Le nere ali del tempo
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Le nere ali del tempo

  1. 348 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le nere ali del tempo

Informazioni su questo libro

Will Bellman ha dieci anni e quattro giorni quando corre con gli amici a giocare nei campi vicino al fiume, dove i corvi scendono in picchiata in cerca di larve. «Scommetto che riesco a colpire quell'uccello» dice euforico, indicando il ramo più alto di una quercia lontanissima. Un'impresa decisamente fuori dalla sua portata. In un silenzio da rito mistico cerca la pietra più adatta, liscia e tondeggiante, carica la sua fionda perfetta, si prepara al lancio con i muscoli tesi e il cervello che calcola la direzione esatta. Will è un tiratore esperto, ha vista buona e mano ferma, si esercita molto. E così la pietra parte in volo, talmente lenta da far sperare che l'uccello nero riesca a volare via. Ma l'uccello non si muove e la pietra completa il suo arco. Il corvo stramazza a terra. Il mattino dopo Will si sveglia con la febbre altissima, e per una settimana suda e urla di dolore nel suo letto, tutte le forze di bambino tese in un'unica grande sfida: dimenticare quello che è accaduto al fiume. Molti anni dopo, Will Bellman è un uomo di successo, dirige il grande opificio di famiglia, ha una bella moglie e figli amatissimi. Improvvisamente, però, una serie di episodi sinistri comincia a distruggere tassello dopo tassello quella vita che ha così magnificamente costruito. Lutti e disgrazie si presentano con sempre maggior frequenza, come le apparizioni dello sconosciuto vestito di nero che sta all'ombra del camposanto. Un uomo che forse esiste o forse no, e che un giorno avvicina Will per proporgli uno strano affare: perché non aprire insieme un negozio nel pieno centro di Londra, il primo emporio del lutto, dove trovare tutto ciò che serve per affrontare le situazioni di cordoglio, dalla bara all'ombrello? Will accetta. Gli affari decollano, la fortuna sembra benedirlo di nuovo, e inizia quasi a credere che il passato possa essere finalmente dimenticato. Ma i corvi non hanno dimenticato…

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804631583
eBook ISBN
9788852054150

SECONDA PARTE

SOCRATE: Ora … in ciascuna anima raffiguriamoci una sorta di gabbia piena di uccelli svariati, alcuni che volano a frotte, separatamente da altri, alcuni in gruppetti poco numerosi,
e alcuni, da soli, in mezzo a tutti questi ove capita.
TEETETO: Raffiguriamoci pure questa cosa: e poi?
PLATONE, Teeteto

