La mattina seguente il sole sorse alle cinque e mezzo riempiendo la casa di Echo Park di un incerto chiarore lattiginoso, tetro come uno stagno. Pike si era già lavato e vestito: jeans, la felpa grigia senza maniche, scarpe da ginnastica. Era nel soggiorno, in piedi. Da quella posizione riusciva a vedere tutta la casa, dalla porta d’ingresso sul davanti fino a quella sul retro. Stava lì immobile in quel punto da quasi un’ora.
Di tanto in tanto durante la notte si era appisolato sul divano, ma solo per pochi minuti, senza mai addormentarsi realmente. Ogni ora faceva il giro della casa, controllava le finestre, restava in ascolto. Le case erano vive, come gli animali, le foreste e le navi. Quando tutto era a posto emettevano i rumori giusti. E lui questi voleva sentire. Era entrato due volte in camera della ragazza e l’aveva sentita russare piano, una volta sdraiata sulla pancia, l’altra sul fianco, le coperte scalciate in fondo al letto. Ogni volta era rimasto in silenzio, nell’oscurità, ad ascoltarla respirare, e prima di allontanarsi aveva controllato la finestra.
Adesso era nel soggiorno.
Alle cinque e quaranta Larkin uscì dalla stanza e si infilò in bagno senza vederlo. La luce si accese, la porta si chiuse e dopo un po’ si sentì scorrere l’acqua nel water.
Pike rimase immobile.
La porta si aprì mentre lei spegneva la luce. La ragazza uscì dal bagno strascicando i piedi, le spalle chine, e in quel momento lo vide. Aveva gli occhi gonfi di sonno.
«Perché porti gli occhiali da sole al buio?» disse.
Pike non rispose.
«Cosa fai lì in piedi?»
«Sto qui.»
«Sei proprio strano.»
Se ne tornò in camera. La vaschetta dello sciacquone finì di riempirsi e la casa ripiombò nel silenzio.
Pike non si mosse.
Alle sei e due minuti, il cellulare si mise a vibrare. Quando vide che era Ronnie, Pike rispose.
«Sì.»
«Dodici minuti fa a casa tua è scattato l’allarme.»
Tutte le volte che la società responsabile della sicurezza riceveva un segnale d’allarme, per prima cosa telefonava all’abbonato per vedere se era tutto a posto. I falsi allarmi erano comuni. Pike aveva preso accordi con la società perché nel caso di una segnalazione avvisasse Ronnie e non facesse intervenire la polizia.
«Cosa gli hai detto?» chiese Pike.
«Che era tutto a posto e che possono riattivare il sistema, come hai detto tu. Vuoi che vada a vedere?»
«No. Ci penso io.»
Pike rifletté un istante.
«Richiama la società e avvertili che se ricevono un allarme anche dal negozio vogliamo che intervengano.»
«Ricevuto.»
Pike posò il telefono, poi guardò l’ora. L’allarme era scattato dodici minuti prima, presumibilmente quando avevano forzato la porta o una finestra. Era probabile che fossero ancora a casa sua. Era altrettanto probabile che quando lui fosse arrivato là gli intrusi se ne fossero già andati, a meno che il loro piano non fosse quello di aspettarlo. In ogni caso non aveva importanza: lui doveva restare con la ragazza.
Pensò a quegli uomini in casa sua. Sapeva che era solo questione di tempo. Adesso che era successo, lui era soddisfatto. Avevano scoperto il suo nome, il suo indirizzo, e ora stavano tentando di trovare lui. Questo gli diceva molto: dovevano aver avuto il suo nome da qualcuno che lo conosceva, e le uniche persone che conoscevano il suo nome erano il padre di Larkin, Jon Stone e Bud Flynn. Non c’era altra spiegazione: qualcuno stava ancora cercando di tradire la ragazza. Aveva fatto bene a tagliarli fuori tutti.
