Un indizio resta tale, se non sgomberi la mente e non gli dai la dignità che merita...
AMERIGO TAVERNA, notaio criminale
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La Conca di Viarenna era ben oltre il centro della città, non troppo distante dalla darsena del Naviglio Grande. Per arrivarci furono costretti a tagliare mezza Milano, adeguandosi al passo rapido e ritmato imposto dal comandante del drappello di soldati spagnoli.
L’uomo non aveva più pronunciato una sola parola. Mentre lo seguiva, cercando di evitare di guardarsi troppo intorno, Niccolò non aveva potuto fare a meno di pensare alle parole di Isabella e al suo sguardo carico di malinconia, quando gli aveva fatto quella carezza prima di salutarlo.
“Nonostante tutto mi piaci lo stesso” aveva detto, ma Niccolò aveva colto un certo struggimento in quelle parole e, nella fretta di obbedire a un ordine dei suoi superiori, non era stato in grado di rispondere.
Non c’era bisogno di essere un notaio criminale per capire che Isabella si aspettava da lui la rassicurazione che non si stava innamorando di un uomo che avrebbe sempre anteposto il lavoro ai sentimenti. Ma lui non aveva potuto (o voluto?) argomentare in alcun modo, e adesso sentiva il peso della propria mancanza di decisione, della fuga che aveva messo in atto di fronte allo sguardo indagatore di Isabella, approfittando della scusa di una convocazione da parte del capitano di Giustizia e del governatore.
Accanto a lui Rinaldo e Tadino camminavano in silenzio, ombre disomogenee ma ben coordinate che non osavano interrompere il flusso dei suoi pensieri. Niccolò era loro grato, se non altro perché coprivano la vista delle brutture che deturpavano le strade e i vicoli di Milano.
Anche se cercava di ignorarli, infatti, i fopponi, le grandi fosse comuni in cui venivano gettati i corpi degli appestati, ardevano giorno e notte, sollevando nell’aria colonne di fumo nero che facevano bruciare gli occhi e rendevano difficile la respirazione. Inoltre si vedevano le porte e le finestre degli edifici sbarrate dalle assi per imprigionare in quarantena migliaia di abitanti nelle loro case, secondo una grida del governatore che imponeva strettissime misure di contenimento del morbo; case da cui uscivano le urla disperate di chi, ancora sano, era costretto a restarsene imprigionato con qualche parente ammalato, rischiando di soccombere a sua volta alla peste. E c’erano i patiboli, eretti un po’ ovunque dalla giustizia secolare e da quella ecclesiastica, per impiccare ladri, assassini e approfittatori che cercavano di trarre profitto dagli stenti della cittadinanza, oppure per processare e condannare poveracci accusati di eresia e delle più strane diavolerie, permettendo all’Inquisizione spagnola di consolidare il proprio potere, grazie al diffondersi della paura e della superstizione.
Nel girone infernale in cui si era trasformata Milano dallo scoppio dell’epidemia, Niccolò temeva soprattutto questo: che la superstizione prendesse il sopravvento sulla ragione, che la paura sopraffacesse il raziocinio. Per questo occorrevano uomini d’ordine capaci di tenere salde le fila del potere civile, per arginare il diffondersi del terrore e le pretese di giurisdizione che il Consiglio spagnolo cercava di esercitare sul Ducato.
Niccolò si sentiva parte di questo processo, ed era dunque grato al capitano di Giustizia per quella convocazione, perché tutto ciò che poteva essere fatto per risolvere casi criminali e contenere la paura sarebbe servito a salvare quel poco che ancora restava della città. E a garantire a persone come la sua adorata Isabella di sperare in un futuro migliore, in cui insieme avrebbero potuto muoversi con la disinvoltura di due innamorati pieni di spensieratezza e voglia di vivere.
Avrebbe dovuto dirle questo, se ne rese conto. Ma ormai era troppo tardi.
«Ecco, siamo arrivati» lo riscosse l’ufficiale spagnolo. «Don Giacomazzo Valente da Bruges vi aspetta laggiù, dove ci sono gli uomini della sua guarnigione.»
Il gendarme aveva puntato un braccio a indicare un gruppo di soldati armati di tutto punto nel piccolo spiazzo davanti alla Conca di Viarenna.
«Vi ringrazio» disse Niccolò all’ufficiale salutandolo con un veloce inchino, poi fece un cenno a Rinaldo e Tadino e raggiunse un uomo dall’aspetto elegante e imponente che stava parlando con alcuni soldati e funzionari del Ducato, la mano posata sull’elsa della spada e il contegno di chi è abituato a comandare, seppure con un cipiglio più corrucciato del solito.
«Non vedo il governatore» constatò Tadino prima di raggiungere il capitano di Giustizia e i suoi uomini.
Niccolò non fece commenti. Avrebbe chiesto spiegazioni a don Giacomazzo, per cui provava grande rispetto e ammirazione, anche se lo sguardo teso e preoccupato che questi gli rivolse quando si accorse di lui non gli piacque per niente.
«Bene, per fortuna siete qui!»
Anche la voce del capitano di Giustizia era più roca e contratta del solito. Niccolò non si sorprese quando il suo superiore si voltò di scatto e, senza aggiungere altro, gli fece cenno di seguirlo.
Passarono attraverso una schiera di soldati che ostentavano divise e stemmi appartenenti a una mezza dozzina di guarnigioni, non solo della città ma anche, si accorse Niccolò, dei presidi oltre la cinta dei bastioni. Il che rendeva tutta la vicenda ancora più oscura (e per certi versi più interessante) di quanto avesse immaginato.
Don Giacomazzo si diresse verso lo specchio d’acqua della Conca, il cui livello era piuttosto alto. La chiusa a valle era stata bloccata, e l’invaso, che permetteva alle chiatte dirette al laghetto di Santo Stefano di portare i materiali ad usum fabricae, era pronto ad accogliere una nuova imbarcazione. Ancora una volta Niccolò ammirò la maestria degli ideatori di quel semplice ma prodigioso sistema di chiuse e invasi che consentiva ai materiali destinati alla costruzione del Duomo di arrivare dal Ticino fino al cuore stesso di Milano, passando per il Naviglio Grande, la Darsena e infine il laghetto di Santo Stefano, a pochi passi dal cantiere della Fabbrica. Sapeva che erano stati due architetti impegnati nei lavori della cattedrale a realizzare quell’ingegnoso sistema, Aristotele Fioravanti da Bologna e Filippo degli Organi da Modena. Poi anche il grande Leonardo da Vinci aveva dato il suo contributo, più che altro per regolare il flusso delle acque e impedire che il passaggio da un livello all’altro avvenisse in maniera troppo brusca, e adesso la Conca di Viarenna, che per tutti era la Conca della Fabbrica, assicurava il massimo dell’efficienza e della sicurezza, e il flusso di materiali per il Duomo era costante e senza interruzioni.
Tranne in quel momento, constatò sorpreso Niccolò. Nessuna chiatta era in attesa sullo specchio d’acqua, e non si scorgevano gli operai addetti alla manovra degli argani.
«Si è fermato tutto» confermò Giacomazzo Valente indicando la Conca. «Non avete idea delle pressioni che stiamo ricevendo da parte dell’arcivescovo Borromeo e dai direttori dei lavori della Fabbrica.»
Niccolò annuì tra sé, immaginando benissimo ciò a cui si riferiva il capitano di Giustizia. Aveva subito quelle pressioni anche lui, per un caso di omicidio che era stato costretto a risolvere in un solo giorno, e bastò il pensiero a farlo rabbrividire.
«Cos’è successo?» si decise a chiedere, guardandosi attorno e scorgendo due corpi rovesciati a terra, poco lontano dal capanno da cui si manovravano gli argani per le chiuse di ponente. Erano circondati dagli uomini della guarnigione, che però sembravano più impegnati a tenere a bada alcuni civili e i bravi di un paio di casate spagnole d’alto rango, piuttosto che a sorvegliare il luogo del delitto.
«Quei due sono stati trovati dopo la notizia del rapimento, e la loro morte conferma che ciò che ci è stato detto corrisponde al vero» esordì don Giacomazzo.
Niccolò lo fissò sorpreso, ma prima che potesse chiedere spiegazioni il suo superiore lo fermò alzando un braccio.
«Il governatore non è qui perché si trova nel luogo in cui si sono asserragliati i rapitori» disse. «Esattamente dove andrete voi e i vostri uomini, appena avrete finito con questi due cadaveri.»
«Chi è stato rapito?» volle sapere Niccolò, mentre insieme si dirigevano verso le vittime, immerse in un lago del loro sangue.
Già da quella distanza Niccolò comprese che non si trattava di operai della Conca, bensì di persone di un certo rango, che indossavano scarpe di cuoio e abiti di pregio.
Il capitano di Giustizia sospirò. Attese di trovarsi accanto ai due cadaveri, dando così la possibilità a Niccolò di esaminarli con cura, poi cominciò a spiegare: «Alcuni banditi hanno sequestrato il figlio di don Carlos de Alcante, uno dei più ricchi importatori di materiale per la filatura dell’oro, e insieme al ragazzo le due sorelle e alcune persone del seguito, per un totale di dodici ostaggi. Sono asserragliati in un magazzino di pietre e sabbia sulle rive del Naviglio Grande, in prossimità della cava di Allise».
«Quanti sono i rapitori?»
«Non lo sappiamo.» Il capitano fece una pausa, e Niccolò lo sollecitò a continuare inarcando un sopracciglio. «Il capo dei sequestratori vuole soldi, cavalli e una lettera d’immunità per fuggire in Francia, passando per la Svizzera con la garanzia di un salvacondotto da parte dei magistrati di Lucerna» spiegò don Giacomazzo. «Per sé e i suoi uomini, naturalmente.»
Niccolò indicò i cadaveri. «E questi due?» chiese.
«Erano i negoziatori del governatore» rispose il capitano con aria afflitta. «Sgozzati prima che potessero intercedere. Dopo averli uccisi, i sequestratori si sono allontanati da Milano a bordo di una chiatta, risalendo il Naviglio fino alla cava di Allise. Là sono stati intercettati dai miei uomini, così si sono asserragliati nei magazzini, minacciando di uccidere i figli di don Carlos come hanno fatto con questi due.»
Niccolò osservò gli uomini che giacevano a terra con le gole aperte. «Un monito» disse, parlando più che altro a se stesso ma strappando un cenno di assenso al suo superiore. «Non dubito che sarebbero disposti a fare davvero ciò che minacciano, dopo avere ucciso due funzionari di tale lignaggio senza alcuno scrupolo.» Alzò una mano e chiamò Rinaldo e Tadino. Aveva bisogno di loro per esaminare il luogo del duplice omicidio. «Sono stati uccisi qui?» chiese.
«Sì» confermò il capitano. «Nessuno li ha toccati. Sappiamo quanto tenete alle vostre procedure, messer notaio.»
«Non sono le mie procedure» protestò Niccolò, mentre Rinaldo e Tadino lo raggiungevano e passavano subito a esaminare i corpi e le tracce che risaltavano nel sangue. «Sono le direttive del tribunale.»
«Naturalmente» concesse don Giacomazzo Valente. «E voi siete molto scrupoloso a seguirle.»
«Ho risolto molti casi grazie a questa mia abitudine» puntualizzò Niccolò.
Il capitano di Giustizia accennò a una parvenza di sorriso. «Siete proprio come vostro padre.»
Niccolò decise di non continuare la discussione. Era solo una perdita di tempo. Invece, mentre Tadino esaminava un corpo e Rinaldo l’altro, si guardò attorno e chiese al superiore: «Come mai erano qui? I figli di don Carlos e il loro seguito, intendo».
«Dovevano recarsi in Svizzera e volevano approfittare di un trasporto di materiali per imbarcarsi su una chiatta affittata dal padre.»
«Un modo molto lento e alquanto singolare per muoversi» constatò Niccolò.
Don Giacomazzo si limitò a stringersi nelle spalle. «Ma divertente e alla moda. Soprattutto se si hanno i soldi per poterselo permettere.»
«Nessuna idea di chi possano essere i sequestratori?»
«Nessuna.»
«Qualcuno li ha visti? Potrebbe riconoscerli?»
Il capitano indicò i due cadaveri. «Loro sono i soli che ci hanno parlato.»
Niccolò prese un lungo respiro. «Avete detto che il governatore in persona è alla cava di Allise» si decise poi a chiedere. «Per quale motivo? Sta forse conducendo lui le trattative?»
«Questo è il mio più forte cruccio, notaio» rispose il capitano di Giustizia. «Non c’è stato verso di convincere sua eccellenza a desistere da questa pazzia. Don Carlos de Alcante ha solidi appoggi presso la Corona, e si dice che sia pronto ad assumere un ruolo politico di riguardo nel Ducato. Questo spiega tanto interesse da parte del governatore. Il che non fa che accrescere il rischio che questa assurda faccenda finisca in tragedia.»
«Perché non siete con lui?»
Don Giacomazzo lo fissò con occhi duri. «Come voi, io obbedisco agli ordini. Mi è stato chiesto di restare qui, di assegnare il caso al mio uomo migliore e di seguire le mosse dell’arcivescovado, che sta facendo di tutto per riaprire i canali e tornare a far arrivare i materiali alla Fabbrica del Duomo.»
«Capisco» disse Niccolò. «E... sarei io il vostro uomo migliore?»
«Naturalmente» fece il capitano. «Effettuate tutti i controlli che ritenete necessari su quei corpi e disponetene come volete. Poi recatevi alla cava di ...