Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo
Cari fratelli,
nell’anno 2003 ho chiesto di dedicare la Missione Arcidiocesi alla cura della fragilità del nostro popolo, facendoci carico di essa dalla fragilità stessa di Gesù, il Dio Incarnato, che essendo forte si è reso debole, che essendo ricco si è fatto povero, che essendo grande si rese piccolo [cfr. Messale Romano]. In questo senso, in alcune comunità si sono realizzate azioni concrete: più preghiera, gesti di vicinanza, attività di solidarietà… In altri è ancora poco ciò che è stato fatto. Ma possiamo certamente dire che nell’Arcidiocesi si sta instaurando questa profonda preoccupazione pastorale.
Voler curare la fragilità del nostro popolo è un desiderio di magnanimità, che può risiedere soltanto nei cuori generosi e solidali, semplici e premurosi.
Perseverare in questo senso sarà il frutto della grazia dello Spirito Santo che ci spinge a essere vicino a tutta la mancanza e il dolore e ci sostiene nella perseveranza.
Viviamo gravi situazioni che dissuadono e spesso ci portano allo scoraggiamento. Su di loro abbiamo riflettuto in ogni comunità, assicurando che ci tocchino il cuore. Per coloro che non hanno fatto il percorso predisposto dal Consiglio Pastorale dell’Arcidiocesi vi chiedo per favore che lo facciate in quest’anno così da metterci tutti in sintonia con questa apertura dell’anima, per farci carico della fragilità del nostro popolo. Faremo bene a percorrere dall’interno queste debolezze: per esempio, quelle che toccano la vita della fede (quanti ragazzi non sanno come pregare, quanti giovani senza orizzonti!), la vita familiare (la mancanza di dialogo, gli anziani abbandonati…), la vita sociale (disoccupazione, fame, ingiustizia).
Di fronte al dolore e alla delusione, i cristiani sono chiamati alla speranza. Non come ricerca di illusione fantasiosa, ma con la fiducia del discepolo e dell’apostolo che «la speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Questa speranza è l’àncora che è fissata nei Cieli e a cui ci aggrappiamo per continuare a camminare. Lo stesso Gesù viene al nostro incontro, per ripeterci con calma e fermezza: «Non temete» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). «Andate dunque e ammaestrate» (Mt 28,19). Andare ad annunciare, essere vicino a chi soffre la fragilità, essendo tu stesso fragile, è possibile solamente confidando in questa promessa del Signore Risorto: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20). E poiché non siamo supereroi, né combattenti valorosi che si vantano ciecamente delle proprie forze, agiamo con l’audacia propria dei discepoli di Gesù, membri della sua famiglia. Audacia di fratelli del Signore.
Quest’anno vi chiedo di lavorare con questa audacia, con intenso fervore apostolico. Nel farci carico della fragilità, nostra e del nostro popolo, vogliamo camminare con audacia. Questo atteggiamento che suscitava lo Spirito Santo negli Apostoli e che li portava ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, coraggio, parlare liberamente, fervore apostolico… tutto questo è compreso nel vocabolo «parresia», parola con la quale san Paolo vuol dire «la libertà e il coraggio di una esistenza, che è aperta in se stessa, perché è disponibile per Dio e per il prossimo». Paolo VI citava tra gli ostacoli all’evangelizzazione proprio la carenza di parresia: «La mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella negligenza e soprattutto nella mancanza di gioia e di speranza» (Evangelii Nuntiandi 80). Giovanni Paolo II ci parla di ardore, zelo apostolico, coraggio, slancio missionario [cfr. Redemptoris Missio 30,67,91]. E ricordiamo i discepoli di Emmaus nel loro incontro con il Signore Risorto: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?» (Lc 24,32). Convinzione nell’opera dello Spirito e ardore che germoglia dall’incontro con il Cristo vivente. Convinzione e ardore che sono necessari in noi, i discepoli, sia per prenderci cura delle fragilità che per annunciare Cristo Risorto.
Spesso sentiamo la fatica e la stanchezza. Ci tenta lo spirito di accidia, della pigrizia. Guardiamo anche tutto quello che c’è da fare, e quanto pochi siamo. Come gli Apostoli, diciamo al Signore: «Che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9), chi siamo noi per proteggere tanta fragilità? E proprio qui si trova la nostra forza: nella fiducia umile di chi ama e sa di essere amato e curato dal Padre, nella fiducia umile di chi si sa scelto gratuitamente e inviato. L’esperienza di san Paolo fu portare un tesoro nel vaso di creta [cfr. 2 Cor 4,7], e trasmetterlo a tutti noi. È lo sguardo su se stesso e agli altri. Non ha paura di guardare il vaso di creta proprio perché il tesoro che è dentro è fondato in Gesù Cristo, e da Lui gli vengono il coraggio, l’audacia, il fervore apostolico.
