Chiunque abbia un cuore
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Chiunque abbia un cuore

La mia vita e la mia musica

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Chiunque abbia un cuore

La mia vita e la mia musica

Informazioni su questo libro

Amore per la musica. Amore per le donne. Amore per l'esistenza. La vita di Burt Bacharach suona come un'unica e appassionante canzone d'amore. Del resto, nessuno come il compositore americano ha segnato in modo tanto profondo e durevole il linguaggio del sentimento. In questa meravigliosa autobiografia, Bacharach ripercorre la sua intera esistenza a partire dalla città di nascita, Kansas City, e dai suoi genitori, tedeschi di origine ebraica. Fu proprio la madre a intuirne il talento e a instradarlo allo studio del pianoforte e poi a college specializzati nella formazione musicale. L'arrivo nella New York degli anni Sessanta, un vulcano che ribolliva di creatività, locali, artisti, R&B e jazz, gli diede la chance di piazzare i suoi brani di musica pop. Il primo momento magico della sua carriera arrivò con Magic Moments, tuttora un evergreen. Nel breve volgere di qualche anno i più importanti cantanti della scena internazionale, fra cui Marlene Dietrich, fecero la fila per cantare le sue canzoni e averlo come direttore d'orchestra nelle tournée. Rispettoso del suo destino di stella di prima grandezza, Bacharach compose capolavori come I Say a Little Prayer, Close to You, I'll Never Fall in Love Again, The Look of Love, That's What Friends Are For, oltre a meravigliose colonne sonore di film blockbuster come Ciao Pussycat e Butch Cassidy and The Sundance Kid, le cui vendite hanno fatto di lui il diciottesimo miglior compositore nella storia della musica mondiale. Oltre alla genesi di tantissime hit, Bacharach racconta in modo coinvolgente la sua vita privata (quattro mogli e innumerevoli flirt), il lato sconosciuto dei tantissimi artisti che ha incontrato (da Frank Sinatra a Dionne Warwick, la voce perfetta delle sue canzoni) e l'affermarsi gentile dell'egemonia culturale pop degli Stati Uniti sul mondo intero a suon di dischi e trasmissioni radiofoniche. Un libro eccezionale, in cui la voce dell'autore si fonde con quella di altri meravigliosi protagonisti della scena artistica del Novecento in una composizione avvolgente e compatta. Dirige, come da par suo, Burt Bacharach.

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1

The Story of My Life

Da bambino, tutti in famiglia mi chiamavano Happy. Quando nacqui, mio papà avrebbe voluto darmi il suo stesso nome, Bert, così ci sarebbero stati un Big Bert e un Little Bert; mia madre però voleva risparmiarmi la scocciatura di essere chiamato Bertram, com’era successo a mio padre da ragazzo, perciò arrivarono a un compromesso e mi chiamarono Burt. Anche se i due nomi hanno una grafia diversa, la gente chiedeva sempre a mia madre: «Oh, suo figlio è Bert Junior?» e lei replicava: «No, no».
Per evitare la sovrapposizione, alla fine mia madre si limitò a dire: «Chiamiamolo Happy». Non so da dove avesse tirato fuori quel nome, perché non credo di essere stato molto felice da bambino. In realtà mi sentivo molto solo. Mio papà lavorava a Kansas City come buyer di articoli di moda maschile, e probabilmente non pensò mai che il nostro nome potesse diventare famoso al di fuori del nostro quartiere.
I miei nonni, sia paterni che materni, non ritenevano che i miei genitori fossero una coppia ben assortita, e credo che mamma e papà si siano trasferiti a Kansas City per tenere segreto il loro matrimonio. Sono nato a Kansas City il 12 maggio 1928, ma i miei ricordi d’infanzia iniziano solo da quando ci trasferimmo a Forest Hills, nel Queens, dove crebbi in un appartamento al primo piano di un edificio di tre piani al 150 di Burns Street, appena un paio d’isolati dal Queens Boulevard.
