Morte di un naturalista
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Morte di un naturalista

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Morte di un naturalista

Informazioni su questo libro

Con Morte di un naturalista, nel 1966, iniziava la straordinaria avventura poetica di Seamus Heaney. Il suo esordio aveva subito imposto una personalità d'autore matura e originalissima, la cui voce si sarebbe ben presto confermata inconfondibile e centrale nel panorama della poesia degli ultimi cinquant'anni. Carico di motivi che verranno poi a svilupparsi nella coerenza delle opere successive, questo primo libro colpisce fin dalle battute iniziali per l'energia con cui viene presentato un mondo in cui il legame con la terra – e con la quotidiana esperienza umile di chi la abita e lavora – sprigiona un senso di complessa autenticità vitale, tanto lontana dalla realtà di oggi da sembrare quasi preistorica. Per gli uomini del paesaggio irlandese di Heaney, la realtà è nella fatica e nella sapienza del lavoro, nello scavo della terra stessa. E il poeta è un osservatore sensibilissimo di fronte alla molteplicità della natura, nel suo incessante ripetersi di morte e rinascita, dove la bellezza e la meraviglia vengono inesorabilmente a coesistere con l'orrore e la paura, sentimento molto forte in quest'opera, come sottolinea nella sua Nota Marco Sonzogni, a cui si deve la bella traduzione in versi italiani. Una molteplicità, quella che si manifesta in Morte di un naturalista, pullulante di presenze, di animali, a volte lievi e guizzanti come farfalle o trote, ma spesso invece inquietanti come rane, topi o pipistrelli o quei poveri gattini affogati. E con gli animali queste pagine di Heaney ci mostrano anche svariati personaggi umani, come il portuale «forte e rozzo come una croce celtica», le «vecchie dalla faccia come pasta con scialli neri», ma anche due grandi maestri di scrittura come Synge, che ha «nella testa il raspare di una dura penna», e Joyce «quasi cieco a Parigi». Uomini in genere indaffarati con i loro attrezzi, uomini elementari e formidabili insieme, legati come il poeta a tradizioni e ritmi a lungo rimasti immutabili e sempre caratterizzati da un contatto fisico diretto costante con «la musica di ciò che accade». Figure, scene e situazioni che risaltano nella loro verità semplice dentro un mondo spigoloso, e che lo scavo poetico di Heaney rende per sempre vive ed esemplari.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804643883
eBook ISBN
9788852053818
Argomento
Letteratura
Categoria
Poesia

Morte di un naturalista

per Marie

Scavare

Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna, comoda come una pistola.
Da sotto la finestra, un suono aspro e netto
quando la vanga affonda nella terra ghiaiosa:
mio padre, che scava. Mi affaccio e guardo
finché la sua groppa tesa nello sforzo tra le aiuole
s’abbassa, si rialza vent’anni addietro
curvandosi ritmicamente tra i solchi di patate
dove stava scavando.
Il rozzo scarpone annidato sulla staffa, il manico
saldo contro l’interno del ginocchio a fare leva.
Sradicava gli alti ciuffi, affondava la lama lucente
per sparpagliare le patate novelle che raccoglievamo
stringendole con piacere fredde e dure tra le mani.
Per Dio, il mio vecchio la sapeva maneggiare, la vanga.
E così il suo.
Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di ogni altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
con un tappo di carta abborracciato. Si raddrizzò
per bere, poi si rimise subito al lavoro,
fendenti e affondi netti, gettandosi le zolle
sopra la spalla, andando sempre più giù
dove la torba era migliore. Scavare.
L’odore freddo del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo
della torba impregnata, i tagli netti di una lama
su radici vive mi si ridestano nella mente.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.
Tra il mio pollice e l’indice riposa
la tozza penna.
Scaverò con questa.

Morte di un naturalista

Tutto l’anno la fossa del lino suppurava nel cuore
del circondario; lino verde dalla testa greve
vi era macerato, sotto il peso di zolle enormi.
Ogni giorno sudava nel sole assillante.
Bolle gorgogliavano delicatamente, mosconi
tessevano una forte garza di suoni attorno all’odore.
C’erano libellule, farfalle maculate,
ma il meglio era la bava tiepida e spessa
delle uova di rana che crescevano come acqua coagulata
all’ombra degli argini. Qui, ogni primavera,
riempivo interi vasetti di gelatinose
macchioline da disporre su davanzali a casa,
su scaffali a scuola, e aspettavo e osservavo finché
da quei puntini all’ingrasso non fuoriuscivano,
svelti natanti, i girini. Miss Walls ci raccontava
che il papà-rana si chiamava rana toro,
e gracidava, e la mamma-rana
deponeva centinaia di ovetti da cui poi nascevano
le rane. Si poteva anche prevedere il tempo con le rane,
ché erano gialle quando c’era il sole e brune
quando pioveva.
Poi un giorno di calura in cui i campi puzzavano
di letame nell’erba, le rane inferocite
invasero la fossa del lino; mi infilai tra le siepi
sentendo uno sguaiato gracidio che mai
avevo udito. L’aria era ispessita da un coro di bassi.
Giù in fondo alla fossa, rane dal ventre greve se ne stavano impettite
sopra le zolle; le gole flaccide pulsavano come vele. Qualcuna saltava:
i tonfi e i plop erano oscene minacce. Altre stavano ferme
come bombe di fango innescate, le tozze teste scoreggianti.
Ebbi nausea, voltai le spalle e corsi via. I grandi re della melma
si erano radunati là per vendicarsi, e sapevo
che se avessi immerso la mano le uova me l’avrebbero afferrata.

Il granaio

Il frumento trebbiato era ammassato come graniglia d’avorio
o solido come cemento in sacchi con due orecchie.
L’oscurità stantia ammassava un arsenale
di attrezzi da cortile, bardature, vomeri.
Il pavimento era di calcestruzzo, grigio-topo, liscio, freddo.
Non c’erano finestre, solo due stretti fasci
di pulviscolo dorato, trasversali, da sfiatatoi aperti in alto
su ciascuna facciata. L’unica porta voleva dire nessuna corrente
per tutta l’estate quando lo zinco ardeva come un forno.
Una lama di falce, una vanga pulita, i rebbi di un forcone:
lentamente oggetti luminosi prendevano forma quando entravi.
Poi sentivi le ragnatele irretirti i polmoni
e filavi via di corsa nel cortile soleggiato –
in notti quando i pipistrelli svolazzavano
sulle travi del sonno, dove occhi luminosi fissavano,
penetranti, senza battere ciglio, da mucchi di grano accantonati.
Il buio era spalancato come la volta di un tetto. Ero pula
da beccare quando gli uccelli saettavano dagli sfiatatoi.
Mi stendevo a faccia in giù per schivare la paura dall’alto.
I sacchi orecchiuti avanzavano come enormi ratti ciechi.

Un avanzamento delle conoscenze

Presi il sentiero lungo l’argine
(come sempre, schivando
il ponte). Il fiume correva annusando,
flessuoso, impermeabile, coperto
da una decalcomania di facciate e di cielo.
Curvo sulla ringhiera,
ormai lontano dalla strada
osservai i cigni dalla chiglia sporca.
Qualcosa sciaguattò, brusco, vicino,
sbavando sul silenzio: un ratto
sgusciò viscido dall’acqua e
la nausea mi salì in gola così di colpo che
ripiegai lungo il sentiero sudando freddo
ma, Dio, un altro svelteggiava
su per l’argine opposto, tracciando i suoi archi
bagnati sui sassi. Incredibilmente allora
stabilii una temuta
testa di ponte. Mi girai a fissare
con meditata, fremente attenzione
il mio roditore fin lì snobbato.
Girò a vuoto su se stesso per un poco,
si fermò, rinsaccato e luccicante,
le orecchie appiattite sul cranio nocchiuto,
insidiosamente in ascolto.
La coda affusolata che lo seguiva,
gli occhi gocce di pioggia, il vecchio muso:
uno alla volta presi atto di tutto.
Mi puntò. Ressi la sfida e la vinsi
dimentico del panico che mi prendeva sempre
quando i suoi grigi fratelli grattavano e mangiavano
dietro al pollaio nel nostro cortile,
sulle assi del soffitto sopra il mio letto.
Quel terrore, freddo, il pelo bagnato, i piccoli artigli,
ripiegò su per un tubo delle fogne.
Stetti a guardarlo un altro istante.
Poi mi rimisi in cammino e attraversai il ponte.

La raccolta delle more

a Philip Hobsbaum
Fine agosto: pioggia battente e sole
per un’intera settimana, e le more maturavano.
All’inizio, solo una, un lucente grumo viola
in mezzo ad altri, rossi, verdi, duri come nodi.
Mangiavi quella primizia e la polpa era dolce
come vino addensato: aveva dentro il sangue dell’estate
che lasciava macchie sulla lingua e brama
di raccolta. Poi quelle rosse si tingevano d’inchiostro, e quella fame
ci mandava con lattiere, barattoli di piselli e di marmellata
dove i rovi graffiavano e l’erba umida ci scoloriva le scarpe.
Intorno a campi di fieno, campi di grano e solchi di patate,
scarpinavamo e raccoglievamo fino a colmare le lattine,
finché il fondo tintinnante non si ricopriva
di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Morte di un naturalista
  3. Morte di un naturalista
  4. Death of a Naturalist
  5. Note ai testi
  6. Nota del traduttore
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright