
- 176 pagine
- Italian
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Il circolo di Granada
Informazioni su questo libro
C'è una terra, tra Granada e Murcia, nel cuore rovente dell'Andalusia, in cui la campagna è arida e vuota: è la "Terra Salata", percorsa da quei viandanti che preferivano sfidare la ferocia del sole e del vento carico di sabbia africana piuttosto che affrontare il rischio di imbattersi nei briganti sulla strada più agevole.
Per la via del deserto si incammina il merciaio Homero Luís, diretto al mercato di Murcia. Anche Mariana Lopez deve arrivare a Murcia, dove spera di sposarsi per dare una svolta al suo passato di piaceri e amarezze. Due esistenze solitarie e diversamente ferite, che si scontrano e si attraggono. Una storia di tenerezza e violenza, d'amore e morte letteralmente capace di varcare i secoli.
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Informazioni
Print ISBN
9788804525943eBook ISBN
9788852052521Luigi Malerba
IL CIRCOLO
DI GRANADA

Il Circolo di Granada
Nell’aprile del 1998 sono stato invitato dall’Università di Murcia a tenere un dialogo con gli studenti e il giorno seguente a incontrare un pubblico di lettori nella sede della banca Caja Murcia che sponsorizzava l’iniziativa di alcuni incontri e relazioni sulla “Literatura italiana hoy”. La notizia di antiche magie e leggende legate alla città di Murcia, oltre all’ottima fama della sua Università, mi resero doppiamente gradevole l’invito.
Esaurita la prima giornata del programma in un espansivo incontro con gli studenti nell’aula magna dell’Università, fummo invitati a cena, mia moglie e io, dal mio eloquente presentatore e angelo custode Pedro Luís Ladron de Guevara e da due giovani romanisti nella antica trattoria della Paloma Blanca. Venni poi a sapere dall’oste Fernando Baena che la cena era una specie di rito iniziatico che vari scrittori ospiti non erano riusciti a superare. La quantità di peperoncino piccante sparso sulla “paella valenciana” era infatti al limite del fuoco anche per noi che pure amiamo i cibi piccanti. Alla fine fummo graziosamente promossi.
La mattina del secondo giorno sono arrivato sotto violenti scrosci di pioggia nella sala della Caja Murcia dove era previsto l’incontro con il pubblico. Sapevo che la regione intorno a Murcia soffre di una endemica siccità e, nonostante il rammarico cerimonioso dei miei accompagnatori che si mostravano dispiaciuti per il cattivo tempo, ho improvvisato un breve elogio della pioggia. Le mie parole vennero accolte con un applauso che dissipò l’impaccio che mi prende ogni volta che devo parlare in pubblico.
L’invito a Murcia comprendeva una visita d’obbligo al secentesco presepio di Salzillo ma ci portò anche, a sorpresa, a dialogare di nuovo con l’anziano oste Fernando Baena, proprietario della trattoria la Paloma Blanca, che viene ormai nominata come Paloma de Hierro a causa dell’insegna tutta arrugginita che il proprietario preferisce non ridipingere per “rispetto dell’antichità”. L’anziano oste aveva chiesto all’italianista e amico Pedro Luís di incontrarmi ancora, dopo la cena al peperoncino, perché desiderava raccontarmi una storia che sicuramente mi sarebbe piaciuta. Ospite in terra cavalleresca, mi sobbarcai con volonterosa gentilezza all’ascolto di una storia “vera ma incredibile”, come volle precisare l’oste prima di cominciare il suo racconto.
Quattro anni prima lui stesso era stato testimone del drammatico epilogo di quella vicenda. L’oste aveva infatti raccolto la testimonianza di un merciaio ambulante proveniente da Granada e arrivato all’alba nella sua locanda con un coltello piantato fino al manico nel fianco destro. Se non gli credevo mi disse che avrei potuto recarmi all’Hospital Antiguo San Juan de Diós di Murcia dove sicuramente conservavano in archivio i documenti relativi al ricovero e alla morte del merciaio Homero Luís Molina.
Per quanto riguardava l’inizio del suo racconto l’oste trasse da un armadio un fascio di vecchi giornali che parlavano del furto favoloso avvenuto un secolo prima nel Circolo di Granada. Sulla siccità e la presenza di banditi nelle campagne fra Murcia e Granada, nominate ancora oggi Terra Salata, ho trovato una conferma, oltre che sui giornali dell’epoca, nella anonima “Reseña fisica y geologica de la Provincia de Granada” stampata a Madrid nel 1881, e brevi cenni anche nella “Guia práctica y artistica de Murcia” di León Seco de Lucena stampata a Murcia nel 1906.
Il soggiorno a Murcia ci immerse in una incongrua sensazione di déjà vu: ci capitava di riconoscere le strade, i palazzi, perfino le vetrine dei negozi che evocavano una Murcia-fantasma come se già fosse messo in conto un nostro precedente passaggio in quella città dove in realtà ci trovavamo per la prima volta. Alle orecchie ci giungeva a tratti un’aura confidenziale piena di parole dal suono soffice, ma incomprensibili (forse arabo?) e perciò fonte di una sottile inquietudine che durò per tutti i giorni e le notti della nostra permanenza in quella regione della Spagna.
Esauriti gli impegni letterari e turistici ho voluto attraversare, con un pullman che faceva servizio da Murcia a Granada, quelle campagne non più bruciate dalla siccità come nel racconto di Fernando Baena, ma nemmeno tanto verdi (è questa la zona più siccitosa di tutta l’Europa) e disseminate di “cuevas”, grotte scavate nel tufo, un tempo abitate dai pastori e dalle greggi e oggi rifugio di vagabondi. Per un tratto, osservando quel paesaggio antico, avevo perso di nuovo ogni cognizione del tempo. Nessuna meraviglia per gli insidiosi pensieri regressivi dal momento che per tutto il viaggio il mio interesse si era proiettato, al di là del cristallo sigillato del pullman, su quel paesaggio così arido e primitivo. Ma no, quel pullman con l’aria condizionata mi ancorava al presente in modo inequivocabile. Per la seconda volta durante quel breve soggiorno spagnolo ho dovuto dunque difendermi dalle sottili inquietudini che con un po’ di ironia potrei definire “metafisiche”.
Ho voluto ricordare quei due smarrimenti temporali perché in qualche modo somigliavano alla stranezza del racconto di Fernando Baena e aggiungevano un nuovo turbamento al mio rapporto con quella città e quella terra povera e suggestiva, nominata goffamente come “El culo de España”.
A Granada ho potuto vedere sul Calle de los Reyes Católicos il palazzetto in stile plateresco a suo tempo sede dell’antico Circolo di Granada dove ha inizio la nostra storia, oggi proprietà e sede di una Compagnia di Assicurazioni. Purtroppo lo splendido piccolo palazzo era in restauro, e l’ingresso rigorosamente vietato agli estranei.
Prima di morire, mentre aspettava l’ambulanza che lo avrebbe portato all’ospedale in fin di vita, il merciaio aveva raccontato all’oste brani della tragedia che si era consumata nella Terra Salata, e l’oste mi ha riferito quei fatti con tutti i particolari che poi ho utilizzato nel mio racconto insieme alle cronache dei giornali di Granada.
Ripercorrere quella vicenda anche sulle cronache dei giornali – soprattutto “La prensa del día” e un giornaletto settimanale intitolato “El microscopio de Granada” – è stato il compito non facile che si è assegnato l’autore di questo racconto. Quando le cronache dei due giornali, per quanto diffuse nella descrizione dei fatti e nelle supposizioni, lasciavano lacune troppo vaste, l’autore ha fatto ancora ricorso, per completare il racconto, alla memoria dell’oste Fernando Baena che conservava, forse meglio dei giornali, il ricordo di un evento che conteneva nel suo epilogo drammatico un elemento di tale meraviglia da pretendere uno spazio duraturo nel suo Magazzino della Memoria.
Pur sapendo che i particolari vengono comunque deformati con il passare del tempo, l’autore di questa storia, realistica e fantastica nello stesso tempo, è convinto che la sostanza dei fatti, e il mistero che contengono nella loro tragica conclusione, abbiano avuto per sua mano un resoconto massimamente fedele, per quanto sia difficile con le parole aderire ai fatti sempre incerti della cosiddetta realtà.
Come io ho ascoltato il racconto dell’oste della Paloma de Hierro, alla fine indotto a credere a un fatto “incredibile”, così spero che il lettore darà alle pagine che seguono lo stesso credito che io ho dato alle parole dell’oste.
Si dice “sale della terra” per definire qualcosa di prezioso, un beneficio del Cielo a vantaggio e gloria degli umani. Che espressione bugiarda e quale inganno in così brevi parole. Addirittura alla fine di un assedio, dopo avere distrutta una città, il vincitore come una maledizione spargeva il sale sulle rovine perché mai più quella città risorgesse. Non c’è espressione più ambigua, soprattutto da queste parti, in questa terra arida e sassosa di colline e sierre desolate che si stendono fra Murcia e la nobile Granada. Due città che conservano ancora, dopo tanti secoli, numerose presenze arabesche.
Pare che la terra e le rocce di colore rossastro di cui sono composte le colline a ovest di Murcia, scaturite da furiosi rivolgimenti dei fondi marini e portate in superficie in epoche primordiali, siano rimaste impregnate di sale e perciò negate a qualsiasi genere di vegetazione. Questo è il sale della terra, come dire la maledizione della terra.
L’Alhambra di Granada è il più grande complesso arabo di tutta la Spagna (le guide dicono il più grande del mondo) e il meglio conservato. Si possono ancora ammirare le cupole traforate per lasciare passare luce e aria, e le stanze arieggiate da finestre e finestrette orientate nelle quattro direzioni.
Sono ancora gli Arabi che hanno disegnato a zig zag le strade interne di Murcia affinché i passanti, qualunque fosse il loro percorso, potessero godere di qualche tratto all’ombra. Tante altre sono le maniere per difendersi dal caldo dettate dal genio arabo. A Murcia nelle estati torride (ma tutte le estati sono torride in questa città) vengono stesi tra le finestre alte, da una casa all’altra, i “toldos”, vasti teli di canapa che fanno ombra sulla strada e impediscono al sole di arroventare i candidi selciati di pietra calcare.
Nonostante il sale che inaridisce tutta la zona collinosa per un centinaio di miglia da Murcia verso Granada, qualche quercetta striminzita e rari cespugli di ginepro e di biancospino selvatico, nati forse da semi portati dagli uccelli, erano riusciti a vegetare faticosamente nel corso degli anni. Nel dicembre del 1875, dopo un anno di turbolenta esperienza repubblicana, venne restaurata la monarchia con Alfonso XII sul trono. La fama di iettatore fece attribuire al nuovo sovrano l’arrivo di una drammatica siccità, quattro anni di secco totale senza una goccia di pioggia in tutta la regione. Dopo quei quattro anni non si trovava più nemmeno un filo d’erba nelle colline nominate come Terra Salata ed erano morti o scappati da lì perfino i serpenti, le lucertole e gli scarafacci. I quali scarafacci sono gli esseri più antichi e resistenti di tutto il regno animale e già popolavano il nostro pianeta molto prima dell’uomo, forse addirittura prima della Creazione, perché ci è difficile credere che Dio abbia perso tempo per diffondere questi squallidi e inutili insetti. Dunque anche loro sono scappati dalla Terra Salata, bruciata e inaridita dal sale e dalla siccità.
Una larga fascia di terra lungo il fiume Guadalentín un tempo era coltivata a olivi e, più vicino all’acqua, vi crescevano fagioli, cavoli, grano, orzo, veccia e cicerchia. Con la cicerchia e la veccia si faceva un pane nero e duro come la pietra delle colline: nelle annate cattive battute dal vento Solano, secco, turbinoso e carico di polvere africana, l’orzo e il grano cadevano a terra e il raccolto andava perduto mentre la veccia e la cicerchia resistevano e salvavano le popolazioni dalla fame.
Dopo quei quattro anni di siccità biblica non si coltivavano più né l’orzo né la cicerchia e di cavoli o fagioli non si parlava nemmeno. Gli ulivi erano ancora vivi ma producevano solo piccole bacche rinsecchite dalle quali si spremevano misere quantità di olio acido. Nel terreno argilloso si erano aperte crepe profonde e l’erba che cresceva lungo il fiume non bastava per sfamare le pecore e le capre che fornivano lana e latte per la sopravvivenza. Così i contadini si erano indebitati con gli strozzini di Granada calati qui come avvoltoi, e alla fine avevano abbandonato le loro case e i loro campi ed erano emigrati nelle città in cerca di un lavoro.
Le case abbandonate erano state occupate gran parte da banditi che, partendo da quei loro comodi rifugi, aggredivano e derubavano i viaggiatori sulla strada che correva nella valle lungo il fiume e metteva in comunicazione Murcia con Granada. Un tempo la strada era percorsa dai carri agricoli che trasportavano i prodotti della campagna, ma durante gli anni della siccità era quasi sempre deserta salvo il traffico dei mercanti che facevano commercio di seterie, manufatti di cuoio, tappeti e ceramiche fra Granada e Murcia. Da qui, per mezzo del vicino porto di Cartagena, si comunicava e commerciava con tutti i porti del Mediterraneo.
A causa del brigantaggio alcuni mercanti diretti a Murcia preferivano lasciare la strada lungo il fiume e prendere la vecchia carrareccia che attraversava la zona collinare e desertica della Terra Salata. Un viaggio molto faticoso, senza l’ombra di un albero, senza una fonte per bere un sorso d’acqua o per rinfrescarsi la faccia, senza un riparo dal sole e dalle improvvise ventate africane di aria rovente che portavano nuvole di polvere rossa. Ma la zona alta della Terra Salata in compenso non era infestata dai banditi, che qui non avevano punti di appoggio per i loro agguati. Qualche incursione se la potevano permettere solo i banditi che possedevano un cavallo, ma di solito agivano i...
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