Nessuno della mia famiglia frequentava la sinagoga né badava troppo alla propria origine ebraica. Non menzionavamo mai il fatto di essere ebrei con la gente; perciò avevo l’impressione che fosse una cosa di cui vergognarsi e da tenere nascosta. Non avevo molti amici a Forest Hills, ma i ragazzi che conoscevo erano cattolici e in gran parte andavano in chiesa all’Our Lady Queen of Martyrs. Ogni volta che giocavamo a football contro una squadra di giocatori ebrei, il nostro capitano diceva: «Forza, facciamoli neri quegli ebrei» e io rincaravo la dose: «Sì, facciamoli neri, quegli ebrei!». Volevo stare con loro, quindi dovevo parlare come loro.
Da adolescente ero molto basso di statura. Al liceo di Forest Hills c’erano tremila studenti, ma non uno di loro, nemmeno fra le ragazze, era più basso di me. Insomma, avevo già abbastanza problemi anche senza ammettere di essere ebreo.
Da ragazzo non leggevo molto, ma amavo un libro in particolare, che rileggevo spesso: Fiesta (Il sole sorgerà ancora) di Ernest Hemingway. Mi identificavo con il protagonista, Jake Barnes, che non aveva rapporti sessuali perché impotente. Ma il mio problema non era quel tipo di impotenza. Ero impotente socialmente, perché mi portavo addosso tutto quel fardello e non avevo mai la sensazione di essere a mio agio da nessuna parte, né a scuola né nel vicinato.
Vivevo a Forest Hills, ero ebreo, ma non volevo che nessuno lo sapesse. Ero troppo basso perché una ragazza notasse anche solo che ero vivo. Leggevo Fiesta e mi portavo dietro un nome come Happy. E, mentre avrei potuto trovare me stesso imparando davvero a suonare il pianoforte, non c’era niente al mondo che odiassi più di quello strumento.
Cominciai a prendere lezioni di piano a otto anni. Ogni pomeriggio, quando tornavo a casa da scuola, mia madre mi faceva sedere al piano verticale nel nostro soggiorno a fare pratica per mezz’ora. In casa mia, la spinta verso la musica veniva sempre da lei. Ciò che volevo fare veramente era andare in strada a giocare a palla come tutti quelli che conoscevo. Ogni volta che mia madre diceva che dovevo esercitarmi al piano, si litigava e suonavo solo perché lei non mi lasciava altra scelta.
Mia madre suonava a orecchio, cosa che ritenevo notevole e mi chiedevo: “Perché non m’insegna a fare come lei? Sarebbe molto più facile che ripetere le scale di continuo”. Ma ogni volta che toccavo l’argomento, lei mi diceva: «Devi imparare a suonare correttamente». Da giovane, mia madre avrebbe voluto diventare una cantante. Non so che fine avessero fatto quei sogni, ma la sua carriera di musicista non decollò e allora puntò tutto su di me.
Era nata e cresciuta ad Atlantic City, nel New Jersey. Mio nonno, Abe Freeman, aveva un negozio di liquori al discount, che ebbe grande successo finché il Proibizionismo non lo costrinse a chiudere. Allora gestì una farmacia sul boardwalk, la famosa passeggiata di legno, e guadagnò abbastanza da mandare in scuole private le sue tre figlie: mia madre Irma e le sue sorelle Dottie e Julia.
Nel 1929, con il crollo della borsa, Abe perse tutto. Era presidente della Beth Israel, sinagoga dell’Ebraismo Riformista ad Atlantic City fondata da uno dei miei cugini Bacharach, ma non poté più permettersi di pagare la sua quota; si presentò al consiglio e rassegnò le dimissioni. Furono accettate e lui non tornò mai più alla Beth Israel. Qualsiasi legame mia madre avesse avuto con la sua origine ebraica terminò in quel momento, il che spiega in parte il modo in cui io fui cresciuto.
Mia madre aveva un grande gusto in fatto di moda, arte, musica, gusto che mantenne fino al giorno della sua morte. Un mio cugino che veniva spesso a trovarci a Forest Hills ancora ricorda il nostro appartamento come la casa meglio progettata e arredata che avesse mai visto: alti soffitti, pavimenti in parquet e grandi finestre che lasciavano entrare un mucchio di luce. In un periodo in cui tutti lasciavano le pareti bianche, le nostre erano ognuna di colore diverso, arricchite con quadri a olio in cornice, alcuni dipinti proprio da mia madre.
Quando ero ormai adolescente, mio padre era diventato un giornalista. Lui e mia madre andavano spesso a cena fuori, ma non dovevano mai pagare, perché mio padre avrebbe potuto scrivere un articolo sul locale. Non mi sentivo mai a mio agio con loro al ristorante perché, anche se non avremmo pagato, mia madre chiedeva sempre al cameriere: «Ha il succo d’arancia?». E quando lui diceva di sì, lei chiedeva: «È sicuro che sia fresco?».
Mio papà era realmente motivato e lavorava tutto il giorno, ma, quando veniva da me, era la persona più gentile e meno ossessiva del mondo. Più di ogni altra cosa volevo essere come lui. La domenica mattina, mentre aspettavo che si svegliasse, sfogliavo i suoi vecchi album di ritagli, perché era decisamente il mio eroe. Come mia madre, era cresciuto ad Atlantic City e lì aveva cominciato a lavorare prima come ragazzo dei giornali e poi come bagnino, durante l’estate.
Mio padre, un tipo grande e grosso che superava il metro e ottanta e pesava novanta chili, assomigliava molto a suo padre, Max Bacharach, che tutti chiamavano “Backy”. Sempre vestito in maniera perfetta, con camicia dal colletto alto e ghette, mio nonno saliva sulla sua Ford modello T con avviamento a manovella, visitava tutte le piccole cittadine della Pennsylvania e vendeva vestiti da uomo. Anche se guadagnava bene come venditore, suo cugino Harry, che era sindaco di Atlantic City e dal quale prendeva il nome la Bacharach Giants, la locale squadra nella Negro League, e suo cugino Isaac, che per undici anni era stato membro del Congresso degli Stati Uniti, avevano un successo molto maggiore.
A diciotto anni, mio papà entrò nel Virginia Military Institute, dove fu premiato in quattro sport. Giocò fullback nella squadra di football e fu capitano della squadra di basket nel campionato All-Southern Conference. Durante la Prima guerra mondiale lasciò il college per un anno e si arruolò come sottotenente nei Marine.
Dopo il diploma al VMI, andò a lavorare come capo buyer d’abbigliamento da uomo per un grande magazzino di Baltimora, dove guadagnava venti dollari a settimana. Ma ne doveva pagare venticinque per vitto e alloggio, perciò, come attività extra, si mise a giocare da professionista a basket e a football. A quei tempi fare l’atleta professionista non era nemmeno lontanamente redditizio come oggigiorno e lui, per incrementare i guadagni, giocava contemporaneamente in cinque squadre di basket. Quando due di queste si affrontavano, doveva scegliere quella per cui giocare.
Quando a New York aprì Saks Fifth Avenue andò a lavorare lì e poi fu responsabile degli acquisti nella catena di grandi magazzini Bamberger’s a Newark, quindi al Woolf Brothers a Kansas City. Poco dopo la mia nascita, ci trasferimmo a Kew Gardens, nel Queens. A un certo punto rimase disoccupato, per sei mesi, e ne approfittò per lanciare un periodico per professionisti del ramo abbigliamento da uomo, quindi divenne redattore della rivista “Collier’s”.
Lasciò quel lavoro per passare alle relazioni pubbliche e poi fu co-presentatore radio di uno spettacolo a quiz per la WJZ chiamato Suit Yourself. Fu anche il presentatore del primo programma televisivo sponsorizzato di New York. A un certo punto cominciò a scrivere una rubrica chiamata “Stag Lines”, che compariva su ottantaquattro giornali, nonché una rubrica intitolata “Now See Here”, che usciva cinque giorni a settimana sul “Los Angeles Herald-Examiner”, sul “San Francisco Examiner” e su “Indianapolis Star”. Per molti anni comparve in un filmato dal titolo For Men Only, che veniva trasmesso durante il cinegiornale nei cinema di tutto il paese. Scrisse anche tre libri sulla moda maschile, la cura del proprio aspetto e della casa, che ebbero buon successo di vendite.
