Dies irae
eBook - ePub

Dies irae

  1. 784 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Dies irae

Informazioni su questo libro

Giugno 1981: a Vermicino il piccolo Alfredo Rampi è incastrato in un pozzo artesiano. Diciotto ore di diretta televisiva raccontano la sua fine e lo trasformano in un'icona mediatica - Alfredino. L'Italia non lo dimenticherà più. È l'alba di una nuova nazione, pronta a varare il suo decennio più patinato e contraddittorio, gli anni Ottanta. Percossi dalla Storia che stravolgerà l'Italia stessa e il mondo - la P2, la caduta del Muro, Tangentopoli, le guerre di Bush, la crisi - si muovono i protagonisti di questo libro. Paola, in fuga da un trauma indicibile, attraversa il sottobosco tossico di Berlino e la scena psichedelica di Amsterdam. Monica vive la parabola della buona borghesia, prossima all'estinzione. Lo scrittore Giuseppe Genna tiene a bada gli spettri della sua famiglia e quello di Alfredino, che lo condurranno al centro di un mistero impensabile. Romanzo epico, che porta in scena un teatro umano vastissimo, Dies Irae è la narrazione di un terribile trentennio italiano. Una resa dei conti letteraria e civile, che non fa prigionieri.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Dies irae di Giuseppe Genna in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804637561
eBook ISBN
9788852050619

1

Cosa brucia?

2005

Tutte le sere si sentiva parlare della guerra in televisione, ma noi preferivamo andare al cinema. Ben presto i film erano cominciati a sembrarci tutti uguali, e così avevamo traslocato in massa in camerette immerse nella penombra dove ci riunivamo a eccitarci o ammosciarci, oppure a guardare gli altri che si eccitavano o si ammosciavano, o a bruciare bastoncini d’incenso e ascoltare cassette praticamente mute. Io portavo con me la cinepresa da 16 mm. Era un giocattolino proprio spiritoso, e ogni volta tutti ne rimanevano deliziati.
DON DELILLO, Americana

