Due imperi... mancati
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Due imperi... mancati

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Due imperi... mancati

Informazioni su questo libro

Improntato a un pacifismo eroico e intransigente, questo volume racconta un conflitto vissuto in luoghi squallidi e antieroici, nelle retrovie, nelle caserme dei distretti, fra soldati terrorizzati dall'incubo del fronte. Un libro sulla guerra e contro la guerra, scritto da Palazzeschi (1885-1974) a partire dall'estate 1914, che si pone come coraggioso atto d'accusa contro l'interventismo degli intellettuali.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804481133
eBook ISBN
9788852050145

Introduzione
di Marino Biondi

a Luigi Baldacci

Gli imperi perduti di Aldo Palazzeschi

Io.... non volevo morire, chi sa perché.... non volevo morire, e questo non volere morire mi sembrava che dovesse bastare per salvarmi.
C’era una persona dalla quale questa guerra doveva venire subito condannata e respinta: l’artista, e su tutti il poeta.
Volli rimanere soldato sempre, come voi, solamente soldato, come voi che m’eravate piaciuti davvero, un rigo bastava a sciuparne la grandezza e il candore.
ALDO PALAZZESCHI, Due imperi.... mancati, 1920
Ora sappiamo che cosa sia la guerra, si può dire, ormai, che non sappiamo altro....
Tre imperi.... mancati, 1945
Due imperi.... mancati, edito da Vallecchi nel maggio 1920,1 è una voce fuori dal coro bellicista dell’intelligenza italiana.2 Sembra conglobare insieme un anatema sulle trepide vigilie interventiste, quanto sulla memorialistica che terrà viva per decenni la fiaccola della guerra e della vittoria. Le Edizioni della «Voce», cui l’autore pensava di destinarli, rifiutarono un libro che sconfessava la guerra vittoriosa, e con essa l’etica del vocianesimo interventista.3 Una sorta di disfattismo memoriale, di postuma ritrattazione del sacrificio, un rigetto della guerra come corpo estraneo, da espellere dalla mente e dal corpo, con una purgatio animi espiatoria e penitente. Storia anche di una rappresentazione del sé dell’autore, del ruolo sociale sostenuto nella guerra e proiettato nell’opera. Un libro impolitico su un fatto come la guerra che era diventato, soprattutto dopo che era stata combattuta e sanguinosamente vinta, supremamente politico. Atto a fondare, rifondare, nella memoria e nel mito, stati, regimi e imperi. Tutto ciò che si negava, che si diceva mancato e perduto in questo lamento o beffarda geremiade del desolato poeta.4 Quindi libro politico nella sua impoliticità, deviato e deviante, sia in rapporto alla guerra che al dopoguerra. Spiazzato rispetto al passato e al futuro, presumibilmente generato da quel passato.
Nella fase di stesura, l’autore parlava del suo libro, come un convalescente in dormiveglia, che, rifugiatosi nella fiorentina Costa S. Giorgio, decidesse di mettere fuori «un centinaio di paginette bizzarre che mi balzano in questo ricordo, appunti vaghi saltuari, un guazzabuglio quello che può essere dopo una siffatta avventura».5 Uno «sfogo», aggiungeva, «per non pensarci più». Anche se il tempo incalzava, e il suo trascorrere congiurava contro l’attualità del libro, che, per non essere inattuale, avrebbe dovuto essere pubblicato entro l’autunno 1919.6 Un purgante, scriveva ancora, a buttare giù bocconi amari e indigesti. Poi, era l’augurio, «tornerò nelle braccia della più verginale poesia per non abbandonarla mai più».7
Due imperi è libro atipico, innocente e tenace nella sua razionalità pacifista, nel pacifismo integrale e intransigente, basato sul disarmo unilaterale degli aggrediti,8 nello schietto cosmopolitismo di «anima universale», coraggioso nel pronunciare un addio alle armi, che è un’accusa circostanziata e non misericorde a tutti coloro che quelle armi impugnarono, per darsele a sangue. L’autore di quel j’accuse, autodefinitosi il francescano panico amante delle creature e «uomo che non uccide», ebbe un ruolo minimo nella guerra. Sebbene riformato, fu richiamato alle armi nella più limpida delle mattine d’estate, il 16 luglio 1916,9 definitivamente