Poiché mio papà nei suoi articoli non aveva mai una parola scortese per nessuno, aveva sempre lavoro e se la cavava, perciò io, mentre crescevo a Forest Hills, non avvertii l’impatto della Depressione. D’altro canto, non mi sentii mai ricco, perché tutte le persone che papà conosceva nel ramo dell’abbigliamento avevano molto più denaro di noi.
Quando avevo tredici anni i giapponesi attaccarono Pearl Harbor. Ricordo molto chiaramente quel giorno. Ero andato con mia madre e mio padre allo stadio Polo Grounds per vedere i New York Giants contro i Brooklyn Dodgers nell’ultima partita della stagione regolare. Era il giorno dedicato a Tuffy Leemans e i Giants avrebbero premiato e onorato il loro fantastico fullback.
Anziché sedere con i miei genitori, guardavo la partita dal box stampa, con Dick Fishell che faceva la radiocronaca per la WHN. Dick era un buon amico dei miei e io lo guardavo con vera ammirazione perché era un bell’uomo e aveva molto successo con le ragazze. Mi pareva proprio il tipo che aveva tutto. Quando gli giunse la notizia, poco prima dell’intervallo, Dick mi guardò e disse: «Merda, hanno bombardato Pearl Harbor». Chiesi: «Dov’è Pearl Harbor?».
Nell’intervallo scesi dai miei genitori, che sedevano a una decina di file dal campo, e domandai: «Dov’è Pearl Harbor? L’hanno appena bombardato». «Chi è stato?» chiese mio padre e io risposi: «I giapponesi». Fu così che papà seppe del nostro coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale. Al tempo non c’erano ancora la CNN e i telegiornali 24 ore su 24, naturalmente, perciò nessun altro allo stadio Polo Grounds seppe niente dell’accaduto finché la partita non terminò.
Mio padre aveva quarantatré anni quando scoppiò la guerra. Anche se era troppo vecchio per servire nelle forze armate, lavorò come consulente civile per l’Aviazione nel campo Wright in Ohio. Vendette anche 5 milioni di dollari di titoli di guerra in eventi speciali e collaborò all’organizzazione di spettacoli d’intrattenimento per i militari negli ospedali. Per me, che ero un ragazzino, la Seconda guerra mondiale fu una cosa di cui leggevo nei giornali e di cui sentivo parlare nei discorsi della gente. In realtà non mi toccò affatto direttamente e fino alla conclusione non seppi niente dei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto.
Ciò che ricordo chiaramente di quegli anni è il momento in cui tornai a casa dopo la partita dei Giants contro i Chicago Bears, che avevano giocato al Polo Grounds il 14 novembre 1943. Quando papà e io entrammo in casa, mia madre stava ascoltando la radio. Ancora entusiasta per la partita, cominciai a parlarne, ma lei m’interruppe. «Peccato che tu non fossi qui, ti sei perso una cosa incredibile. Bruno Walter doveva dirigere la Filarmonica, ma si è ammalato e allora un giovane sconosciuto ha preso il suo posto ed è stato stupendo. Si chiama Leonard Bernstein.» Andai in camera mia e pensai: “Leonard Bernstein? Merda, lo conosco”. Lo conoscevo davvero.
A quel tempo avevo già cominciato a prendere lezioni di pianoforte da una donna, Rose Raymond, che aveva studiato con Leopold Godowsky al conservatorio di Vienna. Abitava a Manhattan, all’angolo fra la Riverside Drive e la Sessantottesima. Una volta alla settimana facevo un’ora di lezione a casa sua ed era sempre una tortura, perché mi faceva fare tutti quegli esercizi per le dita senza farmi mai suonare una sola nota. In uno dei suoi recital avrei dovuto suonare il Clair de Lune, ma dimenticai le note e feci un casino.