Io, Giuseppe Genna – Sesto San Giovanni – Marzo 2005
I colori sono indistinti, irriferibili, mentali, ma la scena è nitida.
La madre è una donna giovane, poco più che trentenne. È seduta, tiene accoccolato tra le braccia e appoggiato sulle cosce il bambino. Il volto della madre è bianchissimo. Il bambino appare assonnato, la guancia sinistra schiacciata sul seno sinistro della madre. La madre indossa un golf da poco prezzo, sembra angora ma non lo è, ed è comunque morbido alla guancia del bambino che è nello stadio del presonno e ascolta inebetito quanto la madre gli sta sussurrando. È un pomeriggio profondamente buio, deve essere inverno, la tapparella è semiabbassata, la penombra nella piccola stanza rende tutto ovattato e c’è un che di tetro, questa è la parola: tetro. La scena è vista da fuori, ma è vista anche dall’interno, dallo sguardo del bambino, la figura offuscata del volto ovale e bellissimo e bianco della madre, e la madre sussurra dolcemente le parole, accenna a un dondolio ritmato morbidamente, sussurra le parole e il tono è quello di una fiaba raccontata e il bambino tenta di mantenere spalancati gli occhi e desta l’attenzione, resiste allo scivolamento della coscienza e ascolta le parole della madre: «Lavoravo, perciò, in questo posto grande, di proprietà degli inglesi, sai cosa sono gli inglesi?».
Il bimbo scuote la testa, sproporzionata rispetto al corpo.
«Gli inglesi sono persone che vivono in un’isola molto lontana da qui e sono molto ricchi. In questo posto dove lavoravo, alle cinque del pomeriggio, si smetteva di lavorare perché passava una persona e a tutti gli impiegati dava una tazza di tè al limone. È una tradizione inglese. E allora quel giorno, bevuto il tè, avevo diciott’anni, sono uscita dal posto dove lavoravo e ho preso il tram per ritornare a casa. Vivevo con il nonno e con la nonna. Il nonno ti sta simpatico, vero?, il nonno...»
Il bambino sorride, il nonno gli sta simpatico.
«Il nonno e la nonna litigavano sempre e si tiravano i piatti e io dovevo schivarli, urlavano, e il nonno era particolare perché suonava il violino nei tabarin. Lo sai cos’è un tabarin?»
Il bambino scuote la testa, una bolla di saliva luccica tra le labbra.
«Erano posti dove orchestrine suonavano e la gente andava per divertirsi, pieni di fumo e di donne, locali dove chi era sposato poteva conoscere altre donne e così accadeva col nonno, che suonava il violino in un’orchestrina, era bello, i capelli sempre impomatati, la barba rasata alla perfezione, era un musicista ed emanava fascino ed era sempre attorniato da donne, tradiva molto la nonna. La nonna si chiamava Gisella. Aveva dei problemi. Problemi di testa. C’erano volte che la nonna non riconosceva me che ero sua figlia, o si stendeva sul letto per giorni piangendo o sembrava dormire sempre e allora dovevo fare io da mangiare per tutti, e a un certo punto i medici hanno costretto la nonna a una terapia, per guarirla, ma non guariva, ed erano gli elettrochoc. Sai cosa sono?»
La bolla di saliva è scesa sul mento del bimbo, un filo luccicante di bava, e la mamma lo asciuga con il bavaglino mentre il bimbo scuote la testa, non sa cos’è un elettrochoc.
«Adesso non li fanno più, o li fanno meno. Ti portavano in una specie di ospedale, in una stanza, ti mettevano seduto e ti legavano e ti applicavano dei fili dell’elettricità alla testa e poi giravano delle manopole e arrivavano delle scosse di elettricità direttamente nel cervello, una, due, tre volte. Alla fine eri senza coscienza, non capivi più niente, sedato e senza forze e riportavano così a casa la mia mamma, e io le vedevo le grandi occhiaie blu, lividi sotto gli occhi, l’espressione assente. La tua mamma non ha l’espressione assente, vero?»
Ancora il bavaglino, anche se la saliva è nettata.
«E allora quel giorno scendo dal tram, cammino verso casa. Noi vivevamo in una casa alta alta, all’ottavo piano, molto in alto, e vedevamo Milano, vedevamo la Madonnina sopra il Duomo. E quando sono arrivata alla casa ho visto che c’erano tante persone e mi sono incuriosita, cosa ci facevano lì? Allora sono andata a vedere anche io, era un gruppo di persone, molte, sono arrivata al centro, ed erano lì perché a terra c’era il corpo della nonna Gisella, la mia mamma, che si era lanciata dall’ottavo piano, si era buttata giù per uccidersi, era morta. Ho visto il corpo, sembrava una bambola rotta, il braccio era in una posizione innaturale, c’era molto sangue attorno, cadere dall’ottavo piano è un volo lungo, ci si impiega tanto tempo, l’impatto a terra è fortissimo, il suo corpo era schiantato, chissà se volando si è pentita di quello che stava facendo, non ha pensato a me? Mi ha lasciato sola con mio padre, il nonno, ti è simpatico il nonno, vero? È stata alla fine colpa sua, lui la tradiva, perfino con la nostra portinaia, questo l’ho saputo dopo, lei aveva dei problemi, le facevano gli elettrochoc, mi ha lasciata sola, si è lanciata dall’ottavo piano, io non ce la facevo a vivere in quella casa, ma ho dovuto, la casa dove mia mamma era stata, la finestra da cui si era gettata, mi hanno portato via dal cadavere che vedevo e nemmeno mi ero chinata e piangevo e non capivo più niente, mi pare ci fosse mio cugino, mi ha trascinata via, sentivo il fischio dell’ambulanza. Risalire all’ottavo piano. Stare lì, io e mio padre. Così si è uccisa la tua nonna, che si chiamava Gisella.»
