Il terzo occhio
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Il terzo occhio

Viaggio alla ricerca della consapevolezza

  1. 252 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il terzo occhio

Viaggio alla ricerca della consapevolezza

Informazioni su questo libro

Nella notte dei tempi, quando gli uomini vollero sostituirsi agli dèi, il Terzo Occhio venne chiuso per punire la loro superbia. Da allora essi hanno perso le doti di intuito e chiaroveggenza e sono condannati a una conoscenza limitata, basata solo sulle percezioni dei cinque sensi. Ma Lobsang Rampa sostiene di possedere ancora questa eccezionale facoltà divinatoria che gli consente di percepire realtà spirituali quali le aure che circondano ogni individuo. E in queste pagine ci spiega come ha raggiunto la consapevolezza di questa dote, raccontando la propria infanzia, trascorsa dall'età di sette anni in un monastero tibetano. Realtà o immaginazione? Comunque le si voglia interpretare, le sue parole ci trasportano nell'atmosfera incantata del Tibet profondo, e svelano l'iniziazione di un ragazzo ai misteri della vita in un mondo retto da millenarie credenze e riti plurisecolari.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804637400
eBook ISBN
9788852051319

I

La prima fanciullezza in famiglia

«Ohè. Ohè. Hai quattro anni e non sai stare a cavallo! Non diventerai mai un uomo. Che cosa ne dirà il tuo nobile padre?» Dopo queste parole, il vecchio Tzu appioppò al pony – e lo sfortunato cavaliere ne subì le conseguenze – un colpo vigoroso sulla groppa, poi sputò nella polvere.
I tetti dorati e le cupole del santuario di Potala sfavillavano nel vivido sole. Più vicino a noi, le acque azzurre del lago di fronte al Tempio del Serpente si increspavano al passaggio delle anatre selvatiche. Lontano, sul sentiero sassoso, si levavano le urla e le esclamazioni degli uomini che incitavano i lenti yak1 sul punto di allontanarsi da Lhasa. Dalle immediate vicinanze ci giungeva il vibrante bmmmn, bmmmn, bmmmn delle trombe, con le loro note basse e profonde, mentre i monaci musicanti si esercitavano nei campi, lontano dalla folla.
Ma non avevo tempo per questi piccoli avvenimenti quotidiani e consueti. Ero impegnato nel compito assai serio di restare in sella sul pony riluttante. Nakkim aveva in mente ben altre cose: voleva sbarazzarsi del cavaliere, voleva essere libero di brucare l’erba, di rotolarsi a terra e di scalciare con le zampe per aria.
Il vecchio Tzu era un sorvegliante arcigno e odioso. Severo e duro per tutta la vita, aveva ora il compito di tener d’occhio un bimbetto di quattro anni e di insegnargli l’equitazione e, innervosito, perdeva assai spesso la pazienza. Appartenente alla tribù degli uomini di Kham, era stato prescelto insieme ad altri per la sua forza; era alto più di due metri e proporzionalmente robusto. La pesante imbottitura sulle spalle lo faceva sembrare ancor più massiccio. V’è una regione, nel Tibet orientale, in cui gli uomini hanno una statura e una vigoria fisica eccezionali. Molti di essi superano i due metri d’altezza e vengono prescelti come monaci-poliziotti in tutte le lamaserie. Si imbottiscono le spalle per sembrare ancor più robusti, si anneriscono il viso per assumere un aspetto più che mai feroce e si muniscono di lunghi bastoni dei quali sono sempre pronti a servirsi contro gli sfortunati malfattori.
Tzu era stato un monaco-poliziotto, ma ora gli toccava fare da balia asciutta a un piccolo principe! Era troppo malconcio per poter camminare a lungo e così quasi tutti i suoi spostamenti li effettuava a cavallo. Nel 1904, gli inglesi, al comando del colonnello Younghusband, invasero il Tibet apportandovi gravi distruzioni. A quanto pare, ritenevano che il sistema più semplice per assicurarsi l’amicizia di noi tibetani consistesse nel bombardare i nostri edifici e nell’uccidere la nostra gente. Tzu aveva preso parte alla lotta contro gli invasori e, nei combattimenti, era stato gravemente ferito all’anca sinistra.
