.
«Mio figlio non c’è. Si accomodi, prego.»
«Non vorrei disturbarla, signora.»
«È partito ieri, per lavoro. Tornerà stasera all’ora di cena.»
«Signora,» disse Ambrosio «vorrei... vorrei che lei si sedesse qui, con me, per qualche minuto. Suo figlio ha avuto un incidente.»
Si portò la mano alla bocca e lo fissò, sgomenta.
«Che incidente?»
«Non lo so di preciso.»
«È grave?»
«Abbastanza. Credo di sì.»
«L’hanno portato all’ospedale?»
«Sì, certo. È che...»
«Morirà?»
Avrebbe voluto dirle di no, almeno per il momento, darle ancora un attimo di speranza. Prepararla, come si dice. Non trovò di meglio che soffiarsi il naso. E lei, allora:
«È morto? Walter è morto?»
Le fece cenno di sì, e la vecchia signora si alzò, si tolse gli occhiali e appoggiò la fronte ai vetri della finestra. Poi si voltò, gli occhi asciutti, opachi:
«Quando è successo?»
«Stanotte. Probabilmente è rimasto vittima di una rapina. Forse avrà tentato di difendersi... gli hanno sparato.»
«Usciva sempre... il mio ragazzo usciva sempre. Glielo dicevo di stare attento, sono tempi orrendi. Ma lui... lui non aveva paura di niente. Andava, veniva... Abitava con me. Noi due soli, dopo la morte di suo padre. Venga, venga a vedere.»
La stanza non era grande, le librerie di noce su tre pareti la rendevano anzi angusta: un letto alla turca con un plaid di lana, un tavolo Ottocento con il piano in marocchino rosso e, sopra, una Olivetti azzurra. Su un vano della libreria, accanto alla finestra, alcune fotografie in cornici d’argento.
«Questa è la fidanzata di Walter» disse lei indicandogli il ritratto di una giovane assai attraente, quasi un’attrice del cinema.
«Si chiama Valentina. Mio figlio le vuole molto bene... le voleva molto bene. Quando potrò vederlo? Dove l’hanno portato?»
«All’Istituto di medicina legale.»
«In piazzale Gorini, all’obitorio?»
«Sì, signora.»
«Lo so... lo so perché una volta, tanti anni fa, sono stata in quell’orribile posto. Una mia cugina era morta... si era suicidata con il gas.»
«Suo marito, signora, che cosa faceva?»
Era un modo per distrarla.
«Aveva un’industria a Como, una fabbrica di chiodi. Stavamo bene, facevamo una vita da ricchi, avevamo una Lancia Aprilia, due domestiche, la villa a Cernobbio.»
Gli venne in mente suo padre, il giudice, che voleva trascorrere sempre quindici giorni di fine estate a Moltrasio, lì vicino, e lui era ragazzo, soffriva di malinconie, con tutte quelle campane, la pioggia sul lago, i salici, struggenti nelle sere di set...