Passaggio in India
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Passaggio in India

  1. 364 pagine
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Informazioni su questo libro

A Chandrapore, nell'India stretta sotto la morsa del colonialismo, si fronteggiano l'Islam, «un atteggiamento verso la vita squisito e durevole», la burocrazia britannica, «invadente e sgradevole come il sole», e «un pugno di fiacchi indù», in una silenziosa guerra fredda. Fino a quando l'arrivo di una giovane turista inglese non viene a incrinare il fragile equilibrio. Perché Adela Quested, con stupore del clan dei sahib bianchi, non si accontenta dei circoli e delle visite ufficiali: vuole conoscere «la vera India», e trova la guida indigena perfetta nel mite e ospitale Aziz. Ma nelle grotte di Marabar la gita preparata con ogni cura si trasforma per Adela, vittima delle proprie personali inquietudini o di un indegno affronto, in un dramma sconvolgente che arriva fino nelle aule di un tribunale, facendo esplodere pregiudizi, razzismi, contraddizioni. Il ritratto umano e poetico di un paese amatissimo si fa parabola della «segreta intelligenza del cuore» di contro alla protervia della ragione in quello che Forster chiamò «il mio romanzo indiano influenzato da Proust» e che rimane il suo indiscusso capolavoro.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804492979

Parte seconda

LE GROTTE

12

Sebbene scorra dal piede di Visnù e attraverso i capelli di Siva, il Gange non è un fiume antico. La geologia, che vede più lontano della religione, sa di un tempo in cui non esistevano né il fiume né l’Himalaia che lo alimenta, e un oceano copriva i sacri luoghi dell’Indostan. Sorsero le montagne, i loro detriti ostruirono l’oceano, gli dei vi posero la propria dimora e architettarono il fiume, e l’India che noi chiamiamo immemorabile nacque alla vita. Ma l’India è realmente molto più antica. Nei giorni dell’oceano preistorico la parte meridionale della penisola già esisteva, e gli altopiani della Dravidia erano terra dacché la terra aveva avuto principio, e avevano visto da un lato sprofondare un continente che li univa all’Africa e dall’altro sorgere l’Himalaia dal mare. Sono più antichi di qualunque altra cosa al mondo. Nessun’acqua li ha mai coperti, e nel loro profilo il sole che li guarda da innumerevoli eoni può ancora scorgere forme che gli appartennero prima che il nostro pianeta fosse strappato dal suo petto. Se c’è un luogo dove si possa toccare la carne della carne del sole, è proprio questo, tra l’incredibile antichità di questi monti.
Tuttavia anche loro stanno mutando. Mentre sorgeva l’India himalaiana, quest’India, la primeva, si è appiattita e adesso sta lentamente rientrando nella curvatura della terra. Può darsi che nei futuri eoni un oceano scorrerà anche qui, e coprirà di melma le rocce nate dal sole. Intanto la valle del Gange se le mangia quasi come un’erosione marina. Esse stanno sprofondando sotto le terre più nuove. La loro massa centrale è intatta, ma gli avamposti sul margine sono stati mutilati e stanno infitti sino alle ginocchia, sino alla gola nel suolo che incalza. C’è qualcosa di inesprimibile in questi avamposti. Non somigliano a nient’altro al mondo, e a gettare uno sguardo su di loro si resta senza fiato. Balzano su a picco, pazzamente, senza le proporzioni rispettate altrove anche dai monti più selvaggi, non hanno rapporto con nessuna cosa che si possa sognare o vedere. Definirli “sovrannaturali” suggerisce l’idea degli spettri, e loro sono più antichi di ogni spirito. L’induismo ha graffiato e intonacato qualche roccia, ma i santuari sono deserti, come se i pellegrini, di solito in cerca dello straordinario, qui ne avessero trovato fin troppo. Alcuni santoni si erano un tempo stabiliti in una grotta, ma ne furono stanati, e perfino Budda, che deve essere passato di qua scendendo verso l’albero Bo1 di Gya, rifuggì da una rinuncia ancora più totale che la sua, e non ha lasciato nessuna leggenda di lotta o di vittoria nel Marabar.
Le grotte sono presto descritte. Una galleria lunga due metri e mezzo e larga quasi un metro conduceva a una sala circolare di circa sei metri di diametro. Questo schema si ripete lungo l’intera catena montuosa, e questo è tutto, questa è una grotta Marabar. Dopo averne visto una, averne viste due, averne viste tre, quattro, quattordici, ventiquattro, il visitatore torna a Chandrapore domandandosi se sia stata un’esperienza interessante o noiosa, o perfino se sia stata un’esperienza. Trova difficile parlare delle grotte o individuarle nella propria mente, perché il modello non cambia mai, e nessuna scultura, neppure un nido d’api o un pipistrello le distingue l’una dall’altra. In esse non c’è niente, niente, e la loro fama – perché hanno una fama – non si affida al linguaggio umano. È come se la pianura tutt’intorno o gli uccelli in volo si fossero assunti il compito di esclamare “straordinario”, e quella parola avesse messo radici nell’aria e il genere umano l’avesse respirata.
Sono grotte buie. Anche quando si aprono verso il sole, pochissima luce penetra lungo la galleria d’entrata fin nella sala circolare. C’è poco da vedere, e nessun occhio che lo veda, finché arriva il visitatore, cinque minuti, e accende un fiammifero. Subito un’altra fiamma si desta nelle profondità della roccia e affiora alla superficie come uno spirito imprigionato: le pareti della sala circolare sono meravigliosamente levigate. Le due fiamme si avvicinano e si affannano per unirsi ma non ci riescono, perché l’una respira aria, l’altra pietra. Uno specchio intarsiato di teneri colori divide gli amanti, delicate stelle di rosa e grigio si interpongono, nebule squisite, ombreggiature più tenui che la coda di una cometa o la luna di mezzogiorno, tutta l’evanescente vita del granito, solo qui visibile. Pugni e dita balzano fuori dal suolo che incalza – qui finalmente c’è la loro pelle, più fine che ogni tegumento acquisito dagli animali, più liscia che l’acqua senza vento, più voluttuosa che l’amore. Il palpito di luce si fa più intenso, le fiamme si toccano, si baciano, spirano. La grotta è tornata buia, come tutte le grotte.
Soltanto la parete della sala circolare è così levigata. I muri della galleria sono rimasti ruvidi e gravano come un ripensamento sulla perfezione interna. Un’entrata era necessaria, e il genere umano l’ha fatta. Ma altrove, più addentro nel granito, ci sono sale che non hanno entrata? Sale mai violate dopo l’arrivo degli dei? Notizie locali vogliono che queste ultime siano molto più numerose di quelle che si possono visitare, così come i morti sono più numerosi dei vivi – quattrocento, quattromila o milioni. Dentro non c’è niente, furono sigillate prima che pestilenze e tesori fossero creati; se il genere umano diventasse curioso e scavasse, niente, niente si aggiungerebbe alla somma del bene e del male. Si dice che ce ne sia una dentro il masso che oscilla sulla cima del monte più alto; una grotta a forma di bolla senza soffitto né pavimento, che specchia all’infinito la propria tenebra in ogni direzione. Se il masso cade e si sbriciola, si sbriciolerà anche la grotta – vuota come un uovo di Pasqua. Il masso, tutto cavo com’è, oscilla nel vento e si muove perfino se vi si posa un corvo: di qui il suo nome e i nomi dei suoi stupendi piedistalli: il Kawa Dol.2
1 Bo: per Bodhî, Albero dell’Illuminazione, sotto il quale il Budda (“l’Illuminato”) riposò sette giorni per ottenere l’Illuminazione, cioè la rivelazione delle verità supreme. Si trova a Budh Gaya, nel Bihâr (India nord-orientale).
2 Kawa Dol (pr. Kawwâ Dol): Montagna del Corvo.

13

Queste montagne paiono romantiche in certe luci e a debita distanza, e una sera, vedute dalla veranda del primo piano del Circolo, indussero la signorina Quested a dire alla signorina Derek tra una chiacchiera e l’altra che le sarebbe piaciuto andarci, che il dottor Aziz, in casa del signor Fielding, aveva promesso di combinare qualcosa, e che gli indiani sembrano piuttosto smemorati. Fu sentita da un servo che girava col vermut. Questo servo capiva l’inglese. Non che fosse proprio una spia, ma teneva le orecchie aperte, e non che Mahmoud Ali lo corrompesse, ma lo esortava ad andare ad accovacciarsi coi suoi servi, e poi capitava a passare di là quando c’era lui. Strada facendo, quella storia si arricchì di aggiunte emotive, e Aziz fu sconvolto nell’apprendere che le signore erano profondamente offese con lui e avevano aspettato di giorno in giorno un invito. Credeva che quella sua frase superficiale fosse stata dimenticata. Dotato di due memorie, una momentanea e l’altra permanente, sino allora aveva relegato le grotte nella prima. Ora le traslocò una volta per tutte, e spinse la cosa in porto. Doveva essere una stupenda replica di quel tè. Cominciò con l’assicurarsi Fielding e il vecchio Godbole, poi diede a Fielding l’incarico di avvicinare la signora Moore e la signorina Quested quand’erano sole – con questa astuzia si poteva aggirare Ronny, il loro protettore ufficiale. A Fielding tutta quella storia non piaceva granché; era occupato, le grotte lo annoiavano, prevedeva contrasti e spese, ma non volle rifiutarsi la prima volta che l’amico gli chiedeva un piacere, e fece quanto gli era richiesto. Le signore accettarono. Non era una cosa tanto facile, data la quantità di impegni che avevano al momento, ma speravano di riuscirci dopo aver consultato il signor Heaslop. Consultato, Ronny non fece obiezioni, visto che Fielding si assumeva la piena responsabilità del benessere delle signore. Non era entusiasta di quel picnic, ma quanto a questo non lo erano nemmeno le signore – nessuno ne era entusiasta, ma il picnic ebbe luogo.
Aziz era terribilmente preoccupato. Non si trattava di una gita lunga: un treno partiva da Chandrapore poco prima dell’alba, un altro li avrebbe riportati per il pranzo ma lui non era che un piccolo funzionario e temeva di fare cattiva figura. Dovette chiedere al maggiore Callendar mezza giornata di permesso, che gli fu rifiutata perché da ultimo si era dato malato; disperazione; nuovo tentativo presso il maggiore tramite Fielding, e sprezzante, ringhiosa concessione. Dovette farsi prestare la posateria da Mahmoud Ali senza invitarlo. Poi ci fu la questione dell’alcool: il signor Fielding e forse anche le signore erano bevitori; bisognava portare whisky e soda e vini? C’era il problema del trasporto dalla stazione secondaria di Marabar alle grotte. C’era il problema del professor Godbole e del suo cibo, del professor Godbole e del cibo altrui – due problemi, non uno solo. Il professore non era un indù molto osservante: prendeva tè, frutta, acqua minerale e dolci cucinati da chiunque, e verdure e riso cucinati soltanto da un bramino; ma carne no, focacce nemmeno per paura che fossero fatte con le uova, e non permetteva che mangiassero manzo nemmeno gli altri: una fetta di manzo su un piatto anche lontano avrebbe rovinato la sua gioia. Altri potevano mangiare montone, loro potevano mangiare prosciutto. Ma sul prosciutto la religione di Aziz faceva sentire la sua voce: a lui non garbava che la gente mangiasse prosciutto. Erano fastidi su fastidi, perché aveva sfidato lo spirito della terra indiana, che tenta di tenere gli uomini in compartimenti stagni.
Alla fine arrivò il gran momento.
I suoi amici lo giudicavano molto imprudente a mescolarsi con signore inglesi e lo avvertirono di prendere tutte le precauzioni per essere puntuale. Di conseguenza lui passò tutta la notte alla stazione. I servi facevano ressa sul marciapiede con l’ordine di non disperdersi. Lui camminava su e giù col vecchio Mohammed Latif, che doveva fare da maggiordomo. Si sentiva malsicuro, persino irreale. Vide avvicinarsi un’automobile e si augurò che ne scendesse Fielding, che gli avrebbe dato consistenza. Ma dentro c’erano la signora Moore, la signorina Quested e il loro servo Goanese. Aziz si precipitò incontro a loro, con improvvisa felicità. «Eccovi qui, finalmente! Oh, come siete state gentili!» esclamò. «Questo è il momento più felice della mia vita.»
