«La differenza fondamentale è la motivazione. Alcuni hanno vinto due Campionati d’Europa, un Campionato del Mondo e non so quante Champions.»
Aprile 2013, primavera a New York e Guardiola spiega al suo interlocutore, il cuoco Ferran Adrià, quelle che, secondo lui, sono le ragioni del crollo del Barcellona. Così ricordò lo chef, quando era ancora fresca la sconfitta 4-0 patita dai blaugrana all’Allianz Arena di Monaco nella semifinale di Champions League. E doveva ancora arrivare la seconda parte del disastro in due atti, una sconfitta per 3-0 al Camp Nou, che avrebbe segnato con numeri da incubo quell’eliminazione. Era la fine di un ciclo? Il dibattito invase Barcellona e il ragionamento di molti, per negare una qualsiasi fine, fu che un ciclo termina solo se si rinuncia a un’idea, a una filosofia di gioco. Non c’erano segnali che il Barcellona, sotto la guida di Vilanova, fino al 2012 «numero due» di Guardiola, volesse cambiare il suo stile. Altra cosa era, certo, che nei momenti chiave della stagione, e di fronte agli avversari più forti, il Barcellona 2012-2013 avrebbe fallito. Un addio con sconfitta nella semifinale della Champions e uno, senza spettacolo né calcio, nello stesso turno della Coppa del Re contro il Real Madrid di José Mourinho. Era stata così strana la stagione che i tifosi del Barcellona avevano festeggiato l’unico titolo, quello della Liga, dai divani di casa loro: fu l’1-1 tra Espanyol e Real Madrid che, un sabato sera di maggio, gli consegnò la quarta Liga in cinque anni. E il giorno dopo avrebbero festeggiato… a Madrid! A ospitare i campioni al Vicente Calderón fu l’Atlético. Un vero e proprio anticlimax, tant’è che la notte in cui fu matematico il titolo della Liga, solo un migliaio di persone andarono a tuffarsi nella Font de Canaletes, ritrovo abituale dei culés dopo una vittoria. Il giorno seguente, circa duecentomila persone uscirono per le strade di Barcellona a festeggiare quella Liga tanto strana, un campionato in cui le due grandi del calcio spagnolo vivono segnate da una sorta di «processo autodistruttivo», secondo l’acuta definizione dell’allora articolista del «Mundo», David Gistau. «Ormai vale solo la pena vincere la Champions. Non arrivarci è un insuccesso, perché le squadre sono troppo care e prestigiose per non accettare questa sfida. E perché la Liga, nella percezione dei settori più radicali della tifoseria, si è trasformata in un fastidioso “percorrere strade secondarie” che non fa altro che far perdere energie e riacquista un senso solo nei superclásicos.» Della stessa opinione fu Santiago Segurola, penna imprescindibile per l’analisi dello sport spagnolo: «È sempre più evidente che le due squadre vanno a velocità diverse. Una in Spagna. Un’altra in Europa. Ma si può cambiare velocità quando la routine in casa permette di vincere, e stravincere, col freno a mano tirato? Probabilmente no. È curioso, ma i due più avvantaggiati dall’insostenibile disuguaglianza forse iniziano a notare il pericolo dello squilibrio a cui loro stessi hanno dato vita in Spagna». Una situazione che pagarono nella Champions: con Barcellona e Real Madrid in semifinale, sia nel 2012 sia nel 2013 si parlò di una «finale spagnola». Furono eliminate entrambe le volte e la guardarono in televisione. Un fallimento in piena regola per le due squadre, sebbene causato da ragioni diverse.