Anche se pensavo di non avere talento e odiavo gli esercizi, una volta a settimana prendevo la metro da Forest Hills a Manhattan, scendevo alla Cinquantatreesima e salivo su un autobus a due piani fino all’appartamento di Rose Raymond. Non importa quanto facesse freddo, viaggiavo sempre al piano superiore perché mi piaceva stare lassù. Un giorno ero lì seduto al freddo, con un paio di altri coraggiosi, quando un giovanotto che mi pareva un po’ strano salì la scaletta e si sedette accanto a me.
Quando mi misi a fischiettare un motivo, lui disse: «Non è Two O’Clock Jump?». Risposi: «Sì, la conosci? Sei un musicista?». Disse di sì, così gli chiesi se suonava in uno dei bar del posto. «No, a dire il vero sono un direttore d’orchestra» disse. Gli chiesi quale orchestra dirigeva e mi rispose: «La Filarmonica di New York». «Ma va là» dissi. «So chi dirige la Filarmonica. È Bruno Walter.» E lui ammise: «Be’, sono vice-direttore».
Ci presentammo e mi preparai a scendere dall’autobus; l’ultima cosa che gli dissi fu: «Bene, Lenny, ti vedrò in cima un giorno o l’altro». Intendevo dire che prima o poi l’avrei rivisto sul piano superiore dell’autobus. E ora aveva debuttato alla grande sostituendo all’ultimo minuto Bruno Walter in una trasmissione radio nazionale. L’indomani, il “New York Times” dedicò a quel debutto un articolo in prima pagina, così scrissi a Lenny una lettera, ma non ricevetti mai risposta.
Quando dissi a mia madre come avevo conosciuto Leonard Bernstein, lei commentò che era meraviglioso. Anche se, penso, in cuor suo si augurava che un giorno dirigessi io la Filarmonica o componessi musica per orchestra, era solita ripetermi: «La musica non è una carriera che voglio che tu segua. Voglio solo che tu riesca a suonare per piacere personale, come faccio io».
Un paio d’anni più tardi andai al campo musicale del Tanglewood Music Center nel Massachusetts occidentale. Prima di partire, Morton Gould, un noto compositore e direttore, amico dei miei genitori, mi disse: «Non preoccuparti delle ragazze. Bada ai ragazzi». Non ero sicuro di avere capito che cosa intendesse, ma la prima notte laggiù un ragazzo mi chiese di togliermi scarpe e calzini per mettere il piede contro il mio. Pensai che fosse una cosa davvero bizzarra, perciò rifiutai. Anche se mi fossi tolto la scarpa, mi sarei avventurato solo fino al calzino.
Ero al ricevimento per gli studenti della facoltà di Tanglewood quando vidi Lenny Bernstein, perciò mi presentai di nuovo. Lenny era con Felicia Montealegre, che in seguito sposò, e quando capì chi ero, disse alla ragazza: «Abbiamo un sorprendente passato». Lei pensò che avessimo fatto molto di più che incontrarci per caso su un autobus che attraversava la città e disse: «Ma è così giovane, Lenny».
Lenny era brillante e ho sempre avuto grande ammirazione per il suo lavoro: avrebbe potuto scrivere West Side Story al mattino e poi dirigere Bach nel pomeriggio. Non lo vidi di nuovo fino al 1980, quando lavoravo alla campagna elettorale di Ted Kennedy per le primarie presidenziali democratiche del New Hampshire. Partecipavo a una cena in casa della sorella di Ted, Jean Smith, e anche Lauren Bacall era fra gli ospiti. Lenny mi si avvicinò e chiese di parlarmi.
«Ascolta,» disse «hai raccontato in giro che una volta ci siamo incontrati su un autobus?» Gli risposi di sì e lui mi fissò. «Non è mai accaduto» disse. «Te lo sei sognato. Vorrei che smettessi di raccontarlo in giro.» E io pensai: “Porca puttana!”, perché con quel particolare la storia diventava ancora più succosa.
