Satyricon 2.0
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Satyricon 2.0

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Satyricon 2.0

Informazioni su questo libro

Un professore di Lettere rilegge ogni anno i classici per i suoi studenti, e viene il giorno in cui gli appare lampante che uno di quei libri rivela in filigrana una storia più attuale che mai: i protagonisti del Satyricon di Petronio non sono imbranati eterni studenti ma due intellettuali raffinati - il meglio che la cultura del loro tempo produce - e il liberto Trimalchio non è solo un supercafone degno dei nostri peggiori rotocalchi, ma un individuo incapace di darsi ragione del fatto che la cultura non voglia adattarsi alla sua superficialità e mancanza di finezza: tutto il resto se lo può comprare, perché la cultura no? E questi giovani come si permettono di ridere di lui, quando non riuscirebbero a mettere in tavola neppure un millesimo di quanto abbonda nei suoi banchetti? Ecco allora che Villalta accetta la sfida di una riscrittura del Satyricon in cui ogni dettaglio del romanzo antico acquista senso alla luce di oggi. Protagonisti sono qui dei giovani ricercatori universitari, che dopo dottorati, master e assegni di ricerca ancora stentano a rimediare la cena. Percorrendo l'Italia da un deprimente Nordest in piena crisi verso una Roma splendida e decadente e ancora oltre, fino in Sardegna, il testo antico rivela una serie incalzante di possibilità narrative, libere da ogni tabù, dove sesso e amore, ambizione e rabbia si mescolano in sorprendenti vicende di vita da nerd postadolescenti, belli e arroganti, scazzati e pronti a scegliere l'avventura in cambio del niente che la vita gli offre. Una spietata energia critica percorre tutto il racconto, insieme alla "favola" dell'impotenza, che è l'impossibilità di incidere sugli eventi pur leggendoli con infallibile lucidità. In una narrazione scatenata, intessuta di guizzi amari ed esilaranti, il capolavoro classico diventa lo specchio deformato di un presente riconoscibilissimo, nel quale la cultura appare dissacrabile da chi ce l'ha e sacra per chi non sa neanche dove sta di casa: nel quale non sembra esserci posto per dei giovani appassionati, lucidi e insieme sinceramente incantati dalla materia dei loro studi. Una "favola" corrosiva e sorridente, scritta con un'eleganza pari solo al divertimento e allo stupore di chi legge, e capace di mostrarci noi stessi come non avevamo mai osato guardarci.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804643043
eBook ISBN
9788852054167

1

“No, la presentazionèe di Beninìi no! La fuffa ammorbante che il professor Beninìi pubblica puntuale a marzo per l’editrice universitaria Ubicumque (che è di suo cognato, e quell’‘universitaria’ se l’è inventato lui, né mai fu sottoscritto accordo al proposito), davvero no, Michele, ti pregòo, non mi puoi farèe questòo...”
È ciò che penso mentre il professor Colot, mio protettore, di nome Michele, mi sta trascinando per un braccio giù per le scale. Va bene, gli devo tutto, anzi, gli dovrò tutto un giorno, perché per adesso è più quello che deve lui a me, se mettiamo in conto le cene di mia madre e i passaggi a prendere il treno e le correzioni di bozze e i verbali e gli esami e le tesi della triennale, a fronte del misero dottorato che fino adesso mi ha fatto ottenere, come suo allievo migliore. Lo sento dire: «Il dipartimento risuona del tuo nome». Lo dice sempre, me presente, e tutti si illuminano di sorrisi. Lo dirà anche di Giorgio e della Sgamba, immagino, ma intanto io c’ho già una monografia su Marin e l’antologia dei friulani, mentre la Sgamba fa tanto la figa con un misero articoletto su Nievo. E Giorgio lasciamo stare. Giorgio studia, scheda, accumula, lui è un vero ricercatore che sa tutto e vuole sapere sempre di più ma non ha neanche scritto ancora una recensione, perché vuole «esordire bene». E bella forza!, non lo capisco?, «non basta una vita per imparare anche poco» – come dice lui – ma quando tuo padre ha tre farmacie-ipermercato e ti passa una paghetta da primario, allora sì che la frase ha un suo senso.
Però il teatrino di “Beninìi” no. Parla proprio così: raddoppia la vocale finale, accenta la penultima e allunga. «Mio caròo, come vàa» ti chiede Benini, e tu dopo un po’ che ci parli, se non stai attento, ti metti a fare uguale, tanto ti prende la cadenza, che è ipnotica. È una fortuna però, perché t’inscimunisci e lui parla, parla, non dice niente di interessante comunque. Dopo una presentazionèe di Beninìi parlerò cosìi per tutta la seràa, sognerò anche cosiì, accidentìi.
Michele Colot (pronuncia: Colòt) quasi tutti lo chiamano Còlot, il troncamento del nome fa poco fine, soprattutto perché è lui che appena può dice Còlot, più Mitteleuropa, gli pare, ma non può sempre, visto che chi lo conosce si mette a ridere e i suoi s’indignano come per un tradimento. Michele in questa università è quasi un dio. Scrive (qualche volta) su un giornale importante, pubblica per le migliori case editrici, sta nelle giurie dei premi, gli telefonano da Radio 3 in diretta e va anche in televisione, a ore assurde, ma intanto ci va. Ci sono suoi colleghi che quando ottengono un trafiletto sul giornale locale lo mettono in cornice. Sono furibondi, i suoi colleghi, lo odiano e odiano l’università: non c’è niente di peggio di credersi il caramello cristallizzato sopra la crema del sapere, e vivere anonimi, scolati via dalle cronache come la schiuma della sciacquatura. Benini lo odia più di tutti. Benini è elegante, pronto a condiscendere, bruttarello, c’ha soldi di famiglia, sessualmente incerto. L’ideale per una carriera universitaria. E invece quasi ai sessanta, lui che porta quel nome, lui che ha sulle spalle tre generazioni di cucine e salotti, uno zio senatore e un fratello che è stato il vice di Confindustria, scrive sul suo biglietto da visita “ricercatore confermato”. “Confermato”, mi spiego?, mi viene da piangere per quella punta di amor proprio, “confermato”, un papillon argentato, che attira lo sguardo e mette sotto gli occhi l’infame canottiera ingrigita.
Proprio perché sa che Benini lo odia, Michele non manca di complimentarsi con lui per le sue pubblicazioni e di sedersi in prima fila alle presentazioni semideserte dei suoi inutili scritti. Mai che gli abbia fatto una recensione. Benini non osa rinfacciarglielo, neppure dopo che ha appena pagato il conto degli abbondanti buffet che seguono le presentazioni. Ha paura che gli venga risposto: “Non me le prendono”. L’ha sentito già dire – Michele quando vuole è un vero bastardo –, l’ha sentito dire a voce alta a un altro collega: «Io l’ho mandata, la recensione, ma mi hanno risposto che non interessa», e Benini è stato malissimo per il collega, che non ha più avuto parole, umiliato, pur sapendo benissimo che Michele non aveva mandato nessuna recensione, e pur sapendo che come lui lo sapevano tutti quelli che ascoltavano.
