
- 350 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Henderson il re della pioggia
Informazioni su questo libro
Il tradizionale americano "modello" abbandona per sempre il suo mondo e si rifugia in una selvaggia regione dell'Africa alla ricerca di nuove "verità": ne scaturisce un ritratto estremamente buffo e divertente.
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Informazioni
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9788804496168eBook ISBN
9788852050640Henderson
Il re della pioggia
1
Che cosa mi ha spinto a fare questo viaggio in Africa? La spiegazione non è semplice. Le mie cose andavano sempre peggio, sempre peggio, e a un certo punto erano diventate un viluppo inestricabile.
Se ripenso alla mia situazione all’età di cinquantacinque anni, quando comprai il biglietto, vedo solo dolore. I fatti mi si affollano addosso, sì che ne avverto l’oppressione sul petto. Irrompono in frotta disordinata: i miei genitori, le mie mogli, le mie ragazze, i miei figli, la mia fattoria, i miei animali, le mie abitudini, i miei soldi, le mie lezioni di musica, le mie sbornie, i miei pregiudizi, la mia violenza, i miei denti, la mia faccia, l’anima mia! Ed io devo urlare: «No, no, via, maledetti, lasciatemi stare!». Ma non possono lasciarmi stare. Fanno parte di me. Son cose mie. E mi si ammucchiano addosso da ogni parte. E ne viene il caos.
Eppure, il mondo, che mi appariva tremendo, oppressivo, ha distolto da me la sua ira. Ma se voglio darne conto a voi, e spiegare perché andai in Africa, devo guardare in viso i fatti. Magari cominciando dal denaro. Io sono ricco. Dal vecchio ereditai tre milioni di dollari, detratte le tasse, ma mi son sempre considerato un barbone, e con motivo. Soprattutto questo: mi comportavo come un barbone. Ma quando le cose si mettevano molto male, in segreto andavo a cercare nei libri, sperando di trovarvi una parola utile, e un giorno lessi: “La remissione dei peccati è perpetua, e non occorre la virtù, prima”. Mi fecero un’impressione così profonda, quelle parole, che le andavo ripetendo a me stesso. Ma poi ho dimenticato in che libro fossero. Era uno dei mille e mille lasciatimi da mio padre: alcuni li aveva scritti lui. Sfogliai decine di volumi, ma non ci trovai dentro altro che soldi; infatti mio padre usava biglietti di banca per segnalibro, quelli che si trovava in tasca, da cinque, da dieci, da venti. Trovai anche moneta fuori corso di trent’anni fa, quei biglietti grossi, gialli. Mi fece piacere rivederli, erano un ricordo dei vecchi tempi; serrai la porta della biblioteca, perché non entrassero i bambini, e passai quel pomeriggio sulla scaletta a scuotere le pagine dei libri, e i soldi si sparpagliavano sul pavimento. Però non ho mai più trovato quella frase sul perdono.
Passiamo a quello che segue: mi son laureato in una università dell’Ivy League. Non credo che sia il caso di mettere in imbarazzo la mia alma mater, nominandola. Se non fossi stato un Henderson, se non fossi stato figlio di mio padre, mi avrebbero buttato fuori. Quando nacqui pesavo più di sei chili, e fu un parto laborioso. Poi crebbi. Altezza uno e novanta. Peso centocinque chili. Testa enorme, scarruffata, una chioma che sembra pelliccia di persiano. Occhi sospettosi, quasi sempre contratti. Modi truculenti. Naso grosso. Eravamo tre fratelli, gli altri due son morti. Solo un uomo caritatevole come mio padre poteva perdonarmi, e non credo che mi abbia mai perdonato del tutto. Quando fu tempo di sposarmi, cercai di farlo contento e scelsi una ragazza del nostro rango sociale. Tipo notevole, ben fatta, alta, elegante, robusta, con braccia lunghe e capelli biondi, riservata, fertile e tranquilla. I suoi famigliari non me ne vorranno se aggiungo che è schizofrenica; difatti lo è, certamente. Anch’io ho fama di squinternato, ed a ragione: incostante, brutale, tirannico e forse matto. Stando all’età dei figli, il nostro matrimonio durò circa venti anni. I figli son Edward, Ricey, Alice, e altri due. Cristo, quanti figli ho messo al mondo, e che Dio li benedica tutti.