Ossessionato dal voler vincere la sua decima Coppa dei Campioni e sopraffatto da un folgorante inizio del Barcellona di Vilanova, il Real Madrid aveva disprezzato il titolo di campione spagnolo e scommesso tutto su quello europeo. E il Barcellona non era da meno: tre mesi dopo l’inizio della Liga aveva già tredici punti di vantaggio in classifica sul Real e addirittura quattro in più sull’Atlético Madrid. Era come se i giocatori avessero ricevuto un’iniezione extra di motivazioni: non è Guardiola, siamo noi; senza Guardiola possiamo giocare come o meglio di prima. E il Barcellona di Vilanova non era davvero quello di Guardiola perché la squadra tendeva a verticalizzare di più ed era più travolgente. Subiva più gol di prima, ma se gliene facevano due, ne restituiva tre; se i gol erano quattro, ne rendeva cinque. Quella differenza di punti si sarebbe mantenuta e addirittura sarebbe aumentata dopo che, nel gennaio 2013, venne alla luce una notizia che colpì duramente il club e i giocatori: Vilanova doveva trasferirsi a New York per curare un cancro per il quale era necessario si sottoponesse a chemioterapia e radioterapia.
Così, per uno strano scherzo del destino, il passato e il presente del Barça si ritrovavano a New York. Guardiola si era infatti trasferito nella Grande Mela per concedersi il lusso di un anno sabbatico, vedere gente diversa, percorrere altre strade, respirare una nuova cultura. Si era fatto vedere in occasione della Ryder Cup di golf, dello US Open di tennis a New York e del campionato NBA. Le sue giornate trascorrevano tranquillamente: portava i figli a scuola, passeggiava per ore senza pensieri con sua moglie a Central Park, quando improvvisamente un Vilanova minacciato dal cancro compariva a qualche centinaio di metri da casa sua. Un vero problema, visto che Guardiola aveva smesso di parlare a quello che fino a poco prima era stato il suo miglior amico, stando a quanto affermano sia i «guardiolisti» sia gli «antiguardiolisti» che seguirono gli alti e bassi di quel rapporto, fatto confermato tra l’altro dagli stessi protagonisti. Aggiungono che Guardiola vide Vilanova a New York soltanto una volta, ma non durante quelle sette settimane consecutive che Tito trascorse al Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Non gli telefonò nemmeno, cosa che invece aveva fatto all’epoca di una partita contro il Valencia, quando il suo amico si trovava a New York in uno dei suoi primi viaggi per curare la malattia. Quella volta, come tante altre, aveva avuto bisogno della sua saggezza tattica, di assicurarsi che stava vedendo la partita proprio come il suo «numero due».
Ma perché Guardiola troncò i rapporti con quel suo amico d’adolescenza con il quale tutti i lunedì andava a La Masia per mangiare insieme e scambiarsi salumi dei rispettivi paesi? C’erano anche Jordi Roura – che avrebbe sostituito Vilanova durante la sua assenza – e Aureli Altimira, il preparatore atletico. Avevano dato vita a un gruppo battezzato Els golafres, che in catalano significa «i ghiottoni».
Le voci sull’allontanamento tra Pep e Tito stavano diventando insistenti nel Barcellona, finché un giorno, ormai tornato da New York e dopo aver vinto una delle sue battaglie contro la malattia, Vilanova le rese reali: «Io e Pep siamo amici fin da piccoli, siamo stati insieme a La Masia e abbiamo vissuto un periodo spettacolare e irripetibile. È vero, con la distanza le relazioni si raffreddano». Avrebbe potuto scegliere un’uscita elegante, ma non lo fece, decise di ufficializzare l’allontanamento, e usò l’ironia, perché se qualcosa non ci fu in quelle settimane a New York fu proprio la distanza. Nei giorni che seguirono l’eliminazione contro il Bayern, i «guardiolisti» cercavano di spiegare cosa stava succedendo allo spesso impeccabile Pep con il suo (ex?) amico intimo: «A Guardiola non piacque che, prima di fargli il funerale, il suo secondo si comportasse da allenatore. Ci fu un battesimo, non un funerale». Sebbene settimane dopo avrebbe avuto uno spettacolare addio al Camp Nou, era in un certo senso la seconda volta che Guardiola era protagonista di un’uscita, un po’ deludente, dalla sua squadra del cuore: quando se n’era andato come giocatore, i violenti Boixos Nois erano i padroni di uno stadio indifferente e semivuoto. L’uscita non sognata a cui fa riferimento l’amico dell’ex numero 4 del Barcellona è quella dell’aprile 2012 quando il club confermò che Guardiola se ne andava e, nella stessa conferenza stampa, annunciò Vilanova come suo successore, che era esattamente ciò che Guardiola aveva chiesto di non fare. Voleva separare le cose e avere il «suo» momento, un’uscita di scena in cui fosse l’unico protagonista. Quella, inoltre, fu una conferenza stampa nella quale stranamente mancò Messi. Il club avrebbe poi spiegato che c’era stato un malinteso, ma fu difficile crederci.