«Un’oretta di noia val bene un catering del Carretto» mi dice Michele, che mi ha letto i pensieri. Il Carretto è il miglior ristorante della città. E Michele ha il braccio corto, avido come una scimmia e, di natura, scroccone. Non ha mai un minuto ma sta’ sicuro se c’è da intascare dei soldi trova l’intera giornata. Intelligente e brillante, precoce nel mettersi in luce, è stato uno dei nomi su cui puntare, tra i critici, nel decennio d’oro dell’editoria italiana. E uno degli ultimi andati dritto per dritto con la carriera universitaria. Ben presto Michele ha trasformato la passione per la letteratura in volontà di trionfo. La crisi gli ha lasciato solo l’avidità. L’ossessione di trasformare in denaro, cene, alberghi, regali, la posizione acquisita. È diventato una merda, in pratica. E io che lo adoravo, che ne avevo fatto il modello assoluto della mia vita futura di studioso, mi sento una merda a stargli dietro. Ma con le sue briciole imbandisco la mia parca tavola. Ho una piccola notorietà, grazie a lui. E i “lavoretti”. Ti immagini, alla domanda: “Come campi?”, la risposta: “Faccio dei lavoretti”. Suona pure equivoco. I “lavoretti” sono le annotazioni per qualche edizione economica (200 euro a volume), qualche recensione sul quotidiano locale (23 euro l’una, lordi), qualche revisione di un saggio prima della stampa (100), qualche lezione nella biblioteca di qualche comune di campagna (150), tutto “qualche”; e con lui vado a cena a scrocco più di qualche sera, quando non viene lui a casa mia a dire a mia madre che una cucina come la sua non la trova da nessuna parte, neanche al Carretto. E poi faccio esami (i suoi) all’università, ricevo studenti (i suoi), rivedo tesi (le sue), faccio la claque ogni volta che dice una parola in pubblico – gratis. Non proprio gratis, diciamo che è un investimento. In cambio avrò un posto di ricercatore il prossimo anno. Lo avrei dovuto già avere tre anni fa, ma poi le riforme, la crisi, i tagli, gli “eccetera”... insomma, aspetto. A trentaquattro primavere suonate, superati anche i fatidici “anni di Cristo” senza che il fato nulla di decisivo abbia offerto, aspetto – che altro fare?
Intanto siamo arrivati: la solita sala Ausonia, con gli stemmoni e le tende pesanti, un sarcofago perfetto. Ci sono ventuno persone, compresi noi e i relatori. È la prima cosa che faccio: conto quanti siamo. Per il buffet. Di questi ventuno, tre sono qui solo per mangiare, vengono sempre, chiunque sia che presenta un libro, celebra una ricorrenza, suona la fisarmonica, purché vedano che mettono i tavoli per il rinfresco. Sono due donne e un uomo, sopra i settanta, distinti, lui con cravatta. Una delle due donne ha la sua cofana di capelli color viola mammola, come si usava una volta. All’ora solita passano qui davanti: se vedono un furgone, qualcuno che scarica, entrano. Se no vanno a farsi lo sprizzetto al bar cinquanta metri più avanti, divorando i tramezzini di mezzogiorno fatti a tocchetti e imbanditi per l’aperitivo. Sto calcolando che potrebbero arrivare altre venti persone e al “rinfresco” ci sarebbe comunque da cenare per tutti, secondo lo standard di Benini. Ma se non arrivano è meglio. Non per la quantità. Per la comodità, non dover aspettare, o non vedersi sparire il pata negra o le alici in crosta di brioche con spuma di mozzarella da sotto gli occhi, perché ci sono quelli – i tre vecchi scrocconi per primi – che si piazzano lì davanti e con un blocco da squadra di basket tengono tutti indietro finché non hanno finito le cose più buone.
Benini è già in cattedra, elegantissimo. Lo presenta il rettore, nientemeno. «S’è fatto la casa nuova e la deve arredare» mi sussurra, benevolo come sempre, Michele. Mai cena sarà più sudata di questa! Il rettore è uno con tre cognomi, che una volta ho visto – lo giuro, è l’unica volta che ho visto una cosa del genere in vita mia! –, l’ho visto sbadigliare mentre parlava lui. Si capiva che stava annoiando anche se stesso e che, se non avesse dovuto continuare il discorso, si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato. Mi siedo in fondo, ignorando Michele che prova a spingermi avanti. Lui si vuol mettere in prima fila, per fare di sì con la testa in segno di approvazione. Lo fa per coionarli, naturalmente, annuisce per tutto il tempo e poi alla fine interviene con una elaborata domanda, quando già tutti stanno alzando il culo dalle sedie per correre verso i tavoli e sibili di disapprovazione lo trafiggono da tutte le parti. Benini gli è riconoscente e per questo lo odia di più (e ancora di più il giorno dopo, quando il trafiletto sul giornale locale riporterà che il libro ha suscitato domande dal pubblico, compreso il sottile intervento del professor Colot, che così gli ruba la scena anche stavolta).
Il rettore sta introducendo l’argomento parecchio da lontano. Il titolo del libro è L’etica del giallo. Benini mette la parolaetica” in ogni titolo, così pensa che tutti diranno prima o poi che lui è il più autorevole sull’argomento “etica e letteratura” o “letteratura ed etica”, che non è la stessa cosa, come ci tiene a dire Benini ai suoi studenti. In effetti alla e si aggiunge una d, commentano quasi tutti. Va precisato che, riferita la cosa al saputo Colot, questi ha sentenziato che la d “eufonica” non s’usa più.
Il rettore sta parlando di Sallustio narratore e moralista, cita La congiura di Catilina. Per arrivare a Camilleri ci metterà un po’. Per fortuna di solito si perde per strada e riprende da un punto qualunque della storia dell’umanità. Arriverà a Camilleri, prima o poi. L’assist a Benini lo dovrà dare. E dopo, quando toccherà a lui, Benini parlerà soprattutto di “Camillerìi”, non tanto dei suoi libri, quanto della persona che gli telefona, lo riceve a casa sua, gli ha confidato questo e quello, insomma del “Camillerìi” personaggio di quella storia vera dove anche Benini ha finalmente una parte sua. Lo so perché questa cosa di Camilleri, delle telefonate, dei viaggi a Roma eccetera è diventata una barzelletta in dipartimento. «Benini? Sarà al telefono con Camilleri», «Sarà a Roma da Camilleri», e giù a ridere, tanto ha rotto le palle a tutti.
Non importa, io ho il mio tablet, regalo di compleanno della mia mamma, e da qua in fondo posso star dietro a qualcosa di meglio. Scacchi, per esempio, potrei far finta di giocare a scacchi, così pensano che sono stracool. Oppure puntare sul pop e andare su Facebook.
Intanto il rettore ripete la trovatona che gli è venuta in mente da due secondi. Gli è piaciuta così tanto che la propone di nuovo, più lenta per assaporarla. Vorrebbe farla passare per una cosa meditata e già pronta per diventare una teoria mondiale: inutile tergiversare, se leggiamo bene La congiura di Catilina, vediamo chiaramente che Sallustio non solo indaga l’etica del suo tempo, ma lo fa scrivendo quello che è il primo legal thriller della storia. Possiamo proprio dirlo: il primo legal thriller della storia! Al sorriso di trionfo del tricognominato rettore fa da specchio il sorriso di compiacenza di Benini, con un sottofondo di amarezza. È vero che questa invenzione apre all’etica del giallo nuove prospettive di studio e quindi nuovi fondi per la ricerca (due o tre miserabili migliaia di euro – devo avvertire la Sgamba che da Benini c’è becchime) ma l’amarezza c’è: neppure nei prossimi dieci anni a lui, a Benini, sarebbe venuta in mente quella furbata che al rettore è arrivata per caso, per puro culo e nient’altro. A Benini non resta che incalzare il rettore, fiero della sua teoria, per dirgli che occorre assolutamentèe una ricerca sull’argomento. Il rettore annuisce, e che fa?, la teoria è sua. È vero che proprio in quel momento gli pare una cazzata, come è di certo una cazzata l’intera vita di studi di Benini, ma cosa rispondere? Annuisce. A Benini non basta, insiste fino a che gli fa dire un «sì», un «ma certo», un «metteremo in agenda». Solo quando gli sembra di aver fatto l’incasso molla, solo allora sorride, lascia che l’altro colga nuove felici intuizioni sulla storia umana dov’è ormai chiaro che l’“etica del giallo”, dalla preistoria alla fine del prossimo millennio, risulta il tema di punta della cultura globalizzata.
“Coraggio!” mi dico, e intanto smessaggio alla Sgamba che le si aprono prospettive per il futuro. Risposta: un punto di domanda. “Benini ha ottenuto un assegno di ricerca in diretta dal rettore.” “E chi se lo caga Benini.” “Non occorre essere volgari.” “Chi parla.” La Sgamba è così, laconica, inavvicinabile. Per un po’ correvano chiacchiere che se la faceva Colot, e lui non smentiva, lo stronzo. Poi hanno capito tutti che non era vero. Chi si trombi la Sgamba è un mistero. Ogni tanto sparisce. Torna che per due giorni sembra più affabile, poi si chiude anche peggio. Fa paura, la Sgamba, perché è intelligente e inflessibile. Inflessibile, passi, ma inflessibile e intelligente è qualcosa di imperdonabile, se hai due tette che parlano e un culo che balla sempre la samba. Anche un bel viso, non bastasse, con due occhi neri che inchiodano. Non come la Pittaro, la sua amica per molti anni e poi all’improvviso non più. Bona anche la Pittaro (pronuncia Pìttaro, sdrucciola), ma fuori controllo: una ricercatrice può anche mettere fuori le chiappe con il fondoschiena tatuato su Facebook, va bene, può sembrare coraggio, ma farsi un weekend a Trieste con quella lesbica della Ciani, solo per scrivere sulla rivista di merda che fa la Ciani con le sue amiche, è proprio stupido. Per non parlare delle volte che dà buca agli esami, dell’articolo su Corona mezzo copiato da Magris senza citarlo, di tutta una serie di puerilità, che puoi anche non aver paura di niente ma ti tagliano fuori lo stesso. La Sgamba e la Pittaro hanno litigato l’altr’anno. Sul perché solo illazioni. Si dice che la Pittaro abbia teso l’agguato alla Sgamba e l’abbia portata in un posto sperduto in montagna dove la Ciani e le sue amiche tenevano un convegno su “La parola dell’Altra. Fine del neutro maschile”, così: “Altra”, con la maiuscola. Pare che la notte non abbia portato consiglio e la mattina dopo la Sgamba, che era salita con la macchina della Ciani, sia discesa con il primo autobus all’alba. Pare che durante la precedente giornata di studi avessero stabilito di cambiare le vocali finali a una serie di parole maschili: la dottora, la scrittora, la professora, e così via.
“Divertitevi. Ciao” taglia corto la Sgamba, così mi toglie il gusto di smessaggiare con lei e guardare il fiero culo della Pittaro su Facebook, il massimo della perversione che mi è concessa in questo momento, mentre Benini, che si è lanciato sulla scia del rettore, animato da fervente spirito di emulazione, tenta desperately di argomentare che la Divina Commedia di Dante – lui la chiama sapientemente Comedia, con una m sola – non manca di veri e propri brani noir, anzi c’è il noir anche in versione splatter, per non dire del thriller vero e proprio, ché proprio di questo l’Inferno abbonda. Il rettore è disgustato. Michele scuote il capo da sopra in giù, in segno di totale assenso.
E per me arriva una vera punizione.
Luigi Miorin, studioso di “cose friulane” (da lasciare inidentificate) e poeta. Soprattutto poeta, a sentir lui, ma sicuramente pensionato, con un’infinità di tempo da dedicare a e-mail e telefonate, con le quali tormenta chiunque per farsi invitare a letture, convegni, festival, con qualsiasi ricatto e pretesto pur di esserci. E, ancora di più di tutto questo, pornolalico, se può esistere una parola del genere, ovvero uno che parla sempre di donne più che oscenamente. Delle presenti e delle assenti, in faccia e alle spalle, inventandosi l’inverosimile e ripetendo di sé che sarebbe il maggiore scrittore erotico della storia se non fosse per sua moglie, che lo sbatte fuori di casa se soltanto ci prova a scrivere di quelle cose. Per questo lui, ritrattista sommo di intimità femminili, di coiti inesausti e di enogastronomia sessuale, pubblica solo brevi, tristi mannelli di versi sliricati, dove abbondano i grigiori, gli oggetti abbandonati, i silenzi.
