Era una di quelle sere di dicembre con il cielo senza nuvole e l’aria che sapeva di neve e di caffè tostato: se non avesse appena visto il volto della giovane morta, i capelli ramati sul pavimento, la bocca aperta, e quell’orribile ferita sul collo, il commissario Ambrosio si sarebbe sentito quasi felice, come un’ora prima, quando – uscito dal portone della sua casa di via Solferino – si era incamminato verso il garage di San Marco. L’idea era di passare in ufficio, dopo il pomeriggio di permesso, e di andare più tardi a cena con Emanuela in una trattoria di via Ascanio Sforza, sul Naviglio Pavese.
Invece adesso, in attesa del medico della polizia e del sostituto procuratore, teneva in mano una cornice d’argento con la fotografia di lei, di Norma Gruber, e l’odore aspro della trementina gli stava dando un vago disgusto, quasi un inizio di nausea, tanto che pensò di aprire una delle finestre e di respirare a fondo per qualche istante: la temperatura doveva essere scesa sotto lo zero. In quel momento ricordò che tra poco, una settimana appena, sarebbe stato Natale e che doveva decidersi a comperare i regali, a ordinare i vini, a spedire i telegrammi. Poi notò lo sguardo di Mancuso sulle gambe, anzi sulle cosce della donna che indossava calze di un rosso squillante, festoso, così diverso dal colore del sangue che le aveva inzuppato la camicetta chiara.
«Era bella» disse l’agente sottovoce, come volesse scusarsi.
La boccetta di trementina era caduta ai piedi del tavolo di noce, da ufficio postale, su cui tubetti di colori, barattoli, pennelli e carboncini erano abbandonati in disordine, e Ambrosio provava il bisogno di rimettere a posto ogni cosa, compresa la tavolozza rettangolare, con tutti quei grumi rappresi, da raschiar via con la spatola.
La stanza non era ampia, in compenso aveva finestre su tre lati ed era rivestita da una boiserie alta sino al soffitto. Lo aveva colpito un quadro, appeso accanto alla porta, sull’unica parete senza finestre: una periferia di città , probabilmente Milano, vista da uno di quei prati con tralicci e fili, in un crepuscolo viola, e all’orizzonte gasometri e ciminiere. Il tutto ottenuto con rivoli di vernici che formavano reticoli e griglie, una strana geometria, che costrinse il commissario a osservare meglio anche le altre tele appoggiate ai muri, simili a quel paesaggio sconcertante.
Nella stanza, tra due finestre, c’erano un cavalletto da pittore e una turca con cuscini di cinz giallo, un giallo solare che contrastava con quel corpo senza vita e con le forbici d’acciaio che il commissario aveva avvolte delicatamente in un fazzoletto e posate su un ripiano, vicino ad alcuni volumi su Versailles e la torre di Londra.
Guardò l’orologio: erano passate da poco le sette. Non che avesse fretta, ma il suono di una pendola al piano di sotto e il silenzio, persino innaturale considerato che la villa dava su via Monte Rosa, lo avevano turbato, più di quello che avrebbe voluto ammettere. Si avvicinò ancora a una delle finestre, e le luci della strada e i fari delle automobili lo confortarono.
La ragazza era rimasta seduta su un divanetto di cuoio ai piedi della scala che portava allo studio, le mani in grembo. Gli occhi tondi, sgomenti, le davano un’aria non accorta, anche se il corpo fiorente e i capelli biondi sulle spalle dovevano procurarle, stabilì Ambrosio, non pochi ammiratori. Era stata lei ad accompagnarlo e a mostrargli la porta bianca, in alto, dopo che la vecchia signora, la suocera di Norma Gruber, aveva chiamato la polizia.
Doveva essere stata una di quelle donne, la morta, che possono sconvolgere la vita di un uomo: ne osservava la fotografia a colori. Gli occhi malinconici di lei, gli zigomi alti, la bocca superba, i capelli come foglie di acero in autunno – e la mano tra i capelli – lo attraevano al punto da considerare, dentro di sé, che di rado gli era accaduto di vedere una creatura così seducente. Era attratto dallo sguardo della donna: c’era mestizia in quegli occhi, e nel medesimo tempo risolutezza. Ma anche una certa apprensione.
«Chi l’ha scoperta?» chiese alla ragazza.
«Io.»
«Come ti chiami?»
«Lucia.»
Stava seduta, guardava il pavimento.
«Quanti anni hai?»
«Venti. Fra quattro mesi.»
Le si sedette accanto, sul divano:
«Che cosa fai, in questa casa?»
«La cameriera.»
«Raccontami tutto con calma. Dunque, sei andata su, nello studio della signora, per caso...»
«Suonava il telefono. Non sapevo che lei fosse nella stanza.»
«Dov’eri, esattamente, quando hai sentito gli squilli?»
«Qui al primo piano, nel bagno della signora. Stavo sistemando gli asciugamani nell’armadio.»
«Quanti apparecchi ci sono nella villa?»
«Tre.»
«Sicura?»
«Quattro, mi scusi. Dimenticavo quello nella biblioteca.»
«Dunque, un telefono è di là , dove la signora dipingeva, un secondo nel soggiorno, suppongo. E gli altri?»
«Uno nella biblioteca, come le ho detto, e uno nella loro camera.»
«Perché non sei andata a rispondere nella loro stanza? Non è più vicina al bagno?»
«Ecco, io non...»
«Non osavi entrare?»
«No. È che... mi è sembrato più giusto, visto che nessuno rispondeva, andare nello studio. La scala è accanto al bagno e i gradini non sono molti.»
«Chi era al telefono?»
«Non lo so.»
«Non hai risposto?»
«No.»
Lo guardò per un istante, aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Ho visto lei, la signora, per terra... Dio mio...»
Portò le mani al viso. Ambrosio notò al mignolo della destra un anello d’oro a spirale, con un rubino.
Glielo sfiorò con la punta dell’indice:
«È un regalo del tuo ragazzo?»
Esitò un attimo:
«È stata la signora, un anno fa, a Natale.»
«Ti voleva bene?»
«Aveva... aveva fiducia in me.»
«Insomma eravate, come dire?, un po’ amiche.»
Si asciugò gli occhi con una grazia inattesa, che colpì il commissario.
«Lei capiva le cose.»
«Non hai risposto alla mia domanda.»
«Non potevo essere sua amica. Era... era brava, ricca, e poi era la signora.»
«Tuttavia lei mostrava amicizia verso di te, o no?»
«Sì.»
«Lavorava spesso nello studio?»
«Quasi tutti i giorni. A meno che non avesse degli impegni in centro.»
«Che tipo di impegni, per esempio?»
«Andava nei negozi, si vedeva con amiche, amici, e poi comprava libri e girava per gallerie.»
«Sei mai stata fuori con lei?»
«Poche volte. Quando faceva le mostre, allora sì, andavo a vedere i suoi quadri.»
«Ti piacciono?»
«Sono tristi.»
«Chi abita in questa villa, oltre ai signori Gruber?»
«La madre del dottor Gruber, che ha quasi ottant’anni. E poi Maddalena, la governante. Invece Severino, l’autista, sta per conto suo. Da quando si è sposato va a dormire qui vicino, in via Mosè Bianchi.»
«Dov’è Maddalena?»
«Non lo so. Il giovedì pomeriggio è di riposo. Anch’io sto fuori il giovedì. Quando è suonato il telefono ero rientrata da pochi minuti.»
«Quanti?»
«Dieci, dodici. Forse un quarto d’ora.»
«Diciamo che sei tornata verso le sei e mezzo. Giusto?»
«Più o meno.»
«Dov’eri stata?»
«All’ospedale di Niguarda a trovare una mia zia che si è rotta un femore cadendo dalle scale.»
«È stata la vecchia signora Gruber a telefonarci, se non sbaglio.»
«Sì, io sono corsa da lei. Si è alzata e mi ha chiesto che cosa era successo. A me mancava il fiato, non... non sapevo risponderle, non trovavo le parole, piangevo. Le ho risposto di andare subito nello studio della signora Norma, e lei è salita piano, come se non avesse fretta, è salita e poi l’ho vista scendere. Ha chiamato la polizia dal telefono del soggiorno. Quando lei è arrivato ha voluto che fossi io a riceverla e ad accompagnarla su. Intanto, mi ha detto, avrebbe cercato il figlio in ufficio.»
«Era agitata? Ti è sembrata diversa dal solito?»
«No, non molto diversa. Era come sempre. Però credo che si sforzasse di stare calma. Aveva una faccia pallida, pallidissima.»
Al suono di un carillon la ragazza si alzò di scatto e, senza guardarlo, corse verso lo scalone, in fondo al corridoio. Prima di scendere si voltò:
«Hanno suonato alla porta» disse a voce alta.
Ebbe la sensazione che fuggisse.
Quella villa Gruber – così stava inciso su uno dei pilastri grigi dell’entrata – sarebbe piaciuta a suo padre, il giudice, che aveva ammirato a Torino – quando abitavano là e lui era ancora adolescente – la palazzina Scott in corso Giovanni Lanza. La considerava u...