Più tardi avrebbero diffuso una foto in cui l’allenatore e il giocatore si abbracciavano durante un allenamento, ma quella sua assenza era assolutamente in linea con lo sgretolarsi delle relazioni in un gruppo in cui uomini come Fàbregas e Piqué avevano smesso di parlare con il loro allenatore. Pochi giorni prima che venisse confermato l’addio di Guardiola, il Real Madrid aveva sconfitto il Barcellona 2-1 al Camp Nou, davanti a centomila spettatori. Erano sette clásicos che le merengues non vincevano sui loro storici rivali e quattro che perdevano al Camp Nou.
Nello spogliatoio, Guardiola, che a volte veniva accusato di strafare e di essere un’idra che si comportava contemporaneamente da allenatore, preparatore atletico, direttore tecnico, presidente e addetto alle pubbliche relazioni, si avvicinò a dire qualcosa a Messi. L’argentino non lo volle ascoltare: «Avresti dovuto attrezzare una squadra per vincere, non lo hai fatto».
Come si può notare Messi, a volte, si esprime a parole. Mesi dopo, l’argentino avrebbe confermato, in un’intervista a «El Gráfico», il suo allontanamento dall’uomo che meglio l’aveva capito e che aveva avuto più pazienza con lui da quand’era diventato un professionista nel Barcellona.
«Tu e Guardiola parlate?»
«No, non ci siamo più parlati.»
«Ti sembra possibile che un giorno Guardiola possa essere a capo della Nazionale argentina?»
«Non credo, in Argentina non accetterebbero un tecnico non argentino.»
Con poche parole, Messi diceva molto.
Guillem Balagué, giornalista spagnolo residente nel Regno Unito, assicura anche che José Mourinho fu un’altra delle cause dell’allontanamento di Guardiola.
«Parlando con Pep, quando gli ho chiesto di Mourinho ha cambiato gestualità, il linguaggio del corpo, si capiva che non era molto a suo agio, ha alzato una barriera. I clásicos, per Pep, non erano più piacevoli. Pep ha ammesso che Mourinho era riuscito a fare quello che voleva, destabilizzarlo a livello emotivo al punto da non godersi il suo lavoro» rivelò Balagué nel programma televisivo Punto Pelota, prima di entrare nel pieno dell’analisi di ciò che era successo in quello spogliatoio carico di tensione: «Il suo addio ha a che vedere con il fatto che doveva riciclare una rosa che aveva creato basandosi anche sull’affetto. Doveva cedere alcuni giocatori e prenderne altri in un club, in un paese [si riferisce alla Catalogna], dove ormai era un simbolo, e per lui è stata dura. Doveva ritrovare se stesso perché tutto ciò era troppo». E una confidenza per dimostrare che Guardiola non è d’acciaio: «Al suo secondo anno telefonò a un allenatore della Premier League per chiedergli: se hai tensioni con un giocatore, cosa fai, cacci il giocatore o te ne vai tu? E Pep ha avuto la risposta che non voleva: devi cacciare il giocatore».
Parole e dati che permettono di cogliere meglio il senso di una delle poche frasi che Guardiola pronunciò per spiegare la sua uscita dal Barça: «Era il momento di lasciare. Se no avremmo finito per farci del male».
Mesi dopo quell’addio, a gennaio 2013, Guardiola si rivide con il Barcellona. Era in corsa per la nomina come miglior allenatore dell’anno 2012 al galà del Pallone d’Oro. La scelta sarebbe poi caduta su Vicente del Bosque, commissario tecnico della Spagna. L’altro nominato, Mourinho, allenatore del Real Madrid, preferì non presentarsi salvo poi lanciare, mesi dopo, una strampalata accusa di manipolazione dei voti. Il passaggio di Guardiola da Zurigo si accompagnò a una dose extra di morbosità, come sottolineò bene Francesc Perearnau sul «Mundo Deportivo»: «Chi fu testimone al galà del Pallone d’Oro notò l’atmosfera gelida e distante tra Pep e i sette giocatori presenti, tra cui Messi, scelti nella miglior squadra della stagione».
Quel giorno d’inizio anno, a Zurigo, erano concentrate, in uno spazio esiguo, moltissime stelle del calcio, ex giocatori, allenatori, presidenti di club e giornalisti. Non hanno alternativa se non incrociarsi, salutarsi e addirittura parlarsi. E quindi nascono situazioni un po’ insolite.
«Presidente» disse un corretto Guardiola stringendo la mano a Florentino Pérez, massimo dirigente del Real Madrid. A Emilio Butragueño, il leggendario ex giocatore e negli ultimi anni direttore delle relazioni istituzionali del club merengue, rivolse un saluto veloce, più informale, come se si fossero già visti. L’ultimo componente del trio era il portoghese Jorge Mendes, agente di Cristiano Ronaldo e di Mourinho.
Con un sorriso a trentadue denti, Mendes diede un cinque a Guardiola. Non fu un gesto freddo e informale: lo fece con impeto euforico e con la mano alzata, proprio come si salutano due buoni amici, due «persone» in confidenza. Mendes se ne andò via e il viso di Guardiola, per qualche secondo, rifletté tutto il suo stupore.
Si potrebbe dire che l’addio di Guardiola al Barcellona fu una prova di saggezza e che l’allontanamento da Vilanova ebbe più a che fare con una questione di ego. Ma non tutti la vedono così. «Io ho parlato con entrambi» spiega Joan Laporta, presidente del Barcellona per sette anni e che nel 2008 scommise su un Guardiola con pochissima esperienza come allenatore.
Insieme a lui entrava anche Vilanova come «numero due». Laporta dà a intendere che Guardiola si sentì tradito dagli altri appartenenti al gruppo, gli Els golafres. «Che la squadra di Pep non l’avesse accompagnato, che ci fosse andato da solo… fu questo a sorprendere. Era una squadra che Pep aveva formato e difeso molto, sono testimone diretto del fatto che se c’era qualcosa che Pep anteponeva ai propri interessi erano quelli dei suoi giocatori.» Parlando del sì di Vilanova al Barcellona, Estiarte, nelle dichiarazioni al giornale «Sport», dirà qualcosa di simile: «Ci sorprese». In quella primavera spagnola, turbolenta a livello economico e sociale, tutti ormai sapevano che Guardiola aveva deciso di andare a vivere nel paese più ricco d’Europa per dirigerne il club calcistico più facoltoso: il Bayern Monaco. Che fosse proprio il Bayern a eliminare il Barcellona rendeva la situazione ancora più strana, sebbene un carissimo amico che assistette con Guardiola, a New York, a quel 4-0 confermò ciò che il tecnico non poteva dire: Pep voleva che vincesse il Barça. Lo voleva sebbene fosse lontano da Vilanova, lo desiderava anche se non parlava più con molti dei suoi giocatori. Laporta non ha dubbi su quello che sarebbe stato il futuro di Vilanova, Roura e Altimira se non avessero assunto il controllo del Barcellona. «Pep se li sarebbe portati al Bayern, è ovvio! Quando Pep, a New York, mi raccontò che accettava l’offerta del Bayern, fu come se stesse lanciando un messaggio al mondo del calcio: “Non mi faccio comprare da un magnate pieno di soldi, io scommetto su un progetto serio, su un club con una tradizione e dei dirigenti qualificati”.»
Quella notte di Monaco, prima della sconfitta, Zubizarreta fu avvicinato da un giornalista: «Andoni, sa qualcosa di Guardiola? Ha idea da dove guarderà la partita?». Il direttore sportivo del Barcellona respirò a fondo e disse soltanto: «Lasciate in pace Pep». Arrivò a ripeterlo per tre volte, prima di chiudere la porta e andarsene.