Mentre frequentavo il liceo di Forest Hills, i miei genitori a volte per il weekend andavano in auto a Philadelphia, a Elkins Park, per fare visita a mia zia e suo marito. I miei zii avevano tre figli e i ragazzi Binswanger erano degli scalmanati e si divertivano un sacco. Anche se la loro famiglia non era molto religiosa, durante la Pasqua ebraica giocavamo tutti a cercare la matzah nascosta.
Me la spassavo davvero con i Binswanger ed ero sempre dispiaciuto quando mia madre, mio padre e io dovevamo fare ritorno nell’Oldsmobile di papà. Durante il viaggio verso casa ascoltavamo alla radio la Filarmonica di New York, suonavano Brahms e Beethoven. La musica era molto cupa, fuori cominciava a farsi buio e io odiavo davvero quel viaggio perché sapevo di tornare a casa dove avevo pochissimi amici e sarei stato di nuovo solo.
Conoscete il libro Is There Life After High School? (“C’è vita dopo il liceo?”). Pareva proprio che per me non ci fosse. Per quattro trimestri di fila al liceo di Forest Hills ebbi note per il ritardo. La ragione per cui non arrivavo mai puntuale a scuola era che avevo difficoltà a dormire la notte, continuavo a sentire musica nella testa. Da bambino soffrivo di insonnia e penso che sia iniziata quando sentii mia madre dire: «Stanotte ho dormito solo quattro ore. Se non faccio un pisolino, oggi non sarò in grado di funzionare».
Per me significava che se non dormivi abbastanza potevi ammalarti o persino morire. Era solo una frase detta en passant, ma mi era entrata in testa. L’insonnia divenne così grave che quando avevo sedici o diciassette anni iniziai a prendere dei sonniferi. Anche mia madre li pigliava e mi facevo dare una pillola da lei ogni volta che mi serviva qualcosa per dormire un poco. Da adulto, divenne un’abitudine davvero brutta e fui costretto a impegnarmi a fondo per liberarmene.
In quel periodo i miei genitori uscivano quasi tutte le sere. Ogni volta che a Manhattan andava in scena una nuova opera teatrale o apriva un nightclub, ricevevano un invito, così mio papà poteva parlarne nella sua rubrica. I miei genitori avevano una vita sociale molto attiva e quando andavamo a cena in posti come il Danny’s Hideway – un grande locale sulla Quarantacinquesima Est frequentato da tutte le celebrità del momento – incontravano sempre tante persone che conoscevano, come Earl Blackwell, Dorothy Kilgallen e Louis Sobol, anche loro titolari, come mio padre, di una rubrica sui giornali.
A tavola con i miei, spesso parlavo di cose che mi stavano a cuore, ma ecco che nel bel mezzo dei miei discorsi mia madre o mio padre m’interrompevano...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Chiunque abbia un cuore
  3. Prologo - Nikki
  4. 1. The Story of My Life
  5. 2. Night Plane to Heaven
  6. 3. I Married an Angel
  7. 4. Warm and Tender
  8. 5. The Blue Angel
  9. 6. Baby, It’s You
  10. 7. Make It Easy on Yourself
  11. 8. Land of Make Believe
  12. 9. What’s New, Pussycat?
  13. 10. Love, Sweet Love
  14. 11. What’s It All about?
  15. 12. The Look of Love
  16. 13. I’ll Never Fall in Love Again
  17. 14. Raindrops Keep Fallin’ on My Head
  18. 15. Lost Horizon
  19. 16. Only Love Can Break a Heart
  20. 17. Best That You Can Do
  21. 18. That’s What Friends Are for
  22. 19. Anyone Who Had a Heart
  23. 20. This Guy’s in Love with You
  24. 21. Battle Royal
  25. 22. God Give Me Strenght
  26. 23. Man of Mystery
  27. 24. Ouverture 2000
  28. 25. Nikki, It’s You
  29. 26. Night and Day
  30. 27. What the World Needs Now
  31. 28. Il premio Gershwin
  32. Epilogo - Happy
  33. Ringraziamenti
  34. Fonti
  35. INSERTO FOTOGRAFICO
  36. Copyright