Le signore si mostrarono cortesi. Non era il momento più felice della loro vita, ma speravano di divertirsi non appena superato il fastidio di quella partenza all’alba. Dopo che era stata combinata la gita non avevano più visto Aziz, e gli fecero i dovuti ringraziamenti.
«Non occorrono i biglietti... ditelo al vostro servo. Non si danno biglietti sulla ferrovia secondaria di Marabar; è la sua specialità. Venite nello scompartimento e riposatevi un po’ sinché non arriva il signor Fielding. Lo sapete già che dovete viaggiare purdah? Lo gradirete?»
Quelle risposero che l’avrebbero gradito. Il treno era arrivato, e un branco di subalterni brulicava come tante scimmie sui sedili della carrozza. Aziz aveva portato i suoi tre servi e quelli che si era fatto prestare dagli amici, e ne seguirono battibecchi sulle precedenze. Il servo delle signore se ne stava per conto suo, con un’espressione beffarda sul viso. L’avevano preso a Bombay quand’erano ancora turiste. In un albergo o tra persone eleganti era esemplare, ma non appena le vedeva in compagnia di gente che giudicava di second’ordine le abbandonava alla loro infamia.
La notte era ancora buia, ma aveva preso quell’aspetto transitorio che ne preannuncia la fine. Appollaiate sul tetto di una rimessa, le galline del capostazione cominciavano a sognare nibbi invece che gufi. Le lampade erano spente per evitare la seccatura di spegnerle più tardi; odor di tabacco e rumore di scaracchi si levarono dai passeggeri di terza negli angoli bui; teste emergevano dalle pieghe delle tuniche, denti venivano puliti coi ramoscelli di un albero. Un funzionario in sottordine era così convinto che stava per sorgere un nuovo sole, che suonò con entusiasmo una campanella. Scompiglio tra i servi. Gridavano che il treno stava partendo e si precipitarono in testa e in coda per fermarlo. Nella carrozza purdah doveva ancora entrare molta roba: una cassa dai bordi di ottone, un melone sormontato da un fez, un asciugamano pieno di frutti di guava, una scala a pioli e un fucile. Le invitate stavano magnificamente al gioco. Non avevano pregiudizi razziali – la signora Moore era troppo vecchia, la signorina Quested troppo moderna – e con Aziz si comportavano come avrebbero fatto in patria con qualunque giovanotto gentile. Questo lo commoveva profondamente. Si era aspettato che arrivassero col signor Fielding, e invece si erano fidate di restare sole con lui qualche minuto.
«Rimandate indietro il vostro servo» suggerì. «Non è necessario. E così saremo tutti musulmani.»
«Ed è talmente insopportabile. Antony, potete andare; non abbiamo bisogno di voi» disse con impazienza la ragazza.
«Il padrone mi ha detto di venire.»
«La padrona vi dice di andare.»
«Il padrone dice, resta vicino alle signore tutta la mattina.»
«Be’, le signore non vi vogliono.» Si volse all’ospite. «Liberatevi di lui, dottor Aziz!»
«Mohammed Latif!» chiamò lui.
Il parente povero scambiò il suo fez con quello del melone e guardò fuori dal finestrino della carrozza di cui stava sorvegliando la confusione.
«Questo è mio cugino, il signor Mohammed Latif. Oh, no, niente strette di mano. È un indiano vecchio stampo, preferisce fare gli inchini. Ecco, come vi dicevo, Mohammed Latif, che magnifici inchini! Vedete, non ha capito; non sa una parola d’inglese.»
«Tu parlare bugia» disse il vecchio gentilmente.
«Io parlare una bugia! Oh, che tipo! Non è un vecchio spassoso? Con lui ci divertiremo immensamente più tardi. Ne fa di tutti i colori. Non è affatto stupido come credete, ed è terribilmente povero. Fortuna che la nostra è una famiglia numerosa.» Gli passò un braccio intorno al collo sudicio. «Ma voi entrate, fate come se foste a casa vostra; sì, sì, sdraiatevi.» La famosa confusione orientale pareva che finalmente stesse per cessare. «Scusatemi, ora devo andare incontro agli altri due invitati!»
Lo stava riprendendo il nervosismo, perché mancavano dieci minuti alla partenza. Tuttavia, Fielding era inglese, e quella è gente che non perde mai il treno, e Godbole era indù e quindi non contava: placato da questa logica, divenne più calmo via via che si avvicinava l’ora. Mohammed Latif si era liberato di Antony con una mancia. Passeggiavano su e giù sul marciapiede, conversando di cose pratiche. Riconobbero che i servi erano troppi e che bisognava lasciarne due o tre alla stazione di Marabar. E Aziz gli spiegò che forse alle grotte gli avrebbe giocato qualche tiro – non per cattiveria...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Passaggio in India
  3. Edward M. Forster
  4. PASSAGGIO IN INDIA
  5. Parte prima - LA MOSCHEA
  6. Parte seconda - LE GROTTE
  7. Parte Terza - IL TEMPIO
  8. Copyright