Quante volte ci sentiamo tirati a rimanere nella comodità della riva! Ma il Signore ci chiama per navigare al largo e gettare le reti in acque più profonde [cfr. Lc 5,4]. Egli ci chiama ad annunciarlo con audacia e zelo apostolico, a trascorrere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui siamo incoraggiati a seguirlo da vicino, ognuno di noi mettendo i nostri carismi al servizio della comunità nella Chiesa Arcidiocesana. Lo faremo utilizzando diversi strumenti pastorali armonizzati dal nostro Piano Pastorale che termina in una nuova fase, alla fine di questo anno, con le azioni proposte per il triennio 2002-2004. Nel Consiglio Episcopale abbiamo visto la convenienza di realizzare un’Assemblea Diocesana nel 2005, che ci permetta di crescere nel senso di partecipazione ecclesiale e partecipazione nella ridefinizione del nostro Piano Pastorale, tenendo in conto le linee guida del «Navigare al largo». Ho chiesto al Consiglio Pastorale dell’Arcidiocesi di sviluppare un cammino di preparazione per questa Assemblea.
Vorrei concludere esortandovi, ancora una volta, al fervore apostolico con le parole di Paolo VI:
Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Evangelii Nuntiandi 80).
Chiedo al Signore che tutti noi ci sentiamo premiati dal suo amore [cfr. 2 Cor 5,14] e possiamo dire con san Paolo: «Guai a me se non evangelizzo!» (1 Cor 9,16). La Madre del Signore, che ha sperimentato la particolare fatica del cuore [cfr. Redemptoris Mater 17], ci accompagni e ci sostenga nelle fatiche quotidiane e ci ottenga la grazia dell’audacia evangelizzatrice e lo zelo apostolico.
Vi chiedo, per favore, che preghiate per me. Con affetto fraterno.
Mercoledì delle Ceneri, messaggio ai sacerdoti,
ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici dell’Arcidiocesi
Buenos Aires, 25 febbraio
Il cammino del popolo di Dio si ferma questa notte davanti a un sepolcro, un sepolcro vuoto. Il corpo di Gesù, il Figlio della promessa, già non era lì; solamente si vedevano le bende che lo avevano avvolto. La marcia di tutto un popolo si ferma oggi, come allora l’aveva fatto di fronte alla roccia nel deserto [cfr. Es 17,6] o alle sponde del mare, la notte di Pasqua, quando gli Israeliti «ebbero grande paura e gridarono al Signore» (Es 14,10) e furiosi rimproverarono a Mosè: «Non c’erano sepolcri in Egitto, perché ci hai portati a morire nel deserto?» (Es 14,11). Questa notte non c’è il panico, ma lo sconcerto [Lc 24,4] e il timore [v. 5] di queste donne di fronte all’incomprensibile: il Figlio della promessa non era lì. Quando tornano e raccontano tutto agli Apostoli [v. 10], «a quelli parve che vaneggiavano e non credettero a esse» (v. 11). Smarrimento, paura e apparenza di delirio: sentimenti che sono un sepolcro e lì per secoli si ferma il progresso di un popolo. Lo smarrimento disorienta, la paura paralizza, l’apparenza di delirio suggerisce fantasie.
Le donne «non hanno il coraggio di alzare lo sguardo dal suolo» (v. 5). Confusione e paura che chiudono lo sguardo al Cielo; smarrimento e paura senza orizzonte, che torce la speranza. Reagiscono sorprese di fronte al rimprovero: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (v. 5), ma ancor più si sorprendono con la parola profetica «Ricordatevi» (v. 6) e «le donne ricordano» (v. 8), e nel loro cuore si riflette quello che stava accadendo al di fuori: i primi albori del giorno fanno svanire le tenebre del dubbio, della paura e dello smarrimento… e corrono e annunciano quello che hanno sentito: «Non è qui, è risuscitato» (v. 6).
Il ricordo le ricolloca nella realtà. Recuperano la memoria e la coscienza di essere il popolo eletto, ricordano le promesse, si riaffermano nell’alleanza e si sentono nuovamente elette. Allora nasce nel cuore questo forte impeto, che è dello Spirito Santo, per andare a evangelizzare, ad annunciare la grande Novella. L’intera storia della salvazione torna a mettersi in cammino. Torna a ripetersi il miracolo di quella notte nel Mar Rosso. «E il Signore disse a Mosè: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti che riprendano il cammino”» (Es 14,15). E il popolo continuò il suo cammino, come le donne correvano perché avevano ricordato le promesse del Signore.
A tutti noi è successo alcune volte, come persone e come popolo, di sentirci prigionieri nel cammino, senza sapere quali passi compiere. In quei momenti sembra che i confini della vita si chiudano, dubitiamo delle promesse e un positivismo grossolano si pone come chiave interpretativa della situazione. Allora domina nella nostra coscienza la confusione e la paura; la realtà si impone chiusa, senza speranza, e non vediamo l’ora di tornare sui nostri passi fino alla stessa schiavitù dalla quale siamo usciti, arrivando perfino a rimproverare il Signore che ci ha messo sulla strada della libertà: «Glielo dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto» (Es 14,12). In queste situazioni, come sulle rive del Mar Rosso e di fronte al sepolcro la risposta è: «Non temete» (Es 14,13). «Ricordate» (Lc 24,6).
Ricordare la promessa ma, soprattutto, ricordare la propria storia. Ricordare le meraviglie che il Signore ci ha fatto per tutta la vita. «Fai attenzione e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore» (Dt 4,9); quando è soddisfatto, «guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Dt 6,12); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto… per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. … Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni» (Dt 8,2-4); «Richiamate alla memoria quei primi giorni» (Eb 10,32); «Ricordati che Gesù Cristo (della stirpe di Davide), è risuscitato dai morti» (2 Tm 2,8). Così ci esorta la Parola di Dio a rileggere continuamente la nostra storia di salvezza al fine di continuare a seguirla. Il ricordo del cammino percorso per la grazia di Dio è forza e fondamento dell’esperienza per continuare a camminare. Non lasciamo che la memoria della nostra salvezza si atrofizzi per la confusione e la paura che ci possa sopraggiungere di fronte a qualche sepolcro che pretenda di impadronirsi della nostra speranza. Lasciamo sempre spazio alla Parola del Signore, come le donne al sepolcro: «Ricordate». Nei momenti di maggiore oscurità e paralisi urge recuperare questa dimensione deuteronomica dell’esistenza.
In questa notte santa voglio chiedere alla santissima Vergine di concederci la grazia della memoria di tutte le meraviglie che il Signore ha fatto nella nostra vita, e che la memoria ci scuota, ci dia l’impulso di continuare a camminare nella nostra vita cristiana, nell’annuncio che non c’è da cercare tra i morti colui che è vivo, nell’annuncio che Gesù, il Figlio della promessa, è l’Agnello pasquale ed è risuscitato. Che Lei ci insegni a dirci lentamente, con la certezza di chi sa di essere condotto per tutta la vita, ciò che Lei stessa sicuramente si ripeteva questa mattina in attesa del suo Figlio: «Io so che il mio Redentore è vivo» (Gb 19,25).
Vigilia di Pasqua, omelia,
Buenos Aires, 10 aprile
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato
a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’Anno di Grazia del Signore.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di Lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua Parola aveva autorità.
I
In questi ultimi giorni del tempo pasquale, alla vigilia della venuta dello Spirito Santo, ci riuniamo per ritornare alle fonti del Maggio degli argentini. Torniamo al nucleo storico delle nostre origini, non per provare nostalgia formale, ma cercando la traccia della speranza. Ricordiamo il cammino percorso per aprire spazi al futuro. Come la nostra fede ci insegna: dalla memoria della pienezza è possibile vedere i nuovi cammini. Dal passo fondante di Dio e della sua convincente grazia salvifica nella nostra storia è possibile ricominciare, ispirarsi, rafforzarsi, proiettarsi. La vigilia di Pentecoste, tempo dello Spirito, raccoglie i malconci credenti di oggi, non meno che i fragili e scossi Apostoli di allora, per ricominciare. La fragilità della barca non deve causare paure né pregiudizi, l’immensità del mare della vita e della storia è levigato dal vento, quel soffio di Dio che dal primo giorno ci ha guidato e condotto. Una vera, misteriosa e incrollabile fiducia ha portato noi argentini a riunirci, molte volte nel corso della nostra storia, in questo maggio soleggiato, come in quell’anno 1810, alla ricerca del vento che ci conducesse nella giusta direzione.
II
Anche quei fedeli che ascoltavano Gesù nella sua città natale Nazaret erano pieni di speranza. Avevano rispetto e ammirazione per l’autorità che emanava la sua persona e le sue parole sembravano muovere un’aria rinnovatrice nell’anima del popolo. La proposta di quel giovane rabbino e...