«Te gà visto la moglie dell’assessor là davanti?» mi occupa senza neanche salutare. «Quela i la gà fosforessente. Sul serio, a scuro la fa un lusòr come de rame novo.» Poi continua, ignorando i miei sforzi per zittirlo: «Una rossa vera, la senti dall’odore. Ah, l’odor de le rosse! Tera, tera dopo la piova, e da selvatico, da sottobosco...». Una pausa lirica. Un vero poeta. «Quela lì l’è da tenerla al scuro. Da trovarla col naso, usmando. E dopo, quando arrivi vicino, la luminescenza del pube... ah!»
So che cosa mi aspetta. Una volta l’ho portato in auto con me a un convegno sul lago di Garda. Per tutta l’andata mi sono sorbito un’unica, interminata tiritera di anatomie e posizioni in cui queste anatomie si mostravano al meglio. «E la Carla che ce l’aveva...», «e quando si metteva...», «e faceva...», «e la Wanda...», «e la Letizia...», «e la Carmela...» Ognuna con troppe particolarità fisiche, etniche e intellettuali per essere vera, con quelle pause che si capiva che servivano per inventare quello che stava dicendo. Uno strazio, per più di due ore.
Al ritorno, appena salito in auto era pronto a ricominciare: «E la Riccarda...». Al che gli ho detto che ero spossato da tutte queste donne e che, se solo diceva un’altra parola su un qualsiasi organo femminile, lo lasciavo alla prima stazione di servizio a cercarsi un passaggio.
Miorin ha visto la bibliotecaria del Comune seduta due file avanti a noi. «Quanto è sublime farsi fare un pompino tirando zo quatro libri da la scansìa e lassando che la buongustaia lavori da l’altra parte, eh?»
«È ovvio» gli dico, «e intanto, se sul sublime hai ancora dei dubbi, puoi sempre rileggerti qualche paragrafo della Critica del Giudizio.» Non recepisce. Cambio argomento: «Se digiti “glory hole”» gli dico ancora, «vedi che lo trovi in tutti i siti porno. E poi è letteratura» aggiungo nel tentativo di subissarlo, «immagina: La vera storia di Piramo e Tisbe, sottotitolo: Quello che Ovidio ha dovuto tacere.» E infine, per metterlo all’angolo, gli dico: «Ce l’hai bello lungo. Gli scaffali della biblioteca saranno di quaranta centimetri». Non fa una piega. «Così appoggia i gomiti, no? Anzi, pensa che la pol distirarse par traverso co’l culo de sponda...» Mi sto alzando per andare via. Mi tiene, agguantando la coscia, e promette con lo sguardo che starà zitto. Due minuti dopo: «Ma, in biblioteca, no te lo ga fato mai veramente?». Nei due minuti appena passati ha continuato a fantasticare: «Tiri giù qualche volumone della Treccani e ti ci siedi sopra. Te ga mai sentìo che frescura de culo? E po’, se te scampa ’narietta dadrìo...».
Basta per me. Per oggi basta. ’Fanculo il catering del Carretto. Mi faccio fare una pasta da mamma.

2

Oggi non dovevo passare in università. Solo che il maledetto Giorgio non risponde al cellulare. Non abbiamo ancora il duplicato della sede dell’associazione, e le chiavi le ha lui. A casa non riesco a fare niente perché mia madre ha deciso di cambiare ancora una volta la posizione dei mobili in salotto. Lo fa teoricamente, perché i mobili sono pesanti, e deve prendere una decisione definitiva prima di chiamare qualcuno per eseguire il lavoro. Inutile chiudermi in camera, entra ogni cinque minuti e mi chiede: «Cosa ti pare se metto il diva...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Satyricon 2.0
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. Nota
  22. Copyright