A mio modo ho lavorato molto. La sofferenza intensa è fatica, e spesso ero ubriaco prima di desinare. Appena tornato dalla guerra (ero troppo anziano per la zona d’operazioni, ma non ce la fecero a tenermene lontano; andai giù a Washington e insistei fino a che non mi mandarono al fronte), Frances ed io divorziammo. Fu il giorno della vittoria in Europa. Così presto? No, ora che ci penso, dev’essere successo nel 1948. Comunque sia, ora Frances è in Svizzera, con uno dei ragazzi. Cosa se ne faccia di un figlio non lo so. Ce l’ha, ecco tutto. Ed io le auguro buona fortuna.
Fui contentissimo del divorzio; per me significava ricominciare daccapo. Mi ero già scelta una seconda moglie, e ci sposammo subito. Si chiama Lily (cognome da ragazza: Simmons). Abbiamo due gemelli, maschi.
A questo punto comincia la confusione: Lily con me se la passò malissimo, peggio che Frances. Frances era un tipo chiuso, e questa era una sorta di difesa, Lily invece no. Forse il mutamento in meglio mi fece male; ero ormai abituato a fare una brutta vita. Ogni volta che a Frances non piaceva quel che facevo, ed accadeva spesso, mi voltava le spalle. Era come la luna di Shelley, che vaga tutta sola. Lily invece no. In pubblico la maltrattavo, in privato la insultavo. Attaccavo briga nelle osterie di campagna, presso la mia fattoria, e le guardie mi misero dentro. Io minacciai il diavolo a quattro, e loro mi avrebbero pestato, se non fossi stato un notabile, lì nella zona. Venne Lily e pagò la cauzione. Poi ci fu la rissa con un veterinario, per via di uno dei miei porci; dopo, con l’autista di uno spazzaneve, sulla Statale numero 7: aveva cercato di buttarmi fuori strada. Infine, un paio d’anni or sono, ubriaco com’ero, caddi da un trattore, che mi passò addosso e mi ruppe una gamba. Per mesi andai in giro con le grucce, e picchiavo chiunque, uomo o bestia, incontrassi sul mio cammino. Lily fece una vita d’inferno. Massiccio come un giocatore di calcio, scuro in viso come uno zingaro, imprecavo, urlavo, mostravo i denti, scuotevo il capo: ecco perché la gente si teneva a distanza. Ma c’è dell’altro.
Per esempio: Lily riceve certe signore, ed entro io con l’ingessatura sporca e i calzerotti da ginnastica; addosso ho una vestaglia di velluto rosso, comprata da Sulka, a Parigi, per festeggiare il giorno che Frances mi disse che voleva divorziare. Non solo: in testa porto un berretto da cacciatore, di lana rossa. Mi strofino le dita sul naso e sui baffi, poi do la mano alle signore e dico: «Sono il signor Henderson, piacere». Poi do la mano anche a Lily, quasi che fosse anche lei in visita, un’estranea, come le altre. E dico: «Piacere». Immagino che le signore dicano fra sé: “Non la riconosce. Crede d’essere ancora sposato alla prima. Terribile, vero?”. Le eccita questa immaginaria fedeltà.
Invece si sbagliano. Lily lo sa, che l’ho fatto apposta, e quando siamo soli mi grida: «Gene, che ti ha preso? Cos’hai in mente?».
Tutto imbracato dal cordone rosso, la sovrasto, nella mia vestaglia di velluto che mi pende dietro, raspo il pavimento con l’ingessatura, che ha la forma di un piede, agito il capo e dico: «Ciu-ciu-ciu».
Infatti quando dall’ospedale mi riportarono a casa con quella maledetta ingessatura, la sentii che diceva al telefono: «Solo un altro dei suoi incidenti. Gliene capitano di continuo, ma lui, oh, lui è forte. Non muore mai». Non muore mai! Voi che ne pensate? Quelle parole mi riempirono d’amarezza.
Ora, può anche darsi che Lily lo dicesse per scherzo. Le piace scherzare, al telefono. È una donna grande e grossa, piena di vita. Il viso dolce, e il carattere che di solito si accorda con il viso. Abbiamo anche avuto giorni molto felici. Ed ora che ci penso, giorni felici furono soprattutto quelli della gravidanza, gli ultimi. Prima di addormentarci io le massaggiavo la pancia con olio per neonati, perché non si smagliasse la pelle. I capezzoli, da rosa, s’eran fatti d’un marrone scuro, ed i bambini si muovevano, dentro la pancia, che cambiava di forma.
La massaggiavo leggermente, con enorme attenzione, per timore che i miei ditoni potessero farle del male. E prima di spegnere la luce mi pulivo le dita nei capelli, poi c’era il bacio della buonanotte, e ci addormentavamo con l’aroma di quell’olio.
Ma poi ricominciò la guerra, e quando la sentii dire che io non morivo mai, diedi a quella frase un’interpretazione ostile, anche se sapevo che non lo era. No, dinanzi alle signore la trattai come un’estranea perché non mi piaceva che si comportasse da padrona di casa; perché io, unico erede di questo nome famoso e di queste ricchezze, io sono un barbone, e lei non è una signora, ma soltanto mia moglie, soltanto mia moglie.
Poiché d’inverno stavo peggio, ella stabilì di fare una vacanza sul golfo, in un grande albergo; avrei potuto andare a pesca. Un amico premuroso aveva regalato ai gemelli una fionda ciascuno, di compensato. E una di queste fionde io la trovai nella mia valigia, quando la disfeci all’arrivo, e cominciai a giocarci. Lasciai perdere la pesca: me ne stavo sulla spiaggia a tirar sassi alle bottiglie. Perché la gente potesse dire: “Vedi quell’omone con il naso enorme e i baffi? Bene, il suo bisnonno era Segretario di Stato, e i suoi prozii ambasciatori in Inghilterra e in Francia, e suo padre era il famoso studioso Willard Henderson, che scrisse quel libro sugli Albigesi, amico di William James e di Henry Adams”. Non dicevano forse così? C’era da scommetterlo, lo dicevano. Ed eccomi lì in albergo, con quella mia seconda moglie dal viso dolce e preoccupato, anche lei alta, di poco sotto al metro e ottanta, e i due gemelli. In sala da pranzo versavo bourbon nel caffè del mattino (lo tenevo in una grossa fiasca piatta) e alla spiaggia spaccavo bottiglie vuote. Gli altri ospiti si lamentarono col direttore, per via di tutti quei cocci di vetro, e il direttore se la prese con Lily; non aveva il coraggio di affrontare me. Locale elegante, gli ebrei non sono ammessi, e poi ero arrivato io, E.H. Henderson. Gli altri bambini smisero di giocare con i nostri, e le mogli tutte evitavano Lily.
Lily cercò di discuterne con me. Eravamo nel nostro appartamento, io coi calzoncini da bagno, e lei aprì la discussione sul problema della fionda e dei vetri rotti, e sul mio modo di fare verso gli altri ospiti. Ora va detto che Lily è donna assai intelligente. Non rimprovera, moraleggia; vi è molto propensa, e quando lo fa si sbianca in viso e comincia a parlare sottovoce. Non perché ha paura di me, ma perché dentro di lei sta accadendo una crisi.
E poiché non arrivava a nulla con quella discussione, si mise a piangere, e quando io vidi le lacrime uscii dai gangheri e mi misi a urlare: «Mi faccio saltare le cervella! Mi sparo. Non ho scordato a casa la pistola. Me la porto sempre dietro».
«Oh, Gene» gridò. Si coprì il viso con le mani e fuggì.
Ora vi dico il perché.
2
Perché suo padre si era suicidato proprio in quel modo, con un colpo di pistola.
