Davide e Golia
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Davide e Golia

Perché i piccoli sono più forti dei grandi

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Davide e Golia

Perché i piccoli sono più forti dei grandi

Informazioni su questo libro

Tremila anni fa nella valle di Elah ha avuto luogo uno dei duelli più famosi della storia: il giovane pastore Davide, con una semplice fionda e qualche ciottolo, affronta e sconfigge il potente guerriero filisteo Golia, mirabilmente armato. Una vittoria miracolosa, narra la Bibbia; uno scontro in cui chi era partito in apparente svantaggio esce trionfante a dispetto di ogni previsione. Questa, almeno, è la versione dei fatti che è stata tramandata nel corso dei secoli. La vittoria di Davide fu sorprendente, miracolosa: in quelle circostanze non avrebbe dovuto vincere. O invece sì? Siamo sicuri che il racconto di Davide e Golia vada interpretato così? Muovendo dal racconto biblico, da sempre considerato la metafora della vittoria improbabile, in Davide e Golia il giornalista Malcolm Gladwell ci accompagna in un lungo viaggio attraverso confronti ritenuti impossibili, osservando che cosa accade quando una persona normale fronteggia un «gigante», vale a dire una situazione sfavorevole, una disabilità svantaggiosa o una sfida proibitiva. E l'affronta ad armi impari. Che cosa è disposta a mettere in gioco? Quali strategie intende adottare? Deve seguire le regole o l'istinto? Perseverare o rinunciare? L'atto di confrontarsi con situazioni estremamente difficili, ci dice Gladwell, spesso genera il coraggio, la determinazione e la creatività indispensabili per aprire nuove opportunità e rendere possibili cose altrimenti inimmaginabili. E consente anche di vedere i «giganti» con occhi diversi, scoprendo proprio nelle qualità in cui sembra risiedere la loro forza un motivo di grande fragilità. Dalle lotte per i diritti civili nel Sud degli Stati Uniti alle provocazioni dei pittori impressionisti nella Francia della seconda metà dell'Ottocento, dai Troubles dell'Irlanda del Nord all'impegno contro il crimine nella periferia di New York o alla resistenza dei londinesi sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, Davide e Golia racconta storie comuni e straordinarie, che vedono impegnate persone del tutto sconosciute o passate alla storia per le loro incredibili battaglie. Storie di medici coraggiosi, di allenatori di basket visionari, di genitori consumati dal dolore per la morte dei loro figli eppure disposti a impegnarsi per il bene altrui. Storie che ci ricordano come, tremila anni fa, nella valle di Elah fu un proprio un outsider a vincere una sfida all'apparenza impossibile.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804639879
eBook ISBN
9788852051159
Argomento
Geschichte
Parte prima

I vantaggi degli svantaggi (e gli svantaggi dei vantaggi)

C’è chi si comporta come un ricco, ma non ha nulla; c’è invece chi si comporta come un povero, ma ha molti beni.
Proverbi 13,7
I

Vivek Ranadivé

«Fu veramente un caso. Be’, mio padre non aveva mai giocato a basket prima.»

