
- 144 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
I funerali della Mamá Grande
Informazioni su questo libro
Otto racconti fantastici e insieme naturalistici dominati da una matrona mitica e prepotente, sovrana assoluta del regno di Macondo, ai cui funerali interviene persino il papa.
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Informazioni
Da noi ladri non ce ne sono
Damaso rientrò nella stanza coi primi galli. Ana, sua moglie, incinta di sei mesi, lo aspettava seduta sul letto, vestita e con le scarpe. La lampada a petrolio stava per estinguersi. Damaso capí che sua moglie non aveva smesso di aspettarlo per tutta la notte, e che anche in quel momento, vedendolo di fronte a lei, continuava ad aspettare. Le fece un gesto rassicurante al quale la donna non rispose. Fissò con lo sguardo spaventato il fagotto di tela rossa che Damaso aveva in mano, strinse le labbra e si mise a tremare. Damaso la afferrò per il busto con silenziosa violenza. Esalava un puzzo acre.
Ana si lasciò alzare quasi di peso. Poi si lasciò andare in avanti con tutto il corpo, e si mise a piangere contro la canottiera a righe colorate del marito, e lo tenne stretto stretto a sé fino a quando riuscí a dominare la crisi.
“Mi sono addormentata seduta,” disse, “e d’un tratto hanno aperto la porta e ti hanno spinto dentro, tutto sporco di sangue.”
Damaso la respinse senza dire nulla. La fece sedere di nuovo sul letto. Poi le mise il fagotto sul grembo e uscí nel patio a orinare. Allora Ana sciolse i nodi e guardò: erano tre palle da biliardo, due bianche e una rossa, opache e ammaccate dai colpi.
Quando tornò nella stanza, Damaso la sorprese con una espressione sconcertata.
“E questo a cosa serve?” chiese Ana.
Damaso scrollò le spalle.
“Per giocare a biliardo.”
Rifece i nodi e ripose il fagotto, col grimaldello rudimentale, la torcia a pile e il coltello, in fondo al baule. Ana si sdraiò con la faccia rivolta al muro, senza svestirsi. Damaso si tolse soltanto i pantaloni. Disteso sul letto, fumando nel buio, cercò di captare qualche traccia della sua avventura nei sussurri dispersi dell’alba, finché si rese conto che sua moglie era sveglia.
“A cosa pensi?”
“A niente,” disse la donna.
La voce, di solito graduata di toni baritonali, sembrava resa piú densa dal rancore. Damaso tirò un’ultima boccata e schiacciò il mozzicone sul pavimento di terra battuta.
“Non c’era nient’altro,” sospirò. “Sarò rimasto dentro un’ora.”
“Potevano spararti,” disse Ana.
Damaso rabbrividí. “Maledizione,” disse, picchiando con le nocche contro il telaio di legno del letto. Cercò a tentoni, per terra, le sigarette e i fiammiferi.
“Hai il cuore di pietra,” disse Ana. “Non pensavi che io ero qui senza poter dormire, credendo che ti stessero riportando a casa morto ogni volta che c’era un rumore in strada?” Aggiunse con un sospiro:
“E tutto per tre palle da biliardo.”
“Nel cassetto non c’erano che venticinque centavos.”
“E allora non dovevi prendere niente.”
“Il problema era di riuscire a entrare,” disse Damaso. “Non potevo venirmene via a mani vuote.”
“Potevi prendere qualsiasi altra cosa.”
“Non c’era nient’altro,” disse Damaso.
“In nessun’altra parte ci sono tante cose come nella sala da biliardo.”
“Sembra cosí,” disse Damaso. “Ma poi, quando uno si trova dentro, si mette a guardare in giro e a frugare da ogni parte e si accorge che non c’è niente che serve.”
Ana non parlò per un pezzo. Damaso la immaginava con gli occhi aperti, intenta a cercar di trovare qualche oggetto di valore nel buio della memoria.
“Forse,” disse.
Riprese a fumare. L’alcool lo abbandonava a ondate concentriche e Damaso ricuperava di nuovo il peso, il volume e la responsabilità delle sue membra. “C’era un gatto, là dentro,” disse. “Un enorme gatto bianco.” Ana si girò e appoggiò il ventre gonfio al ventre del marito, e gli mise la gamba tra le ginocchia. Puzzava di cipolla.
“Avevi paura?”
“Io?”
“Tu,” disse Ana. “Dicono che anche gli uomini hanno paura.”
Damaso la sentí sorridere, e sorrise. “Un po’,” disse. “Avevo una voglia matta di orinare.” Si lasciò baciare senza corrispondere. Poi, cosciente dei rischi ma senza pentimento, come evocando i ricordi di un viaggio, le raccontò i particolari della sua avventura.
Ana parlò dopo un lungo silenzio.
“È stata una pazzia.”
“Tutto sta a cominciare,” disse Damaso, chiudendo gli occhi. “E poi, per essere la prima volta le cose non sono andate tanto male.”
Il sole cominciò a scaldare tardi. Quando Damaso si svegliò, sua moglie si era già alzata da un pezzo. Mise la testa sotto il rubinetto del patio e ve la mantenne per qualche minuto, finché si svegliò del tutto. La stanza faceva parte di una sfilata di locali uguali e indipendenti, con un patio in comune, coi fili di ferro per asciugare la roba. Contro il muro posteriore, separati dal patio da un tramezzo di latta, Ana aveva sistemato un fornello per cuocere e scaldare i ferri da stiro, e un tavolino, per mangiare e stirare. Quando vide avvicinarsi suo marito, mise da parte la roba stirata e levò i ferri da stiro dal fornello, per scaldare il caffè. Era piú vecchia di lui, con la pelle pallidissima, e i suoi gesti avevano la morbida efficacia di chi è abituato alla realtà.
Nella nebbia del suo mal di testa, Damaso capí che sua moglie voleva dirgli qualcosa con lo sguardo. Fino a quel momento non aveva badato alle voci del patio.
“Non hanno fatto altro che parlarne, per tutta la mattina,” mormorò Ana, versandosi il caffè. “Gli uomini sono andati là da un pezzo.”
Damaso si accorse che nel patio non c’erano né uomini né bambini. Mentre beveva il caffè, ascoltò in silenzio la conversazione delle donne che stendevano la roba al sole. Alla fine accese una sigaretta e uscí dalla cucina.
“Teresa,” chiamò.
Una ragazza col vestito bagnato, incollato al corpo, rispose al richiamo. “Fa’ attenzione,” mormorò Ana. La ragazza si avvicinò. “Che cosa succede?” chiese Damaso.
“Che si sono infilati nella sala da biliardo e hanno rubato tutto,” disse la ragazza.
Sembrava minuziosamente informata. Spiegò che avevano smantellato il locale, pezzo per pezzo, e che si erano portati via perfino il biliardo. Parlava con tanta convinzione che Damaso cominciò a credere che fosse vero.
“Merda,” disse, tornando in cucina.
Ana si mise a cantare sottovoce. Damaso accostò una sedia al muro del patio, cercando di contenere l’ansietà. Tre mesi prima, al compiere i vent’anni, i baffetti lineari, fatti crescere non solo col suo segreto spirito di sacrificio, ma anche con un certo affetto, avevano posto un tocco di maturità sul suo viso pietrificato dal vaiolo. Da allora si era sentito adulto. Ma quel mattino, coi ricordi della notte precedente che galleggiavano nel pantano del suo mal di testa, non sapeva da dove cominciare a vivere.
Quando finí di stirare, Ana divise la roba pulita in due mucchi uguali e si preparò a uscire.
“Non tardare,” disse Damaso.
“Come sempre.”
La seguí nella stanza. “Ti ho messo lí la camicia a quadri,” disse Ana. “Sarà meglio che tu non vada piú in giro con la canottiera.” Fissò i diafani occhi di gatto del marito.
“Non possiamo sapere se qualcuno ti ha visto.”
Damaso si asciugò nei pantaloni il sudore delle mani.
“Non mi ha visto nessuno.”
“Non possiamo saperlo,” ripeté Ana. Aveva un fagotto di roba per braccio. “E poi, sarà meglio non uscire. Aspetta prima che vada a fare un giretto da quelle parti, senza dare nell’occhio.”
In paese non si parlava d’altro. Ana fu costretta ad ascoltare parecchie volte, in versioni differenti e contraddittorie, i particolari dello stesso episodio. Quando finí di consegnare la roba, invece di andare al mercato come ogni sabato andò direttamente in piazza.
Davanti alla sala da biliardo non trovò tanta gente come si era immaginata. Alcuni uomini chiacchieravano all’ombra dei mandorli. I siriani avevano ritirato le loro stoffe colorate ed erano andati a mangiare, e i negozi sembravano sonnecchiare sotto le tende da sole. Un uomo dormiva disteso in una poltrona a dondolo, con la bocca e le gambe e le braccia aperte, nella sala dell’albergo. Ogni cosa era paralizzata nel calore delle dodici.
Ana oltrepassò la sala da biliardo, e attraversando il terreno incolto di fronte al porto, si imbatté nella folla. Allora si ricordò di qualcosa che Damaso le aveva raccontato, che tutti sapevano ma che soltanto i clienti della sala potevano ricordare: la porta posteriore della sala da biliardo dava su quel terreno incolto. Un attimo dopo, proteggendosi il ventre con le braccia, si trovò mescolata alla folla, con gli occhi fissi sulla porta manomessa. Il lucchetto era intatto, ma uno degli anelli era stato divelto come un dente. Ana considerò per un attimo i danni di quel lavoro solitario e modesto, e pensò a suo marito con un sentimento di pietà.
“Chi è stato?”
Nessuno osò guardarsi intorno.
“Non si sa,” le risposero. “Dicono che è stato un forestiero.” “Deve essere cosí,” disse una donna alle sue spalle. “Da noi ladri non ce ne sono. Tutti si conoscono.”
Ana girò la testa. “È cosí,” disse sorridendo. Era inzuppata di sudore. Vicino a lei c’era un uomo vecchissimo con rughe profonde nella nuca.
“Hanno portato via tutto?” chiese Ana.
“Duecento pesos e le palle del biliardo,” disse il vecchio. La scrutò con un’attenzione inopportuna. “Tra poco dovremo dormire con gli occhi aperti.”
Ana distolse lo sguardo. “È cosí,” tornò a dire. Si mise uno straccio in testa e si allontanò, senza poter tralasciare l’impressione che il vecchio continuasse a fissarla.
Per un quarto d’ora, la folla ammassata sul terreno mantenne un atteggiamento rispettoso, come se dietro la porta manomessa ci fosse un morto. Poi si agitò, girò su se stessa, e sfociò in piazza.
Il proprietario della sala da biliardo era sulla porta, con l’alcalde e due agenti della polizia. Basso e tondo, coi pantaloni ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione di Dario Puccini
- Notizia bio-bibliografica
- I funerali della Mamá Grande
- La siesta del martedí
- Uno di questi giorni
- Da noi ladri non ce ne sono
- La prodigiosa sera di Baltazar
- La vedova Montiel
- Un giorno dopo sabato
- Rose artificiali
- I funerali della Mamá Grande
- Copyright