1
Qualcosa da cercare in viaggio. «Intenderanno uno scopo, la realizzazione di un desiderio», così ragionavo tra me e me la notte seguente, mentre mi preparavo ad andare dai maestri. «Be’, non è difficile immaginare una risposta equilibrata: i desideri sono sicuramente la cosa più utile che esista al mondo, ma l’Aldilà non è il mondo e io non posso desiderare qualcosa in un posto che non conosco.»
Disposi come al solito il quaderno e le penne sulla scrivania, spensi la lampada, chiusi gli occhi e mi avviai per il solito itinerario.
«Già, e loro mi risponderanno che, appunto per questo, è un indovinello, e che mi tocca risolverlo» pensavo intanto, con disappunto. «“Devi cercare qualcosa in un posto che non sai!” Come in una fiaba. E, se non lo risolvo, niente viaggio. Devo trovare una risposta. Trovare qualcosa da cercare.»
La mia sedia precipitava giù nell’immaginazione, mentre io – con le sopracciglia aggrottate – tentavo invano, come si tentano le chiavi in una serratura. «Potrei dire: “Cercherò un genio della lampada di Aladino?”.» Ma non mi occorreva, avevo già loro. «Allora qualche potere speciale? Una rivelazione?» Anche queste cose avrei potuto chiederle semplicemente a loro, senza bisogno di viaggiare: e me le avrebbero insegnate in qualche lezione.
«È strano, comunque: come mai non mi viene in mente niente, quando potrei pensare a qualsiasi cosa? Anche questo è il confine, il diavolo?»
La sedia cominciò a rallentare, e vidi dall’alto il sentiero e il lago, sempre più vicini. «Dirò così: andiamo a cercare qualcosa che mi permetta di sentirmi contento di me guardando la primavera, le nuvole luminose e gli alberi verdi. Capiranno cosa intendo; è un’ottima risposta.» La sedia toccò terra e mi avviai verso il lago.
Ho pensato a cosa cercare, dissi subito, quando entrarono nella stanza tonda.
«Bene, sentiamo.»
La promessa.
Lo pensai soltanto dopo averlo detto. La promessa. Non avevo idea di quale fosse, ma in quel momento seppi chiaramente di avere una promessa da mantenere.
Ricordarmi di cosa ho promesso e quando, continuai, come per spiegarlo a me stesso.
«Mmh, ci siamo quasi» disse il Dominante, proprio come avrebbe potuto dirlo un maestro a scuola.
2
«Non è soltanto la promessa da ritrovare» continuò. «C’è anche la capacità di usare le promesse: come strumento per la conquista della realtà.»
Mi è venuto in mente solo adesso, dissi, senza capire quel che mi stava spiegando. Così, tutto a un tratto. Non avevo pensato a una promessa, prima.
«Succede sempre così, con gli indovinelli. In parte è già questa la promessa che cerchi.
«In un certo senso, è il passo successivo ai desideri. Quando esprimete i vostri desideri, imparate non soltanto a guardare dentro voi stessi, ma anche ad affidarvi a forze invisibili e senza nome, più grandi di voi. E, perciò, a ogni desiderio autentico cogliete un lembo della trama sconosciuta della vostra vita: i desideri sono una forma superiore di conoscenza, e questo è il dolce premio di tutti i desideri, anche di quelli che poi non avete la forza di lasciar realizzare. Quando invece…»
E quelle forze invisibili sono il fiume, nel disegno dei Cieli?
«Certamente. Quando invece userai le promesse…»
E i desideri sono un accesso al corpo maggiore?
«Sì. Quando invece imparerai a usare le promesse, tutto comincerà ad avvenire per dimostrarti che tu contieni il mondo. E non capirai mai come, ma diventerai tu quelle forze più grandi.»
Con le promesse, semplicemente? Dicendo: «Farò questo e quest’altro?».
«Più o meno. Col dirlo anche senza le parole. Anche qui, è come quando la mamma affida Mosè al Nilo, tale e quale. Vedrai, ma devi imparare a viaggiare, prima.»
3
Tacquero.
Adesso stiamo per viaggiare?
«Direi!»
Bisogna andare da qualche parte, per partire? domandai, indicando le porte della stanza.
«No, basta che raccogli qualcosa da terra.»
Immaginai di chinarmi; sentii che la spalla destra si chinava più rapidamente della sinistra, e ruotava verso sinistra.
E cominciai a vedere.
* * *
Un calcagno fine. E la caviglia olivastra. Per un attimo soltanto. Di una bambina, sicuramente.
Poi, l’impronta che aveva lasciato il sandalo. La vedevo da vicino, sul terreno rossastro, polveroso; e la luce arancione del sole e l’ombra sul margine dell’impronta: il margine non era profondo più di due o tre millimetri, ma ne vedevo nettamente l’ombra. E il colore della luce del sole, l’ombra e la polvere mi sembravano belli come pietre preziose. «È così bello il mondo?» ebbi il tempo di pensare.
«Devi regolare un po’ la vista» disse il Dominante. «Tieni la schiena diritta, andiamo a sederci là» e indicò dei gradini di pietra nel sole al tramonto.
Dov’è andata? domandai, intendendo la bambina o la donna di cui avevo visto il calcagno. La bambina camminava davanti a noi: aveva lunghi capelli ricci, scuri, e una veste arancione, scura anch’essa, che le arrivava sotto le ginocchia.
Diverso tempo prima, nelle conversazioni con i maestri, mi era accaduto o mi era sembrato a volte di sentire anche la voce di una bambina, oltre alle voci del Dominante e dell’Austero. Mi volsi a domandare al Dominante, e mi fermai a bocca aperta.
«Che c’è?» sorrise il Dominante.
Era la prima volta che lo vedevo.
* * *
Il Dominante aveva una lunga sopravveste, a disegni persiani, rosso cupo e verde. Era largo di spalle e soprattutto di torace, e appena più alto di me. Aveva la barba rada, chiara, e grandi occhi castani che in quel momento erano illuminati dal sole. Vedevo il denso colore del sole sulle ciglia, sulle piccole rughe negli angoli degli occhi: sorrideva con le labbra chiuse. Poteva avere sessant’anni.
«Mi vedi, sì?»
Sì! e ridevo dall’emozione. E lui è…
L’Austero, che gli camminava accanto, era vestito di chiaro, con ampie vesti arabe, bianco e ocra. Era più alto del Dominante e aveva la barba nera, gli occhi neri e la pelle bianco latte. Dietro di noi, sulla sinistra, venivano altre due figure che non distinguevo bene: avevano il sole alle spalle e il sole era basso e abbagliante. La bambina era corsa accanto a una di queste figure e l’aveva presa per mano.
Siete cinque?
«Noi? Tu sei cinque, noi ci adattiamo a te» rispose il Dominante, e mi guardò, continuando a camminare. «Ma non siamo né uno, né tanti, né pochi.» Per un attimo mi sembrò di aver capito perfettamente questa frase, come se fosse stata aritmetica.
«Nei viaggi bisogna innanzitutto imparare a vedere» disse ancora. Mi sorridevano, tutti, anche l’Austero – che era sulla cinquantina, ma aveva un sorriso da adolescente, come accade agli uomini non sposati.
Li guardavo, ora l’uno ora l’altro, e non riuscivo a dire niente dalla contentezza. Le due figure sulla sinistra erano un uomo e una donna, vecchi, portavano anche loro vesti lunghe e ampie, blu scuro, e avevano forme strane dietro le spalle – come ali di libellula modellate con il filo di ferro.
Io sono cinque? E tutti gli uomini lo sono? domandai, per sentire la mia voce.
«Chi più, chi meno» rispose l’Austero.
Avrei voluto toccarli, ma temevo che al contatto si dissolvessero. La bambina mi guardava con curiosità, sempre tenendo per mano il vecchio con le finte ali di libellula.
«Qui, siediti» disse il Dominante, battendo la mano sui gradini tiepidi di sole. «Non devi avere fretta. Impara ad ascoltare e a prendere nota anche in viaggio.» E si sedette alla mia sinistra. Proprio davanti a me, sulla terra battuta, erano tracciati i disegni dei cerchi e dei coni dei cieli.
«La questione, per voi, sta tutta nel concordare questi disegni tra loro» riprese il Dominante, vedendo che guardavo i disegni. «Dai diversi modi di concordarli prendono forma tutte le vostre religioni. Gli egizi e i greci ci riuscivano bene. Voi no, soprattutto perché sentite che in questi disegni è racchiuso un grosso potere, e ne avete paura.»
«Infatti gli egizi e i greci non avevano il diavolo» disse l’Austero, che si era seduto a sinistra del Dominante.
«Parla con noi come se fossi nella stanza tonda» mi sussurrò il Dominante. «Devi abituarti.»
4
Cioè (provai a obbedirgli), se il diavolo è la paura, vuol dire che i cristiani sono più paurosi degli altri?
«Il diavolo è dei cristiani» disse il Dominante. «Loro l’hanno coltivato e plasmato nelle sue qualità, il che naturalmente è una cosa notevole. Il diavolo come lo si immagina di solito è una delle poche figure mitologiche veramente nuove che si siano formate negli ultimi due millenni; per il resto, in mitologia avete continuato a riscoprire terre antiche.
«I cristiani l’hanno plasmato e si sono, per così dire, specializzati nel diavolo, perché di tutte le religioni il cristianesimo è quella che teme maggiormente di venir superata. In un certo senso è la più consapevole di tutte. Sa di essere inferiore al suo principio, cioè a Gesù e alle Scritture: sa di sapere meno di quel che c’è nelle Scritture (gli ebrei invece non lo sanno) e ne ha paura. Poi, naturalmente, ha paura di tante altre cose di cui sa troppo poco. Del corpo, per esempio. I cristiani hanno come simbolo un corpo crocifisso: è strano, non ti pare?»
Sì, dissi, e intanto mi distraeva la sensazione del mio corpo, lì, delle mie gambe appoggiate su quel gradino di pietra chissà dove. Sto perdendo qualche passaggio? domandai. Non ho seguito bene…
«Sta andando tutto benissimo» mi rassicurò il Dominante. E proseguì: «Il vostro corpo è davvero una delle ragioni principali della paura del Dio cristiano. Il vostro Dio, sai, è in una situazione difficile, molto più difficile di quella di Zeus. L’avete proclamato “Dio unico” troppo presto, quando né Lui né voi eravate pronti per una simile conquista.6 Lui non si era ancora formato del tutto, e voi non avevate ancora superato nemmeno uno dei molti Dei che avevate allora. Stavate intuendo una possibilità tanto audace: un Dio unico! E, tutt’a un tratto, avete voluto realizzarla. Nota bene che neanche gli ebrei l’avevano: il loro Dio era soltanto il più grande, non pensavano che fosse l’unico. Parlo della massa, certo. I sapienti avevano altre idee».
E il ...