1

Quando Vivek Ranadivé decise di fare l’allenatore della squadra di basket della figlia Anjali, si prefisse due regole. La prima era che non avrebbe mai alzato la voce. Si trattava della National Junior Basketball, la Little League del basket. La squadra era composta principalmente da dodicenni e l’esperienza gli insegnava che a quell’età i ragazzi non reagiscono bene agli strilli. Avrebbe svolto il suo compito sul campo di gioco come gestiva gli affari nella sua azienda di software. Sarebbe stato calmo e pacato; facendo appello alla ragione e al buon senso, avrebbe persuaso le ragazzine della bontà del proprio metodo.
La seconda regola era più importante. Ranadivé era sconcertato dalla strategia di gioco degli americani. Originario di Mumbai, era cresciuto con il cricket e il calcio. Non avrebbe mai dimenticato la prima volta che aveva assistito a una partita di pallacanestro. A suo parere era qualcosa di irrazionale. La squadra A segnava e si ritirava immediatamente nella propria metà campo. La squadra B effettuava la rimessa dal fondo e avanzava palleggiando fino all’area della squadra A, dove quest’ultima era in paziente attesa. Poi il processo si invertiva.
Il campo regolamentare è lungo ventotto metri. Per la maggior parte del tempo una squadra ne difendeva solo otto, lasciando liberi gli altri venti. A volte le squadre facevano un pressing a tutto campo, ossia contrastavano sin dalla rimessa i tentativi dell’avversario di avanzare con la palla. Ma lo facevano solo per qualche minuto. Era come se nel mondo del basket ci fosse una sorta di cospirazione su come si dovesse giocare la partita, pensava Ranadivé, e tale cospirazione aveva l’effetto di approfondire il divario fra le squadre forti e quelle deboli. Le squadre forti disponevano di giocatori alti, molto bravi a palleggiare e a tirare; potevano quindi mettere in atto nella zona dell’avversario le mosse programmate. Perché allora le squadre deboli giocavano in un modo che rendeva più facile a quelle forti fare quello che riusciva loro meglio?
Ranadivé guardò le sue ragazze. Morgan e Julia erano giocatrici provette. Ma Nicky, Angela, Dani, Holly, Annika e sua figlia Anjali erano alla loro prima esperienza con il basket. Non erano nemmeno tanto alte. Non sapevano tirare. Non erano particolarmente forti nel palleggio. Non erano il tipo di ragazze che giocavano a basket ogni sera nel campetto del quartiere. Ranadivé vive a Menlo Park, nel cuore della Silicon Valley californiana. La sua squadra si componeva di «ragazzine bionde», come si espresse Ranadivé, figlie di geni del computer e programmatori informatici. Lavoravano a progetti scientifici e leggevano libroni complicati; da grandi sognavano di fare le biologhe marine. Ranadivé sapeva che se avessero giocato nel modo convenzionale – se cioè avessero lasciato che le avversarie portassero la palla da un lato all’altro del campo senza essere ostacolate – le ragazze per le quali il basket era una passione avrebbero vinto di certo. Ranadivé era arrivato in America a diciassette anni con cinquanta dollari in tasca. Non era uno che accettava facilmente di perdere. Quindi la sua seconda regola era che la sua squadra avrebbe fatto un pressing a tutto campo… in ogni partita, tutto il tempo. La squadra approdò ai campionati nazionali. «Fu veramente un caso» disse Anjali Ranadivé. «Be’, mio padre non aveva mai giocato a basket prima.»

2

Supponete di dover sommare tutte le guerre che negli ultimi duecento anni hanno avuto luogo fra nazioni molto grandi e nazioni molto piccole. Diciamo che uno dei due contendenti abbia una popolazione e una forza bellica pari a dieci volte quelle dell’altro. Quante volte pensate che vinca l’avversario più forte? Credo che la maggior parte di noi punterebbe su un numero vicino al 100 per cento. Una differenza di dieci volte è enorme. Ma la risposta vera vi sorprenderà. Quando, qualche anno fa, lo scienziato politico Ivan Arreguín-Toft fece il calcolo, il risultato fu il 71,5 per cento. Quasi una volta su tre vince il paese più debole.
Poi Arreguín-Toft pose la questione in modo leggermente diverso. Cosa accade nelle guerre tra forti e deboli quando i secondi si comportano come Davide e rifiutano di combattere come vorrebbero i primi, usando invece tattiche non convenzionali e di guerriglia? In questi casi, la percentuale di vittorie della parte più debole lievita dal 28,5 al 63,6 per cento. Facciamo un esempio pratico. La popolazione degli Stati Uniti è dieci volte quella del Canada. Se le due nazioni scendessero in guerra e il Canada scegliesse di battersi con metodi non convenzionali, la storia vi suggerirebbe di puntare il vostro denaro sul Canada.
La vittoria di qualcuno che parte svantaggiato ci sembra un evento improbabile, ed è per questo che la storia di Davide e Golia ha avuto una tale risonanza. Ma Arreguín-Toft ci mostra che è tutt’altro che improbabile. I deboli vincono spesso. Perché allora restiamo così stupiti ogni volta che un Davide sconfigge un Golia? Perché diamo automaticamente per scontato che qualcuno che è più piccolo o più povero o meno abile si trovi necessariamente in svantaggio?
Fra coloro che sembravano aver perso in partenza e invece hanno vinto, nella lista di Arreguín-Toft figura per esempio T.E. Lawrence (o, com’è meglio noto, Lawrence d’Arabia), il quale guidò la rivolta araba contro l’esercito ottomano che verso la fine della prima guerra mondiale occupava l’Arabia. I britannici erano intervenuti a sostegno dell’insurrezione araba, con l’obiettivo di distruggere la lunga ferrovia costruita dai turchi che congiungeva Damasco al cuore del deserto dell’Hejaz.
Era un’impresa molto ardua. I turchi disponevano di un formidabile esercito moderno. Lawrence invece doveva guidare una squinternata banda di beduini. Non erano truppe addestrate. Erano nomadi. Sir Reginald Wingate, uno dei comandanti britannici della regione, li chiamò «una marmaglia impreparata, la maggior parte di loro non ha mai sparato un colpo». Ma erano gente coriacea e sapevano muoversi. Il tipico soldato beduino era equipaggiato di un fucile, un centinaio di proiettili e venti chili di farina, il che significava che poteva percorrere nel deserto fino a centosettantasette chilometri al giorno, anche d’estate. Non gli serviva portarsi dietro più di mezzo litro d’acqua, perché sapeva dove trovarla. «Le nostre carte erano la rapidità e il tempo, non la potenza di fuoco» scrisse Lawrence. «Le nostre maggiori risorse, i beduini … erano inesperti di operazioni formali, ma possedevano doti di mobilità, resistenza, fiducia nelle proprie forze, conoscenza del terreno, coraggio e intelligenza.» Una famosa massima del generale del XVIII secolo Maurizio di Sassonia è che la guerra si fa con le gambe, non con le braccia, e le truppe di Lawrence erano tutte gambe. Nella primavera del 1917 in pochi giorni i suoi uomini fecero saltare con la dinamite sessanta tratti di rotaie e tagliarono una linea del telegrafo a Buair (24 marzo), sabotarono un treno e venticinque tratti di rotaie ad Abu al-Naam (25 marzo), minarono quindici tratti di rotaie e tagliarono una linea del telegrafo a Istabl Antar (27 marzo), assaltarono una guarnigione turca e fecero deragliare un treno (29 marzo), tornarono a Buair e sabotarono nuovamente la ferrovia (31 marzo), fecero saltare undici tratti di rotaie a Hedia (3 aprile), assaltarono la linea ferroviaria nella zona di Wadi Daiji (4 e 5 aprile) e sferrarono due attacchi contro i turchi (6 aprile).
Il colpo da maestro di Lawrence fu l’assalto alla città portuale di Aqaba. I turchi si aspettavano un attacco da parte delle navi britanniche che pattugliavano le acque del golfo a ovest, ma Lawrence li sorprese da est, raggiungendo la città dal deserto dopo aver guidato i suoi uomini in un audace percorso ad anello di quasi mille chilometri: saliti dall’Hejaz, s’inoltrarono nel deserto siriano per poi scendere nuovamente verso Aqaba. Era estate, il percorso attraversava terre fra le più inospitali del Medio Oriente e in più Lawrence compì una deviazione verso la periferia di Damasco per depistare i turchi. «Quell’anno la valle sembrava brulicare di vipere cornute, aspidi, cobra e rettili neri» scrive Lawrence nei Sette pilastri della saggezza:
Difficile andare ad attingere acqua dopo il tramonto, perché i serpenti nuotavano negli stagni o infestavano le sponde in nodi di più rettili. Per due volte degli aspidi s’insinuarono nel nostro cerchio pur prudente ed attento, mentre bevevamo il caffè. Tre dei nostri uomini morirono per essere stati morsicati, quattro guarirono dopo molte paure e sofferenze e gonfiore degli arti avvelenati. La cura degli Howeitat consisteva nel fasciare l’arto morsicato con brandelli di pelle di serpente, e di leggere alla vittima brani del Corano fin quando moriva.
Quando alla fine arrivarono ad Aqaba, le poche centinaia di guerrieri guidati da Lawrence uccisero o catturarono milleduecento turchi, accusando una perdita di soli due uomini. I turchi non avevano immaginato che i loro nemici sarebbero stati così pazzi da sfidare il deserto per attaccarli.
Sir Reginald Wingate chiamava gli uomini di Lawrence una «marmaglia impreparata». Per lui i turchi erano di gran lunga i favoriti. Ma non vi sembra strano? Disporre di molti uomini, armi e risorse – come nel caso dei turchi – è sì un vantaggio, ma ti immobilizza e ti mette sulla difensiva. Dall’altro lato, il movimento, la capacità di resistenza, l’intelligenza, la conoscenza del territorio e il coraggio degli uomini di Lawrence consentirono loro di compiere l’impossibile, ossia di attaccare Aqaba da est, una strategia talmente ardita che i turchi mai l’avrebbero presa in considerazione. C’è un ordine di vantaggi che hanno a che fare con le risorse materiali e ce n’è un altro la cui particolarità è l’assenza di risorse materiali. Il motivo per cui gli sfavoriti vincono così spesso è che a volte il primo ordine è assolutamente alla pari con il secondo.
Per qualche ragione, facciamo fatica ad accettare questa idea. Consideriamo il vantaggio in un modo molto rigido e limitato. Certe cose ci sembrano utili quando in realtà non lo sono, mentre altre che troviamo inutili ci rendono invece più forti e più saggi. La parte prima di Davide e Golia è un tentativo di sondare le conseguenze di questo abbaglio. Perché quando vediamo il gigante siamo convinti che abbia già in pugno la vittoria? E come possiamo fare per non dare per scontato l’ordine convenzionale delle cose, come hanno fatto Davide, o Lawrence d’Arabia, o Vivek Ranadivé e la sua squadra di ragazzine imbranate della Silicon Valley?

3

La squadra di Vivek Ranadivé giocava nella National Junior Basketball, per la fascia d’età fra i dodici e i tredici anni, in rappresentanza di Redwood City. Le ragazze si allenavano alla Paye’s Place, una palestra della vicina San Carlos. Non avendo mai giocato a basket, Ranadivé reclutò un paio di esperti perché gli dessero una mano. Il primo era Roger Craig, ex atleta professionista che ora lavorava nella ditta di software di Ranadivé.3 Il secondo era la figlia di Craig, Rometra, che aveva giocato a basket durante gli anni del college. Rometra era il tipo di persona che sceglievi per marcare la migliore giocatrice della squadra avversaria e renderla inoffensiva. Le ragazzine la adoravano. «È sempre stata come una sorella maggiore per me» disse Anjali Ranadivé. «Era davvero fantastico averla vicino.»
La strategia della Redwood City s’imperniava su due limiti di tempo che tutte le squadre di basket devono rispettare se vogliono far avanzare la palla. Il primo è quello concesso per la rimessa in campo. Quando una squadra fa canestro, un giocatore della squadra avversaria porta la palla a fondo campo e ha cinque secondi per passarla a un compagno. Se non rispetta il limite di tempo, la palla passa all’altra squadra. Di solito questo non è un problema, perché le squadre non cercano di contrastare una rimessa. Corrono nella loro metà campo. Ma la Redwood City non lo faceva. Ogni giocatrice restava incollata alla propria controparte. In un’azione di pressing, in genere il difensore si mantiene alle spalle dell’attaccante che sta marcando per ostacolarlo quando entra in possesso di palla. Invece le ragazze della Redwood City mettevano in atto una strategia più aggressiva e rischiosa: si piazzavano davanti alle avversarie per impedire loro di raccogliere la palla, soprattutto quando si trattava di una rimessa. E non marcavano la giocatrice che lanciava la palla in campo. Che utilità aveva? Ranadivé assegnava alla giocatrice extra un altro compito, come per esempio fare da secondo difensore contro la migliore giocatrice della squadra avversaria.
«Pensa al football» dicev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Davide e Golia
  4. Introduzione. Golia
  5. Parte prima. I vantaggi degli svantaggi (e gli svantaggi dei vantaggi)
  6. Parte seconda. La teoria della difficoltà desiderabile
  7. Parte terza. I limiti del potere
  8. Note
  9. Fonti
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright