Un vento caldo e leggero, poco più di una brezza, muoveva appena le foglie degli alberi che costeggiavano le strade attorno a place de la Bastille. Era un’estate umida, come non se ne ricordava da alcuni anni a quella parte, e se di giorno l’aria era irrespirabile, mescolata ai gas di scarico delle automobili, di notte l’umidità rendeva impossibile trovare un po’ di refrigerio.
A Parigi, in quei giorni, cominciavano i preparativi per il Quattordici Luglio, festa di commemorazione della presa della Bastiglia e, nonostante fosse passata la mezzanotte, le strade erano ancora piene di gente.
All’uscita dell’Opéra Bastille, alcuni spettatori si attardavano sulla scalinata a commentare animatamente lo spettacolo: la prima della Bohème, come ricordava il manifesto stile liberty alle loro spalle.
Dal gruppo, dopo qualche stretta di mano e un arrivederci, si staccarono due uomini: alti, magri, sulla quarantina, vestiti come si conviene a una serata di gala. Camminavano lentamente, cercando di tenere a bada il sudore, che già gli appiccicava le camicie alla schiena. Abitavano poco distante da lì, in rue de Birague, nel quartiere Marais, in un appartamento in cui vivevano da quattro anni. Visti da dietro sarebbe stato difficile distinguerli l’uno dall’altro, forse per via della stessa altezza, del corpo snello o dell’abito scuro. L’unica differenza era nei capelli: una fluente capigliatura bionda uno, e capelli castano chiaro tagliati con rigorosa precisione l’altro.
Fu quest’ultimo a rompere, a un tratto, il silenzio.
«“Ma che gelida manina! Se la lasci riscaldar. Cercar...”» intonò.
«Dài, che mi metti in imbarazzo» lo bloccò il compagno poggiandogli la mano sulla spalla, come per allontanarlo.
«Vuoi stroncare sul nascere una promettente carriera?»
«No, affatto, ti ho sempre detto che hai una bella voce, ma preferirei che ti esercitassi nella nostra villa di campagna, dove non c’è nessuno che possa sentirti.»
«Ma noi non abbiamo una villa in campagna.»
«Appunto, rimandiamo la tua esibizione a quando l’avremo comprata.»
Entrambi risero e proseguirono verso casa. Non si accorsero che, sul lato opposto della strada, due uomini li stavano osservando da un angolo del marciapiede, dove la luce dei lampioni faticava ad arrivare. Continuarono a camminare fino all’incrocio con rue de Birague.
In quel momento, i due uomini emersero dalla penombra e accelerarono il passo, in silenzio, a testa bassa. Quando furono a pochi metri da loro, rallentarono per indossare dei passamontagna. Il più alto dei due estrasse una pistola dalla fondina fissata alla cintura dei pantaloni: il gesto fu naturale, doveva averlo fatto decine di volte. Affrettarono di nuovo il passo.
Solo allora, avvertendo dietro di loro un rumore di passi veloci sul selciato, i due uomini in abito di gala si accorsero di avere qualcuno alle spalle. Appena prima che si voltassero, uno dei due inseguitori, lo stesso che aveva estratto la pistola, chiamò quello dalla folta capigliatura bionda: «Professor Daniel Morel».
Daniel allora si voltò, spalancò gli occhi azzurri e, con il suo consueto sorriso, rispose: «Si?».
Il sorriso gli si spense sul volto quando vide l’arma nelle mani dell’uomo. Non fece in tempo né a dire né a fare nulla, riuscì solamente a sentire la paura bloccargli lo stomaco prima che tre colpi dei cinque che vennero sparati lo centrassero alle gambe, e subito il dolore ebbe il sopravvento sulla paura. Cadde a terra, gli occhi sgranati, un urlo sofferente. «Henri» mormorò poi rivolto al compagno, che aveva assistito immobile alla scena, e questi si chinò e provò a tamponare le ferite con le mani, ma era tutto inutile: il sangue continuava a uscire copiosamente.
Henri fu preso dal panico; estrasse il telefono dalla tasca ma gli cadde subito dalle mani.
Nel frattempo alcune persone si erano affacciate dalle finestre, svegliate dagli spari e dalle urla di Daniel, che ora si erano trasformate in un lamento a denti stretti.
Henri raccolse il telefono, provò a formare il numero del soccorso medico, ma le dita sporche di sangue imbrattarono la tastiera e il display; buttò il telefono in terra, e portando le mani insanguinate al volto cominciò a gridare: «Chiamate un’ambulanza, chiamate un’ambulanza!», poi, urlando ancora più forte: «Aiuto! Vi prego, qualcuno mi aiuti».
Doveva calmarsi, doveva ritrovare la lucidità. Doveva. Si tolse la cintura e la usò come cappio per stringere la gamba sinistra di Daniel, poi, mentre sfilava quella di Daniel per fare lo stesso con l’altra gamba, sentì una voce dietro di sé dirgli: «Io tengo su le gambe, lei stringa forte». Henri obbedì. «Adesso teniamole alte, facciamo confluire il sangue verso il corpo.»
Solo allora Henri sollevò gli occhi per scoprire a chi appartenesse quella voce. Davanti a lui, inginocchiata, c’era una signora, non più giovane, che aveva posizionato le gambe del suo compagno sulle proprie spalle; portava sul capo uno hijab.
Henri si guardò intorno e vide alcune persone che, immobili, assistevano alla scena, ma come se tutto quello non li riguardasse. Per loro era solo uno spettacolo.
Poco dopo, il suono di una sirena riempì l’aria, seguito da un secondo: un’auto della polizia e un’ambulanza erano arrivate sul posto.
Due infermieri scesero rapidamente e si portarono verso Daniel. Con un paio di forbici, tagliarono i pantaloni per osservare meglio le ferite; si scambiarono uno sguardo di intesa.
I poliziotti, nel frattempo, si limitavano a tenere la gente a distanza e a chiedere se qualcuno avesse visto qualcosa. Quindi si avvicinarono a Henri, proprio mentre il suo compagno, disteso sulla lettiga, veniva introdotto nell’ambulanza. Non sentì nemmeno cosa i poliziotti gli stessero dicendo e, senza chiedere nulla a nessuno, salì anche lui.
Viaggiarono insieme verso l’ospedale e mentre gli infermieri si occupavano delle ferite, Henri, stordito da quanto accaduto e dall’angosciante suono della sirena, guardava con ansia il volto quasi irriconoscibile del compagno, contratto in terribili smorfie di dolore.
«È grave?» chiese agli infermieri.
«Non lo sappiamo» rispose il più giovane.
«Se la caverà?»
«Faremo il possibile.» Poi aggiunse: «Lei qui non potrebbe stare, ma visto che ora c’è deve mantenere la calma».
Daniel, in quel momento, fece cenno al compagno di avvicinarsi, ma uno degli infermieri gli impedì ogni movimento.
Arrivati all’ospedale, Henri balzò giù dalla vettura, seguito dagli infermieri con la barella di Daniel e questi, ancora una volta, fece cenno al compagno di avvicinarsi. Henri si precipitò da lui e, quando gli fu abbastanza vicino, vide che Daniel gli stava porgendo il proprio telefono. «Chiama Giorgio e digli di venire» gli sussurrò.
«Perché?» chiese, un’improvvisa espressione di fastidio sul viso.
«Qui c’è il numero, ti prego, fallo subito» disse soltanto Daniel.
«Lo farò, ma perché?» insistette Henri.
L’altro provò a dire qualcosa, ma in quel momento venne portato via, lasciando Henri in preda ai dubbi e alla gelosia. Ma fu solo un attimo: ora non doveva pensare che a Daniel.
Nella sala d’aspetto dell’ospedale non c’era nulla che potesse distrarlo e allentare la sua tensione. Henri si sarebbe accontentato anche di un manifesto a cui aggrapparsi con gli occhi, o delle lancette di un orologio da muro, ma la stanza era completamente spoglia – non un quadro, non una rivista –, ed era anche deserta. In quel silenzio il frastuono degli spari tornava a esplodere nelle sue orecchie, facendolo impazzire; provò perfino a contare a voce alta, nel tentativo di coprire il rumore dei colpi. Ma era inutile.
Finché, a un tratto, udì un ritmico suono di passi in avvicinamento. Dopo un attimo di silenzio, una delle due porte della sala si aprì. Ne emerse una giovane infermiera, con degli strani occhiali neri in stile anni Cinquanta che le scivolavano sul naso.
«Mi dica qualcosa...» implorò Henri avvicinandosi alla donna.
«Non so nulla, non ero in sala operatoria» gli rispose lei.
«Mi scusi, credevo...»
Lei lo osservò meglio e si risistemò col dito indice gli occhiali. «Si è visto in faccia?» gli chiese.
Henri portò istintivamente le mani alle guance: il sangue di Daniel, ormai rappreso, gli tirava la pelle e doveva dargli un aspetto davvero sinistro. L’infermiera scosse leggermente la testa indicandogli la seconda porta della sala.
«Vada a lavarsi.»
«No, voglio aspettare di sapere come è andato l’intervento.»
«Guardi che lì dentro ne avranno ancora per qualche ora, mi dia retta, vada a lavarsi. Altrimenti corre il rischio di essere ricoverato anche lei.»
Forse voleva essergli di sollievo con un po’ di ironia, ma Henri si limitò a rivolgerle un’espressione tesa e si diresse verso il bagno.
Quando tornò nella sala d’aspetto, aveva il volto e le mani pulite mentre vistose macchie di sangue spiccavano ancora sulla camicia.
Si lasciò cadere su una delle sedie in laminato plastico, poggiò la testa al muro e chiuse gli occhi per qualche istante. L’acqua fresca gli aveva schiarito le idee. Si guardò l’orologio, erano da poco passate le due. Estrasse dalla tasca il telefono che gli aveva dato Daniel, selezionò la funzione rubrica e, arrivato al nome Giorgio, fece partire la chiamata.
La ragazza era sotto la doccia quando udì lo squillo del telefono. Chiuse il rubinetto e, infilandosi l’accappatoio, corse a rispondere.
«Pronto?»
«Mi scusi per l’ora, cercavo Giorgio.»
La donna non chiese chi fosse in linea ma guardò il display per vedere se compariva un nome, poi ricordò che sull’apparecchio non era abilitata la funzione di riconoscimento.
«Un attimo, aspetti un attimo.»
Lasciò l’accappatoio su una sedia del soggiorno e, nuda, con i capelli ancora bagnati, si avviò verso la camera da letto. Aveva da poco superato i trent’anni, e il suo fisico, perfetto, era scolpito da ore di palestra e aiutato da una grande attenzione alla dieta. Poggiò il telefono sul comodino, un parallelepipedo in cristallo acquistato in un negozio del centro di Roma. Giorgio le afferrò la mano, la portò verso di sé, la baciò sul collo e le chiese chi fosse. Lei non rispose, alzò le spalle e gonfiò d’aria le guance.
«Chi parla?» fece Giorgio portandosi il telefono all’orecchio.
«Scusa per l’ora» rispose la voce maschile all’altro capo, «sono Henri, il compagno di Daniel... Noi non ci conosciamo, ma mi ha detto lui di telefonarti per dirti...»
«Cosa è successo?» chiese Giorgio sollevandosi di colpo sul bordo del letto.
«È stato aggredito, gli hanno sparato alle gambe, eravamo insieme...», la voce dell’uomo si spezzò, poi fece una lunga pausa, «è stato tremendo.»
«Come sta?»
«Non lo so, è in sala operatoria in questo momento.»
«Ce la farà?»
«Credo di sì, ma ha perso molto sangue.»
«Raccontami cosa è successo.»
Il tono di Giorgio era pacato, non traspariva la minima emozione, mentre quello di Henri rivelava tutta la tensione accumulata nelle ultime ore.
Giorgio ascoltò con attenzione, senza interromperlo, ma strinse il pugno della mano e deglutì quando Henri disse: «Mi ha dato il suo telefono e mi ha detto: “Chiama Giorgio”, e ha insistito perché lo facessi; è stata l’ultima cosa che ha detto prima che lo portassero via».
«Quando sai qualcosa, qualunque cosa, chiamami. Domani prendo il primo volo e vengo a Parigi.» Sottolineò quel “qualunque cosa” con un tono di voce cupo; era chiaro cosa volesse dire, ed entrambi speravano non accadesse.
Si alzò dal letto, con tutti i nervi e i muscoli tesi. Anche il suo, come quello della compagna, era un fisico allenato e definito. Su entrambi i deltoidi facevano mostra di sé dei tatuaggi: sulla destra il Che Guevara con il basco e la stella al centro, e sulla sinistra una croce con il Cristo morente – due immagini così contrastanti che trovavano ospitalità in un corpo solo, con un effetto quasi inquietante.
Mentre Giorgio andava a sedersi su una poltrona in soggiorno, la ragazza prese il telefono e compose un numero.
«Chi chiami?»
«L’agenzia.»
Giorgio aveva usato per la sua agenzia, la Wilson, il cognome della madre, statunitense di Boston. Un nome che, secondo...