Sperava che lo aspettassero a casa, ma era più probabile che facessero un tentativo al negozio e solo dopo sarebbero tornati a casa sua. Presto o tardi avrebbero scoperto il collegamento con Cole, ma prima di tutto sarebbero andati all’armeria. Il modo in cui agivano gli avrebbe fatto capire molte cose sulle dimensioni della loro organizzazione e sulla loro abilità. Conoscere il nemico era importante.
Per il momento, la ragazza dormiva. La notte era passata e lei era ancora viva. Lui aveva svolto il suo lavoro, ma gli restava ancora molto da fare.
La lasciò dormire. Telefonò a Cole per metterlo al corrente, poi rimase in soggiorno ad aspettare. Il battito del suo cuore rallentò, come pure il respiro. Il suo corpo e la sua mente erano in pace. Poteva aspettare così per giorni, e doveva farlo se voleva ottenere qualcosa.
Elvis Cole
L’ennesima conversazione telefonica stile Pike. Chi altri poteva essere, alle sei del mattino? Cole era fuori sul patio a preparare una serie di asana quando era squillato il telefono. Si precipitò dentro zoppicando per rispondere.
«Pronto?»
«Ti avverto. Sono entrati in casa mia.»
Clic.
Non “come stai?”, “cosa stai facendo?”o “cosa ne pensi?”
Classico.
Cole finì i suoi esercizi, fece una doccia, tirò fuori dall’armadietto blindato la vecchia .38 che gli aveva dato George Feider e si preparò una tazza di caffè. Prese la pistola, il caffè, il materiale su George King e Alexander Meesh e portò tutto fuori, sul patio. Aveva passato buona parte della notte a scaricare informazioni da Internet. Cole non aveva paura di venire attaccato da killer vestiti di nero: la pistola gli serviva come fermacarte per impedire che i fogli volassero via.
Era una mattinata stupenda che faceva presagire una giornata caldissima.
Scrutò la foschia lattiginosa che riempiva il canyon, si godette il caffè e vide una poiana che volava in tondo sopra di lui, alla ricerca di topi e serpenti.
«Cosa ne pensi? È la giornata buona o no?»
Un gatto nero era seduto accanto a lui e guardava giù, attraverso la ringhiera, nel canyon. Il gatto non rispose, cosa che capita spesso quando si parla con i gatti.
«Sei solo invidioso perché tu non puoi volare» disse Cole.
Il gatto sbatté gli occhi come se stesse per addormentarsi, poi improvvisamente prese a leccarsi il pene. I gatti sono creature sorprendenti.
Cole osservò la poiana. Il giorno dopo essere stato dimesso dall’ospedale, era uscito sul patio all’alba (come ogni altra mattina dopo di allora) e aveva faticosamente eseguito le dodici posizioni del saluto al sole dello Hata Yoga (come ogni altra mattina dopo di allora). Quella prima volta non li aveva fatti bene e non era arrivato in fondo alla serie. Era arrivato fin dove poteva, poi si era seduto sul bordo del patio a guardare la poiana. Il rapace era tornato ogni giorno, ma Cole non lo aveva mai visto catturare nulla. Eppure, eccolo lì, ogni mattina, a cercare qualcosa che non trovava mai. Cole ammirava la sua perseveranza.
Entrò a prendere dell’altro caffè, poi rilesse il materiale che aveva scaricato da Internet su George King. King era un immobiliarista originario della Orange County, e aveva cominciato costruendo una villetta unifamiliare con pochi soldi che si era fatto prestare dai suoceri. Era il classico self-made man. Aveva venduto quella prima casa e con il ricavato ne aveva costruite altre tre. Da queste era passato ai piccoli centri commerciali, e dai centri commerciali ai condomini di venti, quaranta fino a centosessanta appartamenti, mettendo su un impero immobiliare che creava shopping center, interi complessi abitativi e grattacieli di uffici in California, Arizona e Nevada. Nessuno degli articoli accennava a una condotta commercialmente scorretta, attività illegali o affari poco chiari. Stando a quelle informazioni, George King era un cittadino integerrimo.
Alexander Meesh, invece, no.
Cole non aveva trovato niente sul suo conto in Internet. L’ultima annotazione inserita nel rapporto dell’NCIC consegnatogli da Pike risaliva a sei anni prima e terminava dicendo che Meesh era fuggito e si pensava vivesse a Bogotá, in Colombia. Latitante da sei anni, Meesh era una vecchia conoscenza della giustizia.
Leggere il rapporto dell’NCIC era come leggere la versione condensata di una carriera criminale ventennale. Era possibile richiederne anche un’edizione più completa con foto, impronte digitali e persino DNA, presentando una speciale richiesta, ma quella versione ridotta diceva tutto quanto serviva, con un elenco cronologico di crimini, condanne e incarcerazioni, complici e capi di imputazione.
Meesh era un autentico gentiluomo. Era stato condannato per due omicidi di primo grado, aveva sette imputazioni per concorso in omicidio e sedici imputazioni per attività connesse al crimine organizzato, tutto in Colorado. Meesh, che controllava parecchie bande specializzate in rapine stradali, aveva ucciso un camionista e sua moglie a Colorado Springs. Era convinto che il camionista lo avesse fregato piazzando un carico di televisori a schermo piatto a una banda rivale. Nel tentativo di recuperare la merce, Meesh aveva versato olio bollente sulla moglie. Non una sola volta, ma ripetutamente, durante le torture durate ventiquattr’ore. Poi si era dedicato al marito. Chi aveva assistito al fatto sosteneva che Meesh voleva far capire alle altre bande della zona che il padrone delle strade era lui.
Cole rilesse quella parte, poi tornò a osservare la poiana. Le poiane non versavano olio bollente sulle altre poiane. Guardò il suo gatto. Fissava il canyon attraverso le assi del patio. Si domandò se il gatto e la poiana stessero cercando la stessa cosa.
«Ehi, amico.»
Il gatto gli si avvicinò e gli diede un colpetto con la testa. Coccolare il gatto rendeva più facile dimenticare cose tipo la carne umana ustionata dall’olio bollente.
Cole tornò a dedicarsi al fascicolo. Non c’era niente che spiegasse come un criminale di Denver avesse potuto diventare il referente finanziario per un gruppo di signori della droga sudamericani, ma a Cole non importava. Lui voleva trovare Meesh, e Meesh non era in Sudamerica. Era a Los Angeles.
Il rapporto elencava anche le persone frequentate dal soggetto, compresi amici, familiari, affiliati delle gang. Cole sperava di trovare qualche suo complice a Los Angeles, ma tutte le persone citate erano di Denver, dove del resto Meesh era stato arrestato. Era possibile che qualcuno dei suoi amici si fosse trasferito a Los Angeles nei sei anni trascorsi da allora, ma Cole non poteva saperlo senza controllare nome per nome. Le probabilità erano scarse, ma si accinse a stilare un elenco. In seguito avrebbe verificato se qualcuna di queste persone aveva collegamenti con Los Angeles e avrebbe proceduto a ritroso per arrivare a Meesh.
Stava lavorando all’elenco quando colse un movimento improvviso nel cielo. Alzò gli occhi, sorridendo. Voleva vedere cosa aveva catturato la poiana, ma in quel momento squillò il campanello. Il suo primo pensiero fu che Alex Meesh fosse venuto a torturarlo con il grasso fuso del bacon, ma lui aveva sempre avuto una fervida immaginazione. Zoppicando, andò alla porta con la pistola in mano e guardò dallo spioncino.
Due uomini lo fissavano, le facce distorte dall’occhio di pesce. Non avevano l’aria dei torturatori. L’uomo in primo piano aveva un’abbronzatura da golfista e i capell...