E il bimbo sente scivolare tutto nel buio, il sonno stranamente potente, accenna a un sì con la testa, il volto ovoidale perfetto della mamma è bianchissimo, la testa è appoggiata sul seno della mamma che è caldo e il sonno giunge, non percepisce l’istante in cui giunge, così si è schiantata al suolo dall’ottavo piano la nonna che faceva gli elettrochoc.
Questo è un ricordo e il ricordo è mio, di me in carne e ossa, Giuseppe Genna, e mi esplode nella testa in una visione nitida e aberrante perché ora sono in un ascensore e sto per premere il pulsante dell’ottavo piano. I ricordi non sono ispirazioni. Sono il collante. Non sottovaluto l’aberrazione di tutto ciò, non tanto la materia traumatizzante di questo ricordo, quanto il fatto che io faccio lo scrittore e quindi i ricordi esercitano su di me una potenza superiore a quella percepita dagli altri. Sto attento ai dettagli. Memorizzo il ricordo. E quando torna, memorizzo altri particolari. Mi affascina l’irriferibilità dei colori, che non hanno un corrispettivo nello spettro fisico. Che bianco è quello che irradia dal volto giovane di mia madre? Questo episodio narrato sempre, da trentacinque anni (ho trentacinque anni e sento che sto irrimediabilmente invecchiando, perdo potenza, tranne che nel memorizzare e scandagliare i particolari di ciò che memorizzo). Questa saga che è diventata, per me e per mia sorella, che si chiama Gisella come mia nonna suicida, è diventata una visione in presa diretta, come se avessimo assistito in prima persona all’evento. E ai dolori successivi accusati da mia madre. Questo trauma che ci viene riproposto ossessivamente nelle medesime forme, attraverso minime e impercettibili varianze narrative, a Natale quando mangiamo insieme, il sabato quando andiamo a trovarla, quando si appalesa un dramma o una difficoltà e il primo naturale richiamo è quel ricordo, mia nonna che si suicida lanciandosi dall’ottavo piano. È una vibrazione visiva che ha intriso me e mia sorella e rischia di diventare patrimonio genetico transgenerazionale. Se mai io e mia sorella avremo figli. Se mai avremo figli, dovremo stare attenti a interrompere la catena visionaria di questo lutto, la scossa vibratoria che mangia spazio mentale, brucia ossigeno, percuote le ossa.
Ho premuto il bottone dell’ottavo piano e l’ascensore mi costringe a sopportare un vago senso di soffocamento, una lieve claustrofobia. È sempre così, se salgo in un ascensore. È un altro ricordo, un ulteriore trauma, di cui sono imbevuto, da quando avevo undici anni, ed è il pozzo artesiano in cui cadde e morì Alfredino. Il bimbo di Vermicino. Una disgrazia nazionale. Una diretta televisiva infinita, durò ore e ore e ore, a scuola non si parlava che di Alfredino e, tornati a casa, subito si accendeva il televisore (se già non era acceso), per partecipare in prima persona agli sviluppi del fatto. C’era Pertini in piedi, un’aria dignitosa e mortuaria. La sigla robotica del Tg2, il conduttore Maurizio Vallone che sostituiva il vecchio Mario Pastore, le cronache in diretta di notte sotto i fari abbaglianti dalla viva voce di Piero Badaloni, l’inviato, quella luce artificiale che accecava intorno al pozzo. A vent’anni da quella tragedia, Badaloni è diventato governatore della regione Lazio. C’era Frajese, era noto per essere sposato con una pornostar, nel frattempo è morto.
Ore e ore e ore di Alfredino, le sue parole sconnesse riportate in tempo reale dai cronisti e la madre che sembrava una madonna laica, il che mi procurava un effetto dirompente, non essendo io battezzato, l’unico non battezzato della mia classe, e questo comportava problemi notevoli con insegnanti e compagni, questo gesto antiborghese deciso e attuato dai miei genitori comunisti (mi chiamo Giuseppe di primo nome e Carlo di secondo, in onore di Josif Stalin e Karl Marx).
Stare nell’ascensore, che salga o scenda è indifferente, è come essere compresso nel pozzo artesiano in cui si incastrò e poi scivolò ulteriormente e poi morì con la testa reclinata Alfredino.
Questo ascensore non mi piace. È in metallo satinato, lo specchio sulla parete opposta alla porta, è odioso per me specchiarmi. Mi faccio letteralmente schifo. Un’occhiata nello specchio, come sempre veloce, a scatti, imbarazzata: è marzo, fa ancora freddo, indosso questo giubbino scamosciato a cui manca un bottone centrale, la barba è sfatta e cresce a zone disarmoniche, le Clarks sono consunte, la pancia sporge, ma è soprattutto la faccia, queste occhiaie livide, il colorito olivastro che dall’inverno ha mutuato una tonalità cianotica, il naso pronunciato e lievemente storto. È marzo e fa ancora freddo, è Milano, è freddo fino all’ultimo e poi si trapassa a un’afa ubiqua, afflosciante. Comunque in questo ascensore sono a Sesto San Giovanni e vado all’ottavo piano, c’è una specie di party.
Sono abituato a questi party che da circa vent’anni sono inesorabilmente emulazioni fallite di party. Se dicessi che questo party è particolare, sarei nel giusto, ma non c’è nulla di eccitante in quella particolarità.
La mia vita fa schifo. Non è nemmeno una fase della vita, ormai. È una vertigine, una vibrazione visiva e cieca, una sigla robotica che si reitera empiamente. Guardo, osservo, memorizzo. Ho un’identità. Sono lo scrittore Giuseppe Genna.
Il party è particolare in questo senso: è il prolungamento della serata. Sono quasi le dieci e un quarto di sera. Una sera fredda ed elettrica nella conca grigia di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, era la «Stalingrado d’Italia», omerismo derivato dall’alta percentuale di votanti per il Partito comunista. Era l’area templare e sacra dell’industria pesante italiana, una città eretta a corollario delle acciaierie Falck, una zona immensa dominata dagli altiforni, migliaia di operai, le sirene che dettavano i tempi di lavoro e di nonlavoro. Ora, da anni, è tutto smantellato, una società giapponese ha ottenuto l’appalto per la dismissione. Ricostruiranno, è in atto una battaglia politica e finanziaria per l’immensa area liberata dai Falck. Migliaia di famiglie distrutte dalla dismissione Falck. La famiglia Falck ha spostato gli interessi nell’instabile universo parallelo della finanza. La famiglia Falck sta morendo: prima Alberto, quello serio, il vero manager, un colpo al cuore all’improvviso in macchina in via Verdi, a cento metri dalla Scala. Poi Giorgio, l’affascinante, il viveur, l’esperto di regate, se ne è andato da poco per un tumore.
Stanno aumentando i tumori.
Va di moda il tumore.
Sesto San Giovanni si penetra uscendo dalla cortina di inquinante tumorale che fa da cupola a Milano. Una semisfera cupa, livida, che si osserva decollando dall’aeroporto, quasi dismesso, di Linate. Ho percorso la dirittura verso Sesto, viale Monza, sul motorino Liberty Piaggio, il bottone centrale del giubbino scamosciato è saltato, avevo freddo. La serata iniziava alle otto e dovevo essere sul posto un quarto d’ora prima. Introducevo io. Incombenza tipica da scrittore. I piccoli moscerini nell’occhio dello scrittore. La sua presenza sul palco certifica in qualche modo il carattere vagamente umanistico dell’evento. Sei un uomo-sandwich di carattere superiore. Fai pubblicità all’umanesimo, sei un curioso esemplare di una specie rara, prossima in massimo grado all’estinzione, finalmente alla scomparsa. Lo scrittore, non l’intellettuale, poiché da anni non si accenna minimamente a questa figura vetusta e generalista che fu l’intellettuale. È dai tempi di Alfredino che non esistono intellettuali, che gli elzeviri e i column sui quotidiani non esercitano alcun impatto. Lo scrittore resiste perché pubblica libri e forse li vende. Quanti immaginano che lo scrittore è disgustato? Inviti un uomo (o una donna) in preda al disgusto, a parlare di, a fare appello a, a chiarificare che. Lo scrittore è disgustato non soltanto da questo, sebbene non vada ignorata la percentuale sostanziale di disgusto che l’apparire in pubblico comporta. È disgustato dalla letteratura. Ora e oggi, la letteratura, questo ricordo ripetuto ossessivamente, questa vibrazione visionaria che è diventata patrimonio genetico transgenerazionale.
Interrompiamola.
Altre siano le visioni, le vibrazioni da trasmettere.
La serata è una serata di beneficenza ed è il motivo per cui ho ac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dies irae
  3. Prequel - «Il cuore dell’Italia intera batte per un bambino in un pozzo»
  4. 1. Cosa brucia?: 2005
  5. 2. Sovranità limitata: Fine Ottanta - Inizio Novanta
  6. 3. Sovranità illimitata: Primi Novanta
  7. 4. Crollo e Metamorfosi: Novanta - Duemila
  8. 5 . L’era in cui muoiono i padri e tutto brucia: Duemila
  9. Precisazioni e ringraziamenti
  10. Copyright