Mio padre era uno degli uomini più eminenti nel Governo tibetano. La sua famiglia e quella di mia madre facevano parte delle dieci famiglie più illustri del Paese e pertanto, tra tutti e due, i miei genitori esercitavano un’influenza notevole sulla pubblica amministrazione. Darò in seguito altri particolari sulla forma di governo nel Tibet.
Il babbo era un uomo grande e grosso, massiccio, alto quasi un metro e ottanta. Aveva una tal forza da potersene vantare a buon diritto. In gioventù, riusciva a sollevare da terra un pony ed era uno dei pochi che fossero in grado di lottare con gli uomini di Kham e di avere la meglio.
Quasi tutti i tibetani hanno capelli neri e scuri occhi castani; mio padre, con i capelli castani e gli occhi grigi, faceva eccezione alla regola. Spesso, si lasciava andare a improvvisi scatti d’ira, senza alcun motivo apparente.
Noi lo vedevamo ben poco. Il Tibet stava attraversando momenti difficili. Gli inglesi avevano invaso il Paese nel 1904 e il Dalai Lama era fuggito in Mongolia, incaricando mio padre e altri membri del Gabinetto di governare in sua assenza. Nel 1909 il Dalai Lama fece ritorno a Lhasa dopo essersi recato a Pechino. Nel 1910, i cinesi, incoraggiati dal successo dell’invasione inglese, attaccarono Lhasa. Il Dalai Lama fuggì di nuovo, questa volta in India. I cinesi furono scacciati da Lhasa nel 1911, durante la rivoluzione cinese, ma non prima che avessero commesso delitti spaventosi ai danni del nostro popolo.
Nel 1912, il Dalai Lama tornò nuovamente a Lhasa. Nel corso dell’intero periodo della sua assenza, in quei difficilissimi giorni, il babbo e gli altri membri del Gabinetto ebbero la piena responsabilità del governo del Tibet. La mamma soleva dire che in seguito il carattere del babbo non era più stato lo stesso. Certo, non aveva tempo da dedicare a noi bambini, che non ricevevamo da lui alcun affetto paterno. Io, in particolare, sembravo destare le sue ire e venivo abbandonato alla scarsa comprensione di Tzu “per divenire uomo o per spezzarmi”, come diceva il babbo.
La poca abilità di cui davo prova sul pony veniva considerata da Tzu un’offesa personale. Nel Tibet, i bimbi delle classi superiori imparano a cavalcare prima ancora, quasi, di saper camminare. Il saper andare bene a cavallo è essenziale in un Paese in cui non esiste alcun traffico su ruote, in cui tutti i viaggi si effettuano a piedi o cavalcando. I nobili tibetani praticano l’equitazione per ore e ore un giorno dopo l’altro. Riescono a tenersi in piedi sulla stretta sella di legno d’un cavallo lanciato al galoppo e a colpire dapprima con il fucile un bersaglio in movimento, passando poi all’arco e alle frecce. Talora, abili cavallerizzi galoppano in formazione sulle pianure e cambiano cavalcatura balzando da una sella all’altra. Io, all’età di quattro anni, trovavo difficile tenermi saldo su un’unica sella!
Il mio pony, Nakkim, era irsuto e aveva una lunga coda e una testa stretta dall’espressione intelligente. Conosceva un numero stupefacente di sistemi per disarcionare un cavaliere poco sicuro di sé; uno dei suoi trucchi prediletti consisteva nel precipitarsi in avanti con una breve corsa e nel fermarsi poi di colpo, abbassando la testa. Quando, senza alcuna possibilità di scampo, scivolavo in avanti sul collo e sul capo dell’animale, esso sollevava la testa di scatto, per cui facevo in aria un completo salto mortale prima di piombare al suolo. Il pony se ne stava poi lì, immobile, a contemplarmi con aria compiaciuta.
I tibetani non vanno mai al trotto; i pony sono piccoli e i cavalieri hanno un aspetto ridicolo su un cavalluccio trotterellante. Nella massima parte dei casi un ambio tranquillo rappresenta una velocità più che sufficiente, e il galoppo lo si lascia agli addestramenti.
Il Tibet era un Paese teocratico. Non desideravamo affatto il “progresso” delle altre parti del mondo; volevamo soltanto poter meditare in pace e trascendere le limitazioni della carne. I nostri savi si erano resi conto da tempo del fatto che l’Occidente bramava le ricchezze del Tibet e sapevano che la venuta degli stranieri significava la fine della serenità. L’attuale invasione comunista del Tibet ha dimostrato quanto avessero ragione.
La nostra dimora si trovava a Lhasa, nell’elegante quartiere di Lingkhor, sulla strada circolare che corre tutto intorno a Lhasa, e ai piedi del Picco. Vi sono tre strade perimetrali e quella esterna, detta Lingkhor, è assai frequentata dai pellegrini. Come tutte le case di Lhasa, la nostra, quando io nacqui, era alta due piani sul lato che guardava la strada. Nessuno deve poter guardare dall’alto il Dalai Lama, per cui esiste un vincolo che limita a due piani l’altezza delle abitazioni. Poiché il vincolo entra in vigore, in realtà, soltanto durante l’unica processione annua, molte case hanno per un periodo di circa undici mesi sui tetti a terrazza una struttura in legno facilmente smontabile.
La nostra casa, in pietra, era stata costruita per durare molti anni; a pianta quadrata, conteneva un vasto cortile interno. Gli animali si trovavano al pianterreno e noi abitavamo al primo piano. Eravamo fortunati in quanto dal pianterreno si saliva al primo piano mediante una rampa di scale in pietra; in quasi tutte le case tibetane v’è una scala di legno a piuoli, oppure, nelle casupole dei contadini, un semplice palo a tacche, la cui utilizzazione comporta gravi rischi per gli stinchi. Questi pali a tacche divengono invero assai scivolosi con l’uso, in quanto le mani sporche di burro ungono il legno e il contadino che dimentichi tale particolare precipita fulmineamente al piano sottostante.
Nel 1910, durante l’invasione cinese, la nostra casa era stata in parte danneggiata e il muro posteriore dell’edificio era crollato. Il babbo aveva fatto ricostruire la dimora portandola all’altezza di quattro piani. Poiché non dominava la strada e non potevamo guardare dall’alto il Dalai Lama allorché passava in processione, non vi furono proteste.
Il portale che dava accesso al cortile centrale era massiccio e annerito dal tempo. Gli invasori cinesi non erano riusciti a sfondarne le solide travi di legno e avevano preferito abbattere un muro. Subito al di sopra di questo ingresso si trovava l’ufficio dell’amministratore. Egli vedeva tutti coloro che entravano in casa o ne uscivano. Assumeva, e licenziava, il personale di servizio e si assicurava che l’andamento della casa procedesse in modo efficiente. Lì, sotto la sua finestra, quando risuonavano nei monasteri gli squilli di tromba del tramonto, si riunivano i mendicanti di Lhasa e veniva loro distribuito un pasto che li sostenesse durante le tenebre della notte. Tutti i più alti nobili provvedevano al sostentamento dei poveri del loro quartiere. Spesso venivano anche i condannati in catene, poiché esistono poche prigioni nel Tibet e coloro che scontavano una condanna vagabondavano per le strade, mendicando il cibo.
Nel Tibet i condannati non vengono scherniti né considerati dei paria. Ci rendevamo conto del fatto che quasi tutti – essendo scoperti – saremmo stati condannati, per cui gli sfortunati venivano trattati in modo ragionevole.
Due monaci alloggiavano nelle stanze a destra di quella dell’amministratore; questi erano i sacerdoti della famiglia che pregavano ogni giorno implorando l’approvazione divina della nostra attività. I nobili di minor rango disponevano di un solo sacerdote, ma la nostra posizione sociale ne richiedeva due. Prima d’ogni evento d’una certa importanza, questi sacerdoti venivano consultati e si chiedeva loro di offrire preghiere per ottenere il favore degli dèi. Ogni tre anni i monaci facevano ritorno nelle lamaserie e venivano sostituiti da altri.
In ciascuna ala della casa si trovava una cappella. Le lampade alimentate con burro di yak vi ardevano sempre dinanzi all’altare di legno scolpito. Le sette bacinelle dell’acqua santa venivano pulite e nuovamente riempite parecchie volte al giorno. Dovevano essere pulitissime in quanto gli dèi sarebbero potuti venire a bere in esse. I sacerdoti erano ben nutriti, ricevevano lo stesso vitto della famiglia, in modo che potessero pregare meglio e dire agli dèi che il nostro cibo era buono.
A sinistra dell’amministratore alloggiava l’esperto legale il cui compito consisteva nell’assicurarsi che la famiglia si comportasse nei modi più leciti e legali. I tibetani hanno un grande rispetto della legalità e il babbo doveva essere di esempio agli altri nell’osservare la legge.
Noi bambini, mio fratello Paljör, mia sorella Yasodhara, e io, alloggiavamo nella parte nuova della casa, sul lato più lontano dalla strada. A sinistra si trovava la cappella, a destra l’aula scolastica, frequentata anche dai figli dei servi. Ci venivano impartite lunghe lezioni vertenti su discipline diverse. Paljör non visse a lungo. Era debole di costituzione e inadatto alla dura esistenza che veniva imposta a entrambi. Prima del compimento del settimo anno, ci lasciò e fece ritorno nel paese dei molti templi. Yasodhara aveva sei anni quando egli morì e io ne avevo quattro. Ricordo ancora come vennero a prenderlo quando giaceva morto, un vuoto involucro, e come gli “uomini della morte” lo portarono via per smembrarlo, e darlo in pasto agli avvoltoi, secondo la costumanza.
Ero ormai l’erede della famiglia e la mia educazione venne intensificata. Avevo quattro anni e come cavallerizzo valevo assai poco. Il babbo era un uomo molto severo e, in quanto principe della comunità religiosa, voleva che suo figlio venisse assoggettato a una rigida disciplina e fosse di esempio agli altri per quanto concerneva il modo con il quale si sarebbe dovuto educare i ragazzi.
Nel mio Paese, quanto più elevato è il rango di un fanciullo, tanto più severa è l’educazione impartitagli. Alcuni nobili incominciavano a pensare che i fanciulli avrebbero dovuto avere un’esistenza più facile, non così mio padre. Egli la pensava in tutt’altro modo: i fanciulli poveri non avevano alcuna speranza di futuri agi e pertanto meritavano durante l’infanzia ogni bontà e ogni considerazione. I fanciulli appartenenti alle classi superiori, invece, potevano aspettarsi ogni ricchezza e ogni agio una volta raggiunta l’età adulta; pertanto bisognava essere rigidi con loro nella fanciullezza e nell’adolescenza, in modo che avessero un’esperienza diretta delle privazioni e fossero in grado di mostrare considerazione per gli altri. Tali erano anche i criteri ufficiali del Paese. Con un sistema del genere, i deboli non sopravvivevano, ma quelli che superavano la prova potevano resistere, si può dire, a ogni cimento.
Tzu occupava una stanza al pianterreno, vicinissima al portone principale. Per anni, come monaco-poliziotto, aveva frequentato persone d’ogni genere, e ora non sopportava di vivere in solitudine, lontano da tutto ciò. Il suo alloggio era in prossimità delle stalle in cui mio padre teneva i venti cavalli oltre a tutti i pony e agli animali da tiro.
I servi odiavano Tzu perché era invadente e si intrometteva nel loro lavoro. Mio padre, quando usciva a cavallo, doveva avere una scorta di sei uomini armati. Questi uomini indossavano un’uniforme e Tzu si affaccendava sempre intorno a loro, assicurandosi che ogni minimo particolare dell’equipaggiamento fosse perfettamente in ordine.
Per non so quale motivo, i sei uomini solevano fare indietreggiare i cavalli contro un muro e poi, non appena mio padre appariva sul suo cavallo, si lanciavano in avanti facendoglisi incontro. Mi accorsi che, sporgendomi dalla finestra di una dispensa, arrivavo a toccare uno dei cavalieri in sella. Un giorno, non avendo altro da fare, infilai con somma cautela una corda sotto la robusta cintura di cuoio dell’uomo, alle prese con il proprio equipaggiamento. Annodai i due capi e li assicurai a un gancio all’interno della finestra. Nel trambusto e nel fervore delle chiacchiere nessuno si accorse di me. Mio padre comparve e i cavalieri balzarono innanzi. Ma soltanto in cinque. Il sesto venne strappato all’indietro dal cavallo e urlò che i demoni lo stavano agguantando. La cinghia gli si spezzò e, nella gran confusione, io riuscii a tirar dentro la corda e a nasconderla senza che nessuno la trovasse. Fu per me una gran gioia, in seguito, poter dire: «Sicché anche tu, Ne-tuk, non sai stare a cavallo!».
Le giornate erano per noi faticosissime, in quanto rimanevamo desti diciotto ore su ventiquattro. I tibetani ritengono che non sia affatto prudente dormire con la luce del giorno, in quanto i demoni del giorno possono impadronirsi dei dormienti. Anche i bambini piccolissimi vengono tenuti svegli, affinché i demoni non entrino in loro, infestandoli. Si impedisce persino ai malati di addormentarsi, e si ricorre per questo all’opera di un monaco. Nessuno si sottrae alla regola, e anche i moribondi devono rimanere desti il più a lungo possibile, affinché possano riconoscere la giusta via da seguire attraverso i territori di confine fino all’altro mondo.
A scuola dovevamo studiare lingue, il tibetano e il cinese. Il tibetano si suddivide in due linguaggi distinti, quello comune e quello onorifico. Ci servivamo del linguaggio comune rivolgendoci ai servi e alle persone di rango inferiore, e del linguaggio onorifico rivolgendoci a persone di rango pari al nostro o superiore. Anche al cavallo d’una persona appartenente a un alto rango occorreva rivolgersi nello stile onorifico! La nostra autocratica gatta, intenta ad attraversare a passi furtivi il cortile, impegnata in qualche misteriosa faccenda, si sentiva così rivolgere la parola da un servo: «Vorrebbe l’onorevole Micia degnarsi di venire a bere questo indegno latte?». Ma, con qualsiasi formula ci si potesse rivolgere all’“onorevole Micia”, essa si degnava di avvicinarsi solo quando ne aveva voglia.
L’aula scolastica era molto vasta, essendo stata un tempo utilizzata come refettorio per i monaci in visita; ma dopo il completamento dei nuovi edifici, quel particolare ambiente serviva da scuola della proprietà. In tutto, frequentavano le lezioni circa sessanta bambini. Sedevamo a gambe incrociate sul pavimento, a una tavola, o lunga panca, alta circa quarantacinque centimetri. Sedevamo voltando le spalle all’insegnante, in modo da non sapere mai se ci teneva d’occhio. Questo sistema ci costringeva a sgobbare continuamente. La carta, nel Tibet, viene lavorata a mano ed è costosa, di gran lunga troppo costosa perché possano sciuparla i fanciulli. Ci servivamo di lavagne, lastre sottili di circa trenta centimetri di altezza e trentacinque centimetri di lunghezza. Per scrivere utilizzavamo duri pezzi di gesso che si trovano sui monti Tsu La, alti circa tremilaseicentocinquanta metri rispetto a Lhasa, che già si trova a tremilaseicentocinquanta metri sul livello del mare. Cercavo di solito di procurarmi i gessetti che avevano una tinta rossastra, ma mia sorella Yaso preferiva di gran lunga quelli color porpora chiaro. Era possibile averne di molte tinte diverse: rossi, gialli, azzurri e verdi. Alcune di queste tinte, ritengo, erano dovute alla presenza di minerali metallici nel tenero gesso. In ogni modo, di qualsiasi cosa si trattasse, ci faceva piacere averli.
L’aritmetica mi causava grosse preoccupazioni. Se settecentottantatré monaci vuotavano cinquantadue scodelle di tsampa per ciascuno al giorno e ogni tazza conteneva cinque ottavi di pinta, quali dimensioni avrebbe dovuto avere un recipiente per contenere un quantitativo di tsampa sufficiente per una settimana? Mia sorella Yaso risolveva questi problemi con la massima facilità. Io… be’, non ero altrettanto brillante.
Mi trovavo a mio agio quando ci esercitavamo nell’incisione. Era questa un’attività che mi piaceva e nella quale me la cavavo ragionevolmente bene. Tutti i lavori di stampa nel Tibet vengono eseguiti con lastre di legno incise e pertanto l’incisione del legno veniva considerata un’arte assai utile. Noi bambini non potevamo sciupare legno. Il legno costava molto e doveva essere trasportato fin lì dall’India; il legno tibetano era troppo duro, con un tipo di venature inadatto. Ci servivamo di una qualità tenera di steatite, che poteva essere incisa facilmente mediante uno stiletto affilato. A volte adoperavamo formaggio rinsecchito!
Una cosa che non veniva mai dimenticata era la recitazione delle leggi. Dovevamo ripeterle a mente non appena entrati in aula, e una volta ancora subito prima che ci si concedesse di uscire. Queste leggi erano:
Restituisci bene per bene.
Non venire alle mani con persone buone.
Leggi le Scritture e comprendile.
Aiuta i tuoi vicini.
La Legge è severa con i ricchi per insegnar loro la comprensione e la pietà.
La Legge è mite con i poveri per mostrar loro la compassione.
Paga con prontezza i debiti.
Affinché non fosse possibile dimenticarle, queste leggi venivano incise su tavolette applicate alle quattro pareti dell’aula.
La vita non era soltanto studio e malinconiche meditazioni; ci dedicavamo alle divertenti attività all’aria libera con lo stesso impegno con il quale studiavamo. Tutti i nostri giochi erano escogitati per irrobustirci e porci in grado di resistere nell’aspro clima del Tibet con le sue ampie escursioni di temperatura. A mezzogiorno, in estate, la temperatura può salire fino a 27°, ma nella stessa notte estiva può scendere fino a 4° sotto zero. E in inverno il freddo era molto più intenso.
Il tiro con l’arco era assai divertente e sviluppava i muscoli. Ci servivamo di archi di tasso, importati dall’India, e talora costruivamo balestre con legno del Tibet. Essendo buddisti, non miravamo mai a bersagli viventi. Servi nascosti alla vista tiravano una lunga corda, facendo sì che il bersaglio si spostasse in alto o in basso; non sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il terzo occhio
  3. Prefazione dell’autore
  4. I. La prima fanciullezza in famiglia
  5. II. Fine della mia infanzia
  6. III. Ultimi giorni in famiglia
  7. IV. Alle porte del tempio
  8. V. La vita di una chela
  9. VI. La vita nella lamaseria
  10. VII. L’apertura del terzo occhio
  11. VIII. Il Potala
  12. IX. Alla «Siepe delle Rose Selvatiche»
  13. X. Credenze tibetane
  14. XI. Trappa
  15. XII. Erbe e aquiloni
  16. XIII. Prima visita a casa
  17. XIV. Utilizzando il terzo occhio
  18. XV. Il nord segreto… e gli yeti
  19. XVI. Lama
  20. XVII. Iniziazione finale
  21. XVIII. Tibet, addio!
  22. Copyright