Giorni dopo, mentre Laporta parlava nel suo studio d’avvocato, un sesto piano nell’imponente avinguda Diagonal di Barcellona, Guardiola si stava godendo un tour in America latina, una serie di chiacchierate a Bogotá e a Buenos Aires, grazie alle quali avrebbe guadagnato in tutto centinaia di migliaia di euro. Il suo prestigio era enorme. Quello smilzo testone che qualche tecnico aveva apertamente preso in giro il primo giorno in cui aveva messo piede a La Masia era un riferimento a livello mondiale. Quel successo, secondo Laporta, generava invidie, in particolare tra i dirigenti di Rosell, che per un anno e mezzo fu il suo vicepresidente e che poi gli sarebbe succeduto al comando del Barça. «Si sono comportati molto male con Pep Guardiola, in maniera infantile, dietro le spalle, mai in faccia. Lo trattavano in modo sarcastico, come un profeta, un messia. “Guarda,” dicevano “è arrivato il Dalai Lama.” Paragonare Guardiola al Dalai Lama può strappare un sorriso a chiunque perché è una malignità con un certo fondamento.»
Sebbene le distanze in quanto a percorso di vita tra un ex calciatore e l’esiliato leader del buddismo tibetano siano siderali, sono entrambi calvi, entrambi parlano con calma, entrambi sono speciali. Con quella voce dolce e roca, con il suo insistere nell’essere «diverso», nel dotare di poesia e profondità il discorso calcistico, Guardiola presto si trasformò in leader, in una figura unica. Nel Dalai Lama del calcio? Forse lo stesso Pep non lo vede come un titolo da rifiutare.
Probabilmente risulta difficile da capire che un club non si senta a suo agio con un tecnico vincente o che questo tecnico vincente si allontani dal suo «numero due», nonché amico, per questioni di ego. Ma cose simili sono accadute tra Johan Cruijff e Carles Rexach, tra Jürgen Klinsmann e Joachim Löw o tra Mourinho e André Villas-Boas. Fa parte della vita, i migliori amici possono trasformarsi, da un giorno all’altro, in perfetti estranei. In parte perché tra amici ci si raccontano molte confidenze, perché il tuo (ex) amico sa troppe cose, cose che adesso preferiresti non aver rivelato. È ciò che sembra essere successo all’editorialista spagnolo Salvador Sostres, che condivideva con Guardiola lunghe colazioni e cene, disponendo così d’informazioni di prima mano su quell’uomo che faceva solo conferenze stampa e non rilasciava mai interviste. Se si fa caso a ciò che scrisse Sostres, l’uscita di Guardiola dal Barcellona fu piuttosto tormentata. Quasi un film di gangster. Sostres sostiene che Guardiola disse così a Rosell: «Me ne andrò senza fare rumore, senza dichiarazioni, senza rilasciare interviste e senza scrivere libri. Ma se tu e i tuoi amici provate a fottere me o i miei, dirò tutto quello che ho da dire e sai che mi staranno a sentire».
Una cosa è certa: il Dalai Lama non parla in questo modo.
No, Guardiola non è il Dalai Lama. Chi condivide con il tecnico momenti di relax, dice che parla in maniera volgare, che è una macchina da tacos, il termine con cui gli spagnoli indicano le parolacce. Ossessionato dalla pianificazione e dal controllo, all’allenatore si adatta bene una storia che circola per Barcellona ovvero che avrebbe invitato a cena, all’inizio del suo lavoro al Barça, i proprietari delle principali discoteche della città. Voleva, assicurano, siglare un patto affinché gli raccontassero quali giocatori si muovevano di notte, quanto tempo passavano in discoteca, cosa bevevano e quanto.
Non si sa se questo supposto patto con i signori della notte ci fu e, soprattutto, in cosa consistette, ma lo spionaggio di giocatori fu un dato di fatto in quegli anni. Un chiaro esempio è quello di Gerard Piqué, atleta bello e di successo, oggetto di un intenso pedinamento. Secondo persone che ebbero accesso a notizie di prima mano, si evidenziò che il centrale destinava enormi quantità di denaro alle sue partite di poker online e che organizzava anche delle «bische» con altri compagni di squadra. E non solo, contrariamente a ciò che si poteva pensare, spesso non usciva: sovente restava ...