1

Alle undici meno cinque, Bellman entrò nella stanza della figlia e trovò la signora Lane pronta a uscire.
«Il gong?» chiese lei.
«Come vuole.»
Arrivata al piano di sotto andò in cucina dalla figlia Mary.
«Cos’è previsto oggi, mamma?»
«Quello che vogliamo.»
«E se scaricassimo la pistola fuori dalla finestra della cucina?»
La madre si accigliò. «Mary, non è per farti divertire. Che cosa abbiamo fatto ultimamente? Ieri le pentole e martedì il gong. E lunedì?»
«Il pianoforte?»
«Bellman non può aspettarsi che ci inventiamo sempre qualcosa di nuovo. Butterei i piatti da dessert giù per le scale, se servisse… Santo cielo, è ora!»
Si precipitarono nel salone e sollevarono il coperchio del pianoforte a coda. La signora Lane si sedette intristita dall’inutilità del gesto, la figlia tutta goduta al suo fianco. Sollevarono quattro mani, guardarono l’orologio e, allo scoccare delle undici, pestarono dieci dita sopra i tasti.
«Ecco fatto!» esclamò Mary soddisfatta. «Se non sente questo, non sente nulla!»
Al piano di sopra, orologio alla mano, Bellman era chino a scrutare il viso di Dora mentre le vibrazioni delle corde del pianoforte si riverberavano senza alcuna musicalità per tutta la casa.
Scrisse una sola parola sul taccuino. Impassibile.
«Pazienza» consigliò Sanderson quando Bellman gli mostrò le pagine del taccuino con i risultati dei test giornalieri. Il respiro di Dora era corto, lento e costante. Le pulsazioni deboli, lente e costanti. Non vedeva nulla, non sentiva nulla, trascorreva la maggior parte del tempo in quello che sembrava un sonno profondo e, quando apriva gli occhi, non vedeva molto più di un gattino appena nato. I capelli non stavano ricrescendo e ogni giorno la signora Lane o Mary le toglievano un altro po’ di ciglia cadute dalle guance bianche. Sospesa in un limbo, Dora non era morta, ma nemmeno viveva.
«È arrivata sull’orlo» diceva Sanderson. «Le sue condizioni sono stabili, dobbiamo esserne grati.»
Bellman aveva avuto il suo miracolo; era poco realistico aspettarsene un altro. La febbre aveva messo a ferro e fuoco la città e la famiglia di Bellman, per un soffio non aveva portato via Dora e, un attimo prima di rubarle la vita, si era ritratta. Dopo la devastazione Bellman non si chiedeva perché gli fosse stata concessa quella tregua. Si limitava a contemplarla, sbigottito.
Bellman passava tutto il tempo al capezzale della figlia senza mai andare all’opificio. Dopo sette giorni un ragazzino bussò alla porta con un messaggio. Andava tutto bene, ma il capocontabile doveva passare a ragguagliare il signor Bellman?
Quella sera, Mary fece accomodare Ned nello studio. Con lui c’era Crace. La stanza era fredda; il fuoco acceso da Mary non aveva ancora allontanato il gelo del mese in cui era stata vuota. Crace non era mai entrato in quella casa, Ned di rado. Rimasero in piedi, in silenzio, a guardare le assi del pavimento, gli angoli delle cornici sul soffitto e altre sciocchezze, ben provvisti di curiosità e di compassione. Aspettavano con una tale intensità che quando la porta si socchiuse e comparve Bellman, sobbalzarono. Forse non avevano tutti i torti perché era diverso, anche se non si trattava di un cambiamento esterno. Lo guardarono con occhi interdetti, come quando lo sguardo torna su un punto dove prima c’era una cosa che poi non c’è più.
Gli fecero le condoglianze di rito. Ned sapeva che le loro facce avrebbero detto il resto: che il dispiacere era soltanto una piccola parte di ciò che provavano, che in paese sapevano tutti cosa fosse la sofferenza ma pochi avevano sofferto quanto Bellman. Ciò che era accaduto in quella casa superava la misura… Ma Bellman sembrava non vederlo e a malapena sentirlo. Ned lanciò un’occhiata a Crace, che era perplesso quanto lui.
«Accomodatevi» disse Bellman con un gesto vago, e loro si sedettero. Lui girò la poltrona della scrivania verso la stanza come se intendesse sedersi, ma non lo fece. Aveva dimenticato di sedersi? Dovevano aspettare o cominciare?
Dopo un istante di silenzio, Ned si schiarì la gola. «Forse gradisce che le facciamo un resoconto del mese scorso.»
Bellman si portò una mano al mento non rasato sfregandosi la barba incolta. Lo presero come un invito e cominciarono. I fatti drammatici del paese avevano avuto delle ripercussioni sui dipendenti dell’opificio. Nonostante il disastro, più della metà degli ordinativi erano stati evasi come previsto. Per il resto, i buoni rapporti con i commercianti avevano reso possibile quasi in tutti i casi stabilire nuove date di consegna. Gli ordini annullati erano stati pochissimi. Tutto sommato le cose andavano meglio di quanto ci si potesse aspettare.
Bellman si calò stancamente sulla poltrona, ma non dava segno di ascoltare.
Ned rivolse un sopracciglio inarcato a Crace, che proseguì il racconto. «Per quanto riguarda gli aspetti tecnici e produttivi…» Fornì una descrizione succinta delle poche difficoltà sopraggiunte, spiegando i provvedimenti che aveva preso e motivando la sua linea di condotta.
Bellman si fissava le mani che teneva strette in grembo.
«Abbiamo tenuto un resoconto scritto che può consultare quando…»
Ned offrì il fascio di appunti e, vedendo che Bellman non accennava una sola mossa per prenderlo, si alzò e lo mise sulla scrivania. Crace, ansioso di porre fine all’imbarazzante riunione, si alzò insieme a lui.
«E Dora?» chiese Ned. Un altro tentativo di stabilire un contatto con l’uomo che considerava tanto un amico quanto il suo datore di lavoro. «Mi auguro che la sua salute stia migliorando.»
Allora Bellman lo guardò in faccia. La domanda aveva smosso qualcosa di oscuro nei suoi occhi, anche se non rispose.
Crace disse che lui e Ned potevano passare due volte alla settimana a riferirgli come andavano le cose. Bellman annuì con aria assente e i due si congedarono.
Tornando all’opificio pensarono alla tragedia che si erano lasciati alle spalle e al proprio dolore. Passarono davanti al Red Lion, dove Crace aveva festeggiato il suo matrimonio cinque mesi prima, e davanti alla chiesa dove aveva seppellito la moglie. Ciascuno dei due seguiva i propri pensieri, sapendo benissimo cosa pensava l’altro. Intravedendo il cancello dell’opificio e sapendo che di lì a poco non sarebbero stati più soli, Ned disse: «Non ti ha fatto le condoglianze».
Crace si strinse nelle spalle. «Le condoglianze servono a poco. Non le ha fatte nemmeno a te.»
«Mia madre era vecchia. Era arrivata la sua ora. Lo sapeva lei e lo sapevo io.» Ned non poteva scusarsi per Bellman, però poteva dire, e lo disse: «È un uomo distrutto».
Crace non modificò l’andatura e non alzò lo sguardo. «Siamo tutti distrutti, Ned» disse in tono cupo. E poi, con una contrazione della bocca per togliere asprezza alle parole: «Vieni. Alcuni possono permettersi di essere distrutti. Noi abbiamo l’affitto da pagare».
Le giornate di Bellman erano occupate dalle cure per la figlia. Sul comodino, insieme a balsami, oli e medicine, c’erano vari elenchi: l’andamento delle pulsazioni, la lunghezza dei respiri, la temperatura. Il padre divenne esperto nel confrontare le varie sfumature di pallore; osservava le guance in attesa che tornasse il colore come un marinaio osserva l’orizzonte aspettando un primo segno della terraferma. La temperatura era il suo cruccio: Dora sentiva troppo caldo? Troppo freddo? Era in mezzo alla corrente? Apriva e chiudeva le finestre, chiedeva altre coperte e poi le faceva mettere via. Mantelline, manopole e manicotti venivano aggiunti e poi sottratti all’invalida. Per tutto il giorno la signora Lane e Mary erano a disposizione, e Bellman delegava alcuni di quei compiti. La notte restava solo ad accudire sua figlia.
A mezzanotte, dopo averle contato un’ultima volta le pulsazioni e misurato la temperatura, Bellman si sedeva sulla poltrona nell’angolo della stanza di Dora assopendosi e sonnecchiando finché non cadeva in una profonda incoscienza. Nel cuore della notte la totalità del nero si ritraeva e lui veniva deposto su una spiaggia grigia sconosciuta, un luogo fra il sonno e la veglia. Lì idee strane e fantasiose si formavano nella mente, e al buio prendeva matita e taccuino girando qualche futura pagina bianca per annotare parole fluide e prolifiche. Erano appunti sensati? Sarebbero stati leggibili alla luce del giorno? Simili domande non avevano accesso alla sua testa, appartenevano a un altro regno: lontano, fuori luogo, estraneo. Poi la marea cambiava; già mezzo addormentato, metteva via il taccuino e scivolava nell’oblio. La mattina, svegliandosi, veniva subito reclamato dai grafici pieni di cifre, dalle prove da effettuare quel giorno, il tutto accompagnato dalla sensazione indefinita e irrilevante di avere sognato. E forse dal vaghissimo ricordo di quella notte al cimitero, talmente vago da sfuggire all’attenzione.
Per settimane Bellman cercò uno schema in quelle cifre. Sperava di intravedere una tendenza al rialzo, ma la sua precisione da contabile non si lasciava ingannare dalla pia illusione paterna: la media era stabile, di meglio non si poteva dire. E poi, un giovedì, ecco il cambiamento. Tutt’a un tratto le condizioni di Dora migliorarono. Bellman ebbe l’impressione che la mano, al tatto, sembrasse meno cerea, somigliasse di più alla pelle umana. Mary gli diede ragione. La signora Lane consigliò prudenza ma ammise che il pallore era un po’ diminuito.
Il giorno dopo Dora aprì gli occhi e, per la prima volta, riconobbe chiaramente il padre.
«Guardi» disse Bellman a Sanderson, mostrandogli il taccuino, «il polso è più forte e più regolare. Il respiro più profondo. Manda giù un po’ più di brodo. Sarebbe il caso di provare a darle qualcosa di più sostanzioso, non crede? Gira lo sguardo verso di me.»
Il dottore non poteva negare che ci fosse un cambiamento. Un miglioramento. La bambina era cosciente. Eppure ancora non riusciva a guardare la paziente senza un profondo disagio. Pallore, macilenza, perdita di tono muscolare, mutismo, alopecia, assenza di reazione ai rumori, al tatto, alla voce umana… Era un’enciclopedia di sintomi, c’era di che riempire un manuale: Dora poteva essere esibita nelle università. I motivi di preoccupazione non mancavano e il padre esultava su quelle sue tabelle e la governante si lamentava perché non c’era una spazzola capace di nascondere le chiazze rosa e lisce sul cranio della bambina. L’aspetto, anche se il medico non osava dirlo, era l’ultima delle sue preoccupazioni. La febbre aveva fatto più che rovinare la pelle della bambina e renderla calva. Il suo grande timore era che le avesse ridotto il cervello in cenere.
In paese la febbre aveva fatto il suo corso ed era defluita.
Tutti avevano perso qualcuno. Alcuni avevano perso tutti.
La gente ricordava. Piangeva e si struggeva. Nel frattempo, era contenta che i porri e il rabarbaro crescessero bene quell’anno, invidiava la cuffietta della cugina del vicino, gustava l’odore dell’arrosto di maiale che la domenica veniva dalla cucina. C’era chi coglieva la bellezza di una pallida luna sospesa dietro i rami degli olmi sul promontorio. Altri si divertivano a spettegolare.
Essendo noti a tutti in paese, Bellman e la sua tragedia erano al centro di parte di quei pettegolezzi. La lingua di Mary non era malintenzionata e parlava con chiunque avesse voglia di ascoltarla. Vicini, dipendenti, commercianti, tutti aggiungevano la loro a quella storia: Dora Bellman era uno scheletro. Stava a letto più morta che viva. Era cieca, era sorda, era muta. Il corpo viveva ma l’anima era morta. Le aveva dato di volta il cervello.
Il falegname che aveva reso più alto il letto dell’invalida per permetterle di guardare fuori dalla finestra disse che Dora se ne stava seduta sul letto con i capelli scuri ridotti a una lanugine spelacchiata.
“Non si capisce nemmeno che è una femmina. Uno spaventapasseri, ecco cos’è, un pupazzo per terrorizzare i bambini.”
E le aveva dato di volta il cervello?
No. Al falegname non sembrava. La ragazza che si occupava di lei gli aveva detto che non era vero.
E spettegolavano su Bellman. Sull’espressione accigliata e lo sguardo tetro; sulla mancanza della vecchia energia; nei rari casi in cui lo vedevano camminare lungo il corso, stava a testa bassa, altro che i cenni di saluto e le scappellate che un tempo dispensava a dritta e a manca.
Le tombe della famiglia Bellman erano trascurate, e Bellman non andava mai a messa.
“È troppo occupato con la figlia” diceva la gente, e per un certo tempo la trascuratezza di Bellman fu perdonata.
“Non si è ancora fatto vedere all’opificio?” volevano sapere.
No.
E nemmeno al Red Lion.
“Non fa altro che agitarsi intorno al suo spaventapasseri” concluse la gente del paese. Lo commiseravano per i lutti. Lo ammiravano per la devozione paterna. Ciò non toglie che era il signor Bellman dell’opificio. Era all’opificio che doveva stare. Non poteva mica andare avanti così. No?

2

A Dora non ricrebbero i capelli né tornarono le ciglia. Ma la carne ammorbidì i contorni delle ossa e una punta di colore si definì di giorno in giorno sulle guance. Il respiro si fece più profondo. Il polso più stabile. A un certo punto fu chiaro che gli occhi seguivano i movimenti con intelligenza e un bel giorno Mary rimase sbalordita sentendo la voce rauca di un vecchio chiedere acqua e miele: era Dora. Le diede un bacio e urlò a squarciagola il nome del signor Bellman.
«Sei tornata!»
Bellman si mise a piangere.
Per tre mesi Bellman non aveva pensato a nient’altro che alla figlia. A marzo aveva mollato le redini della sua vita per sostenere la vita di Dora. Adesso che la figlia era fuori pericolo e le sue condizioni di salute erano stabili, era il momento di tornare nel mondo.
Mary pulì la finestra dello studio e la lasciò aperta per arieggiare la stanza rimasta inutilizzata così a lungo. Portò il tappeto fuori per sbatterlo e passò la cera sui mobili. Lucidò il parafuoco d’ottone, sprimacciò...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le nere ali del tempo
  3. &
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. Fonti
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright