
- 224 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Notti africane
Informazioni su questo libro
Non è un romanzo, ma la storia di una donna che sembra nata per essere la protagonista di un romanzo. Dalla quieta atmosfera di Venezia al feroce incanto dell'Africa. Affrontando grandi tragedie personali e difficoltà di ogni genere, l'autrice ha trovato la forza di continuare e di trasmettere alla giovane figlia la propria straordinaria fede nella vita.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Notti africane di Kuki Gallmann in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
Print ISBN
9788804429524eBook ISBN
9788852054198Il Picco di Cinquanta Ghinee
«The seamed hills became black shadows … sounds ceased, forms vanished – and the reality of the universe alone remained – a marvellous thing of darkness and glimmers.»aJOSEPH CONRAD, «Karain, a Memory», Tales of Unrest
«La prossima luna piena vorrei mostrare a te e a Sveva il Picco di Cinquanta Ghinee» disse il mio amico Hugh Cole.
«Il sole tramonterà e la luna si alzerà allo stesso tempo, e noi staremo a guardare dal più fantastico dei kopijes… La vista è magnifica. Prepara dei sandwich. Io porterò le canne da pesca. Yeah.» Sorrise. Trovavo il suo nuovo accento australiano piuttosto buffo per un Cole.
Andavo d’accordo con Hugh Cole. Era un amico vero, fin dai primi tempi a Laikipia.
Allora i Cole vivevano nella tenuta di Narok, un ranch vastissimo e piuttosto efficiente situato a est di Ol Ari Nyiro, e, per i parametri del Kenya, erano praticamente nostri vicini.
Spesso Hugh e il nostro amico Jeremy Block arrivavano con lo scopo preciso di andare a caccia di bufali insieme a Paolo. Stavano fuori tutto il pomeriggio, e alla sera ci sedevamo a parlare fino a tardi intorno al fuoco.
Hugh era poco più di un ragazzo allora – diciannove anni o giù di lì – e aveva i sogni che hanno i ragazzi, e anche gli adulti, forse, qualche volta.
Era alto e dinoccolato, con capelli neri e dritti ereditati dai suoi antenati irlandesi, carnagione pallida con le lentiggini, e una strana voce roca e velata. Le sue caratteristiche più tipiche erano, però, lo sguardo impudente e l’allegra aria canzonatoria che s’insinuava nei suoi occhi azzurrissimi che non sbattevano mai le palpebre e si concentravano sull’interlocutore con la sconcertante fissità di un uccello.
Ma era troppo educato per fissare sfacciatamente.
Hugh aveva la facilità di parola dei nati in giugno e le sue storie erano vivaci e incalzanti, con una dialettica che trovavo stimolante, e le nostre lunghe conversazioni erano alla radice della nostra amicizia.
Col passar del tempo, suo padre decise di vendere la tenuta di Narok, come molti altri abitanti degli altipiani di Laikipia avevano fatto, e un bel giorno diede a Hugh del denaro e una pacca sulla spalla e gli disse, più o meno, come Hugh mi raccontò anni dopo: «Buona fortuna a te, figlio mio. Va’ in pace. Sei un Cole: farai fortuna».
Leggermente sbalordito, Hugh partì per l’Australia.
Fu così che gli inglesi conquistarono il mondo nel passato. Ma quei tempi erano trascorsi da un pezzo, nessuno aveva sentito parlare dei Cole giù nel Continente Nuovissimo, e fu difficile per Hugh, allevato per occuparsi un giorno delle vaste tenute di famiglia negli altipiani del Kenya, riuscire a trovare un posto per sé in quella terra lontana.
In Kenya, però, erano sempre i Cole: come i Delamere e i Blixen, i Long e i Powys, i Block e i Rocco, Beryl Markham e Gilbert Colvile e un certo numero di altri, appartenevano a quella prima generazione di eccentrici pionieri avventurosi e aristocratici. Avevano, nella maggioranza dei casi, attraversato l’Africa a piedi all’inizio del secolo, sfidando rischi, malattie e caldo intollerabile, animali selvaggi, mosche e zecche, in terre sconosciute. Camminando attraverso grovigli di spine, polvere, siccità , alluvioni e tribù ostili, avevano seguito il sogno di avventura e il bisogno di esplorare così intrinseci all’anima britannica, e avevano trovato un nuovo Eden sugli altipiani e le pianure della grande Rift Valley dove avevano stabilito i loro dominii.
Benché nati e allevati al riparo della sicura e domestica tradizione vittoriana, erano in realtà dei duri dalla resistenza non comune.
La prima lady Delamere – che era una Cole – era vissuta per anni spartanamente in una capanna di fango, non solo senza alcun agio, ma anche senza le più semplici comodità , come vetri alle finestre, acqua corrente o elettricità , e spesso, senza batter ciglio, imbracciava il fucile per sparare a una faraona per cena, o aiutava una vacca malata a partorire con la stessa naturalezza con cui avrebbe potuto ricamare un cuscino a piccolo punto, in un tranquillo pomeriggio inglese, in giardino.
A differenza di una successiva ondata di gente decadente e pigra, mondana e debosciata, che rese noto il Kenya con la definizione derisoria di «Happy Valley», i primi settlers erano un ceppo laborioso.
Dissodarono terreni impervi e coltivarono i campi. Allevarono bestiame di razza, e spararono per proteggerlo dai leoni e dai ladri di bestiame. Ammaestrando fiumi e convogliando sorgenti irrigarono terre arse, e seminarono centinaia di migliaia di acri a grano e frumento.
Si spostavano ovunque a cavallo, scolpendo strade e sentieri nella foresta, attraverso terre ostili e inospitali. Molti morirono di malaria, di misteriose malattie tropicali, di ferite infette e di piaghe imputridite, di lance indigene e di attacchi di animali predatori. Eppure continuarono ad andare avanti, spinti dal desiderio di avventura e dall’invincibile curiosità di conquistare l’ignoto.
Nel corso di una visita in America per vedere Jeremy, anche lui esiliato lì all’università , Hugh era stato coinvolto in un tremendo incidente. A una curva, in una strada di montagna in Colorado, la sua potente motocicletta era volata fuori dalla carreggiata, e mentre Jeremy, che era seduto sul sellino posteriore, era rimasto illeso e si era soltanto spaccato l’orologio, Hugh si era fratturato praticamente tutte le ossa, piccole e grandi, del suo corpo, e aveva rischiato di morire.
Qui in Kenya eravamo venuti a saperlo e ci eravamo preoccupati per lui.
Per la sua convalescenza ci vollero anni, e non riuscì mai a camminare come prima. Ma un giorno il telefono squillò ed era il mio amico Tubby, il padre di Jeremy: «Indovina chi è tornato?» mi apostrofò allegramente. «Hugh Cole. Sta da me. Vieni a cena.»
Anche a me era successo di tutto durante quei pochi anni. Paolo era morto, e poi anche mio figlio. Ma la terra di Laikipia era sempre lì, in tutta la sua infinita bellezza, e adesso Sveva, il mio nuovo angelo, figlia della speranza e dei nuovi inizi, era con me.
Benché zoppicasse e fosse diventato un po’ sordo, era sempre il solito Hugh, con i suoi modi cavallereschi, i suoi racconti esilaranti con risvolti inaspettati: ma c’era in lui una specie di stanchezza, una tristezza nuova, e, naturalmente, quel divertente, impercettibile accento australiano.
Aveva fatto un po’ di tutto nel Continente Nuovissimo; era tornato per vedere se per lui non era rimasto nient’altro da fare qui. In seguito andò a vivere con sua sorella, non lontano dalla mia casa di Nairobi, e ci incontravamo spesso, avendo riallacciato i fili della nostra vecchia amicizia. Chiacchieravamo, ridevamo, parlavamo dei tempi passati, delle persone che avevo perduto e che anche lui aveva amato. Le mie ferite erano ancora aperte.
L’idea di esplorare mi tentava, e la promessa di avventura esercitava sempre un irresistibile fascino su di me. Ero curiosa di vedere il Picco di Cinquanta Ghinee.
Così, il giorno stabilito, Hugh arrivò a Laikipia al volante di una jeep traballante che guidava come un pazzo, e nel retro della quale portava sempre un paio di pesanti sacchi di cemento per bilanciarne il peso.
Sveva – che aveva allora quattro anni – e io salimmo portando un cesto con dei sandwich, e partimmo. Al Centro offrimmo un passaggio a Mirimuk che voleva andare a trovare qualche parente turkana al Narok Estate.
Hugh non vi era più tornato da quando era stato venduto, ma si ricordava ancora tutte le scorciatoie e i sentieri giusti attraverso le vecchie boma, e tutti i dettagli del posto dove era cresciuto. Riuscì a mantenere un’espressione impassibile e a non mostrare emozione mentre attraversavamo i luoghi a cui era affezionatissimo, a cui sapevo lo legavano molti ricordi, e che erano stati lo sfondo di tante delle avventure che mi aveva raccontato; e lo ammirai per questo.
Guidava volando sopra buche e rocce, mordendo la polvere senza pietà , nel suo tipico stile.
C’era in lui una nuova irrequietezza difficile da definire. Non avevo idea di dove stavamo andando, e mi pareva, a volte, che nemmeno Hugh fosse più sicuro della nostra destinazione.
I paesaggi che stavamo attraversando, però, erano fantastici. Colline verdi e ondulate, aperti mbogani coperti di acacie mellifere dai rami a filigrana, sansevierie ed euforbie. Terreno molto più arido e desertico di Ol Ari Nyiro.
Ci mettemmo più di quanto non avessi creduto, ore di sobbalzi su piste malandate, ma, quando infine arrivammo, il luogo era magico come mi ero immaginata.
Uno dei molti kopijes che punteggiavano il paesaggio, il Picco di Cinquanta Ghinee, il cui strano nome probabilmente risaliva a una scommessa le cui ragioni sfuggivano alla memoria, era un posto sensazionale e ben meritava un lungo viaggio.
C’era uno stagno con una cascata che vi rotolava dentro, circondato da palme e da immensi blocchi di basalto, a cui si abbarbicavano papiri e fiori selvatici. Tracce di babbuini erano ovunque, e orme di leopardo. Strani pesci guizzavano nell’acqua, barbi argentei simili ai pesci disegnati dai bambini. Uccelli acquatici, libellule.
Ci arrampicammo, in parte spingendo e in parte portando in braccio Sveva, fino alla prima sezione della piattaforma di roccia che potevamo vedere dal basso, e ci trovammo su una superficie di pietra liscia, tempestata di strani buchi cilindrici, una curiosità geologica formata probabilmente durante milioni di anni da correnti scomparse e sassi vorticosi.
Da lì la catena delle montagne Ndoto, da un lato, e la terra dei Samburu e l’intero altopiano di Laikipia fino ai piedi del monte Kenya, dall’altro, si estendevano a perdita d’occhio.
Guardando in una delle buche, che come le altre aveva una pozzanghera di acqua stagnante sul fondo, Sveva scoprì un piccolo serpente d’erba verde che vi nuotava debolmente. Vi era caduto dentro forse cercando di raggiungere l’acqua, e non era più capace di risalire la liscia parete.
Decidemmo di sacrificare una delle canne da pesca che Hugh aveva ricavato da un lungo ramo sottile, abbastanza ruvida da permettere al serpentello di strisciarci sopra. L’infilammo inclinata nel buco, e, dopo avervi girato intorno un paio di volte, la biscia cominciò a scivolarvi su lentamente, verso il sole e la libertà .
«A Emanuele»: la vocetta di Sveva dette parole ai miei pensieri.
«Per Emanuele» Hugh e io ripetemmo. Il ricordo della perduta risata del mio ragazzo echeggiò ancora lungo gli alti massi grigi.
Aveva amato i serpenti d’erba verde.
Fu ben presto evidente che Sveva con le sue gambe corte e grassocce non ce l’avrebbe fatta ad arrampicarsi lungo la seconda sezione di massi più grandi che portava alla piattaforma di roccia meta di Hugh, e che in realtà non offriva nemmeno a noi un appiglio sicuro.
Il sole stava completando il suo arco nel cielo. I rumori della notte cominciavano a infiltrarsi attraverso i suoni del giorno. Hugh decise di scendere, e girare intorno alla base del Picco, dal cui retro l’approccio era più facile. Ripercorremmo in auto le nostre tracce, e a un certo punto lasciammo il sentiero battuto tagliando attraverso la boscaglia per un bel pezzo nella direzione del Picco.
Parcheggiammo la macchina in uno spiazzo nella savana, vicino a un gruppo di acacie.
Hugh prese una borraccia d’acqua, lasciò accesi i fari, e procedemmo a piedi.
Il sole stava velocemente avvicinandosi a una catena scura di colline. Presto sarebbe stato buio e dovevamo affrettarci.
Fidandomi della conoscenza che supponevo Hugh avesse del posto non mi venne in mente di prendere dei punti di riferimento. L’erba gialla e secca era alta, il terreno era sabbioso, pianeggiante, con cespugli sparsi. Non era facile lasciare tracce visibili.
Lo seguimmo attraverso stretti sentieri tracciati dagli animali, cercando di stargli dietro attraverso la fitta vegetazione che impediva di vedere avanti, e formava corridoi di cespugli spinosi in salita che si stagliavano scuri contro il cielo. Finalmente raggiungemmo il retro del Picco e ci arrampicammo.
La vista era mozzafiato.
Orizzonti infiniti di crateri e di kopijes, di catene di colline che sfumavano nei blu e rosa del tramonto fino al monte Kenya dalla cui cima, avvolta in nembi lilla, la luna stava per levarsi, annunciata da una luminescenza perlacea e dagli orli argentei delle nubi.
Alle nostre spalle, il sole stava tramontando dietro le montagne. Ma sopra di noi, le nuvole si andavano accumulando in fretta, nascondendo la luna nascente.
Il vento si era placato. Le nuvole erano lì per restare. Esprimemmo disappunto. Speravamo ancora che il cielo si schiarisse. Chiacchierammo, bevemmo dell’acqua, cantammo una canzone, e di colpo fu buio.
I babbuini stavano urlando i loro buonanotte dalle rupi su cui si rifugiavano a dormire: buonanotte allarmati perché lì vicino si sentiva il verso ritmico, roco e inconfondibile, del leopardo.
Ci rendemmo conto ben presto che la luna quella notte non sarebbe apparsa per ore. Se fossi stata sola non avrei esitato e avrei dormito lì, sicura su quella superficie tiepida di pietra. Ma Sveva era stanca e non eravamo organizzati per lei, presto avrebbe avuto fame e avrebbe potuto piovere da un momento all’altro.
Scendemmo dalla piattaforma per la stessa via che avevamo percorso per salire, a tastoni ora, e atterrammo nella fitta boscaglia. Cercammo di ritrovare la strada, e fu un errore.
Avevo una torcia tascabile, ma la sua luce limitata, che assorbiva e distorceva le forme, rendeva più scura, più vasta e indistinta la notte c...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Notti africane
- Nota dall’autore
- Introduzione
- Nota all’edizione italiana
- Notti africane
- L’isola della luna piena
- I camaleonti di Emanuele
- Il ghepardo del Colonnello
- La Masai
- Mwtua
- Lo squalo di Vuma
- Langat
- La storia di Nungu Nungu
- Un galagone di nome Charlie
- Il pendolo
- Un letto come un vascello
- Il rinoceronte che era riuscito a scappare
- Il Picco di Cinquanta Ghinee
- Il cobra che venne dal buio
- La ballata degli elefanti
- Il ritorno di Gilfrid
- Sulle ali del vento
- L’anello e il lago
- Il bastone della pioggia
- Compleanno al Turkana
- La baia incantata
- Glossario
- Copyright