Uno dei motivi che mi legano a Lily è il fatto che ambedue soffriamo per via dei denti. Lei ha venti anni meno di me, ma come me ha denti finti. Io dalle parti, lei davanti. Le mancano i quattro incisivi superiori. Li perse quand’era ancora al liceo, e giocava a golf col suo adorato papà. Il povero vecchio beveva, e quel giorno era troppo ubriaco per giocare a golf. Al drive di partenza portò indietro il bastone senza guardare e senza avvertire, e la colpì. Mi fa male ripensare a quella maledetta partita di golf, un giorno afoso di luglio, e questo commerciante di tubi, ubriaco, e la figlioletta quindicenne col viso insanguinato. Maledetti siano questi ubriaconi senza spina dorsale! E maledetti questi individui senza fermezza! Non li sopporto, questi pagliacci che, appena qualcosa va male, si mostrano in pubblico per far vedere che hanno il cuore spezzato. Ma Lily non sopportava che si dicesse una parola sola contro il padre, e piangeva più facilmente per lui che per se stessa. Ha sempre la fotografia del padre nel portafoglio.
Il vecchio non l’ho mai conosciuto di persona. Quando ci incontrammo, io e Lily, lui era già morto da dieci o dodici anni. Subito dopo la morte del padre lei sposò un tale di Baltimora, piuttosto ricco, mi han detto... Anzi, ora che ci penso, fu Lily a dirmelo. Però non andavano d’accordo e durante la guerra lei ottenne il divorzio (io ero al fronte, in Italia, a quell’epoca). Comunque sia, quando la conobbi era tornata a casa, e viveva con la madre. La famiglia veniva da Danbury, capitale del commercio dei cappelli. Una sera d’inverno successe che Frances ed io andammo a una festa, a Danbury, ma lei venne un po’ controvoglia, perché si scriveva con un intellettuale, non so bene chi, in Europa. Frances legge molto, scrive molto (lettere) e fuma molto, e quando le prendeva uno dei suoi pallini – filosofici credo – quasi non la vedevo più. Sapevo solo che era su nella sua stanza, a fumare Sobranie, a tossire, a prendere appunti, a elaborare. Bene, quando andammo a quella festa, Frances stava appunto attraversando una di tali crisi intellettuali. Proprio nel bel mezzo del ricevimento si ricordò che aveva una cosa da fare, salì in macchina e se ne andò, dimenticandosi completamente di me. Anch’io avevo fatto un po’ di confusione, quella sera. Forse ero l’unico, là in mezzo, con la cravatta nera. Blu notte. Forse ero il primo, nella zona, a presentarmi in smoking blu. La sensazione mia era d’avere addosso un ettaro intero di quella stoffa blu. Lily invece, me l’avevano presentata da dieci minuti, indossava un abito a strisce rosse e verdi, natalizio. Parlavamo.
Visto l’accaduto, Lily mi offrì un passaggio, e io dissi: «Va bene». Per la neve ci avviammo alla macchina.
Era una notte scintillante e la neve crepitava sotto le scarpe. La macchina era ferma su di una discesa, lunga trecento passi e liscia come il ferro. Appena si fu mossa, la macchina slittò e Lily perse la testa e si mise a gridare: «Eugene!». Mi buttò le braccia al collo. Non c’era anima viva su quella strada, né sui vialetti donde avevano spalato la neve. Non vedevo un cane, da nessuna parte. La macchina fece un giro completo su se stessa. Le braccia di lei, nude, venivan fuori dalle corte maniche della pelliccia e mi stringevano al collo, mentre con gli occhi sbarrati guardava dal parabrezza e la macchina slittava sulla neve e sul gelo. La marcia non era ingranata; io afferrai la chiave e spensi il motore. Finimmo contro un cumulo di neve, non lontano però, ed io mi misi al volante. La luna splendeva chiarissima.
«Come fa a sapere il mio nome?» dissi e lei fece: «Be’, tutti sanno che lei è Eugene Henderson».
Parlammo ancora un po’, poi lei mi disse: «Lei dovrebbe divorziare».
Io risposi: «Ma cosa dice? Son discorsi da farsi questi? E poi io son vecchio, potrei essere suo padre».
Non la rividi più, fino all’estate. Questa volta era in giro per certe compere: aveva il cappello, un vestito di piqué bianco e le scarpe bianche. Pareva che volesse piovere, e lei non intendeva farsi cogliere dall’acqua vestita così (l’abito, notai, era già sporco); così mi chiese un passaggio. Ero venuto a Danbury a comprar legname per la stalla, e ne avevo la giardinetta carica. Lily mi spiegava la strada di casa sua, ma per il nervosismo si smarrì; era molto bella, ma nervosissima. C’era afa, poi cominciò a piovere. Mi disse di voltare a destra e così ci trovammo dinanzi a una buca piena d’acqua, chiusa da una rete metallica grigia: era una via senza sbocco. L’aria s’era fatta così scura che le maglie della rete parevano bianche. Lily cominciò a gridare: «Oh, volti, la prego! Presto, volti! Non ricordo più la strada e debbo tornare a casa».
Finalmente ci arrivammo, una casetta che odorava di stanze chiuse, quando fa caldo. Ci arrivammo proprio mentre cominciava il temporale.
«Mia madre è andata a giocare a bridge» disse Lily. «Debbo telefonarle, dirle di non tornare a casa. C’è un telefono in camera mia.» Salimmo di sopra. Non c’era nulla di equivoco, in quella ragazza, ve lo assicuro. Mentre si spogliava cominciò a parlare con voce tremante: «Ti amo! Ti amo!». Ed abbracciandola dicevo a me stesso: “Come può amare te, te, te!”. Ci fu un enorme groppo di tuono, poi uno scroscio d’acqua sulle strade, sugli alberi, sui tetti, sui vetri, e anche fulmini. La tempesta colmava, accecava ogni cosa. Ma da lei mi veniva un odore caldo, come di pane fresco. Giacevamo nel suo letto, scurito dalla calda oscurità della tempesta. Dal principio alla fine non smise mai di dirmi: «Ti amo!». Giacemmo così, tranquilli, e le prime ore della sera arrivarono senza che il sole fosse tornato.
Sua madre attendeva nel soggiorno. La cosa non mi piacque molto. Lily infatti le aveva telefonato: «Per un po’ resta dove sei» e quindi sua madre aveva subito lasciato la partita di bridge, affrontando uno dei più violenti temporali estivi che si ricordassero da anni. No, non mi piacque. Non che la vecchia mi facesse paura, ma capii l’antifona. Lily aveva fatto in modo che la mamma la scoprisse. Venni giù per primo, e scorsi un lume acceso accanto al divano. E quando fui in fondo alla scala, faccia a faccia con la vecchia, dissi: «Mi chiamo Henderson». La madre era una donna robusta e graziosa, con un viso di porcellana, frutto del trucco per la riunione di bridge. Aveva il cappello, e quando si fu messa a sedere, scorsi una pochette di vernice, sulle ginocchia robuste. Capii che mentalmente contava i punti a carico di Lily. “In casa mia. Con un uomo sposato.” E così via. Io me ne restavo lì in quel salotto, indifferente, seduto, la giardinetta, fuori, piena di legname. Si doveva certo avvertire, su di me, l’odore di Lily, l’odore del pane. E Lily, bellissima, venne giù per la scala, per mostrare a mamma la sua bella impresa. Facendo finta di nulla, tenevo le gambe larghe, gli scarponi sul tappeto, e ogni tanto mi lisciavo i baffi. Avvertivo, fra madre e figlia, la forte presenza di Simmons, il papà di Lily, venditore all’ingrosso di tubi, che si era suicidato. Anzi, si era ucciso nella camera da letto accanto a quella di Lily, la camera matrimoniale. Lily dava alla madre la colpa del suicidio paterno. Cos’ero io dunque, lo strumento della sua ira? “Oh, no, amico” dissi fra di me, “non è roba per te. Non fartici prendere dentro.”
Pareva che la madre avesse deciso di comportarsi a dovere, mostrarsi generosa e battere Lily sul suo terreno. Naturale, forse. Comunque sia, con me si contenne da vera signora, ma a un certo momento non riuscì più a controllarsi, e fece: «Ho conosciuto suo figlio».
«Oh sì. Un tipo...
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