arruolato il 24 agosto, e dal 1917 aggregato al Reparto Giacomo Medici, vivendo l’evento dall’umile, servile retroscena del fante scritturale, addetto agli approvvigionamenti, alle furerie, alle comunicazioni.10 Lontano dai fronti, eppure punto sensibilissimo di ricezione di ogni straziata eco della grande ecatombe. Smobilitato molto tardivamente, come per un lungo strascico burocratico della guerra finita, solo il 10 settembre 1919. E anche il momento finale di quell’avventura, la fuga da Tivoli, con il foglio di congedo e il sacco, alla ricerca di un treno per Roma, è registrato nel libro. Due imperi.... mancati si colloca dunque a ridosso, in una sostanziale continuità di sensazioni e di giudizio, di quella sua guerra sciatta e angosciata, vissuta nell’avvilimento di una postazione tutta soggettiva. Nulla, si vuole dire, del memorialismo tipico dei ritorni dalla guerra, allorché una tentazione di eroismo, come orgoglio del dolore patito, sembra serpeggiare in ogni scrittura del ricordo.
Una lettura critica in parallelo dei due libri sulle guerre mondiali, Due imperi.... mancati e Tre imperi.... mancati,11 nell’arco di anni fra 1920 e 1945, fu prodotta da Alberto Asor Rosa nel convegno palazzeschiano di Firenze.12 Opere, secondo il critico, di disuguale valore e che affondano in tempi assai diversi, nell’anteguerra delle avanguardie e nel ventennio del fascismo. Il terzo impero era del regime, nato dal grembo della guerra vittoriosa,13 spazzato via dalla guerra perduta, si risolveva in un’ansia di generalizzato perdono. Non mancavano nei Tre imperi ultimi residui di un ormai plumbeo lasciatemi divertire, come nella parodiata leggenda della sparizione di Hitler,14 l’uomo dagli occhi di serpe, «il criminale più fulgido e genuino che abbia visto la cristianità».15 Ancora più radicale l’accusa alla civiltà germanica di essere votata, come una «razza maledetta», al primato nella bestialità e nella strage.16 La seconda guerra aveva mostrato, con gli Stukas su Londra, «che non è una favola l’apocalisse».17 Ma a prevalere era la volontà, dopo tutti quei fallimenti della storia e della politica, di chiudere bottega. Una sorta di amnistia delle colpe storico-politiche, almeno fino alla data dell’8 settembre 1943, ché l’adesione al collaborazionismo della deportazione e del massacro non è amnistiabile, tutto teso al bene, alla ricostruzione, al conforto dei ceti medi,18 all’americanismo tutorio,19 alla cancellazione degli odii e delle fazioni.20 Un libro conservatore e prudente, avverso all’economicismo marxista,21 infarcito di antropologia aneddotica, Tre imperi.... mancati, con qualche rada invenzione ma abbastanza piatto e prigioniero della cronaca,22 che finiva per rilanciare il tempo e la civiltà dell’anteguerra giolittiano, come l’età dell’oro della libertà artistica, prima cioè che cominciasse l’epoca delle guerre e della dissolvenza di quella civiltà, a cui si era nati, bellissima e peritura.23
Il libro sulla Grande Guerra invece, assai più assillato e implacato, svettante di gran lunga sul secondo, non cedeva alla stanchezza, al bisogno e alla nostalgia di pace, né si arrendeva all’oblio. Tutt’altro insomma che compromissoria e conciliante la testimonianza del cittadino-poeta. Sarà stata la non renitente giovinezza, ma quel testo sapeva ancora presidiare le estremità dello schieramento, restare nella periferia e nell’isolamento, vendere cara la pelle. Agitato come un fendente, il libro, politicamente inattuale dopo la guerra, inopportuno e intempestivo dopo Vittorio Veneto, colpiva gli idoli della cultura che la guerra aveva divinizzato. Mostrava per il suo interprete il risvolto tragico-patetico della clownerie lacerbiana, manifesta in Controdolore, e, dissociandosi dalla trahison des clercs degli interventisti-intervenuti, scontava una traumatica solitudine.24 Ma era l’intera concezione della letteratura palazzeschiana a smarrirsi nel vortice bellico, a dichiararsi fallita, e il poeta era costretto a interrogarsi sulla tenuta e consistenza del gioco giocato fino ad allora.25 Se Perelà era stato, o aveva agito da rimozione del dolore, con la guerra di Due imperi il dolore tornava a ineludibile realtà. Il controdolore aveva smontato la serietà e il sublime del tragico, ma nondimeno questo tornava sulla terra. Anche del ridicolo, del grottesco, non si poteva più ridere, in una marcata autocritica della poetica ironistica dell’«antidolore».26 Lo «spessore» delle lacrime e dei lutti non lo consentiva.27 Perelà, se non può più essere una risposta alla tragedia, poteva però tornare a vivere, senza più disdegni aristocratici, in mezzo agli uomini.28 Una crisi totale, di conversione al dolore del vero, che cambia in profondità le prospettive del vivere e dello scrivere.29
Guido Guglielmi ha riletto recentemente Due imperi.... mancati e ne ha ribadito unicità ed eccezionalità, sia perché una narrazione romanzesca è rara in questo autore, sia per l’asprezza e la profondità dell’intrusione autobiografica, e del disvelamento di una nuova realtà, in «un libro scritto contro i compagni di strada, poeti, artisti e intellettuali, che tradendo l’intelligenza hanno non solo accettato, ma salutato ed esaltato la guerra».30 Guerra significa, per lui come per altri, la fine dei ludi d’avanguardia e della connessa separatezza elitaria. L’opzione etica della vita. La scoperta degli umili, dei poveri, degli oppressi in uniforme. È uno svelamento che tocca a molti altri illustri combattenti, da D’Annunzio a Soffici, ma se in costoro il bagno di popolo induce all’estremismo patriottico, nuovamente strumentale e vessatorio, in Palazzeschi la fiera opposizione alla guerra volge in populismo libertario e anarchico, in un rompete le righe di valore epocale, ma soprattutto stila una chiamata di correo per tutti, aggressori e aggrediti, vincitori e vinti. Che ci sia stata complicità effettuale nel massacro è idea ferma del libro. I banditi della Triplice e i gentiluomini dell’Intesa si sono scambiati la carta da visita per il loro duello mortale. La norimberga palazzeschiana non ha una sola parte lesa, né altra virtuosamente giudicante. Coerentemente alle premesse di mobilitazione coatta e autoritaria, il populismo patriottico cementa la dittatura, come prolungato e statalmente integrato cadornismo di pace. Mentre quello palazzeschiano non potrà che essere, se non oppositivo, di certo marginale al fascismo, o taciturnamente, tormentosamente antifascista.31 Stato d’animo affine a quello dell’amico di una vita, Marino Moretti, che non plaude neppure, dopo vent’anni di dittatura, alla fine inopinata del potere mussoliniano.32 Il tono ludico dell’incendiario, il clownismo dei simulati incendi d’anteguerra, davanti al fuoco vero e alla strage, si spengono e stridono in sarcasmi amari.33 La guerra atterra i funamboli, azzera gli aerei volteggi degli acrobati d’avanguardia nella realtà più cruda. Al vento della guerra, ogni levità d’arte e di poesia s’invola e si perde.34 Anche i fantasmi di fumo, saltimbanchi e Perelà, li «vediamo dibattersi nella stretta selvaggia delle sofferenze materiali e morali».35 L’evento è stato di tale enormità da trasformare un’intera generazione di intellettuali e artisti visionari in apprendisti stregoni e inconsci pifferai della morte.36
L’ottica ostinatamente adottata è quella di un’identità umana, che neghi la guerra in assoluto, senza transazioni di alcun genere, né ideali, né tanto meno politiche.37 La storia e la guerra in essa sono un delitto in grande. Quello che viene punito nel singolo è esaltato, eroicizzato quando assurge a massacro nazionale. Lo Stato detiene il monopolio del crimine, come dei sali e tabacchi. La storia, dirà nella Nota in clausola, che credito può avere mai quella vecchia ruffiana? Non c’è razionalità di discorso giustificativo o argomentativo della guerra che l’impolitico scrittore sia disposto ad accettare.3...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Marino Biondi
  4. Cronologia a cura di Adele Dei
  5. Nota bibliografica a cura di Simone Magherini
  6. Nota al testo
  7. Due imperi.... mancati
  8. Due imperi....
  9. La guerra
  10. 55999
  11. Visita all’umanità
  12. .... mancati
  13. Nota
  14. Copyright