Hanno collaborato: Chiara Valerio, Annalena Benini, Filippo Bologna, Stefano Adami, Francesco Longo, Paola Soriga, Massimo Palma, Giulio Silvano, Fabio Stassi, Gabriele Di Fronzo, Ivan Carozzi, Rosella Postorino, Manuel Micaletto, Maria Borio, Maria Pia Quintavalla, Caterina Di Paolo, Natan Mondin, Stefano Talone, Alessandro Giovannelli, Andrea Minuz, Fabio Severo, Luca Alvino, Carola Susani.
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Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere vada innanzitutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c’era in precedenza, occorre sempre togliere: solo comportandosi così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre.
2.
Mi capitano quelli che amarono a tal punto il proprio cane che anche ora che è morto desiderano continui a fargli compagnia in salotto, chi per avere di che conversare con gli ospiti pensa bene di attaccare al muro dell’ingresso una testa di cervo, quello cui piace mostrare un diorama con due polli beccanti affianco all’appendiabiti e chi l’appendiabiti lo vuole con zampe di capriolo al posto dei consueti ganci di legno.
Ci sono poi coloro che sono disposti a spendere una gran cifra per tappeti di ghepardo su cui sdraiarsi, magari con affianco un portacenere ricavato da uno zoccolo di bufalo, e anche chi vuole sposarsi con farfalle come segnaposto e chi invece di farfalle me ne commissiona un centinaio per usarle come bomboniere.
Più spesso però i miei clienti sono i grossi centri commerciali e gli alberghi che intendano modificare la sala d’entrata o un particolare settore dell’edificio, aggiungendoci una voliera di esemplari impagliati o un paio di tigri a dare un tocco esotico al reparto delle calzature, o più spesso ancora, diciamo una volta su tre, i miei committenti sono i musei di storia o di scienze naturali, le collezioni pubbliche di istituzioni locali o nazionali che vogliano aggiungere al loro catalogo questo o quell’altro animale.
3.
Mi chiamo Francesco Colloneve e di mestiere sono un tassidermista, le ragioni per cui imbalsamo animali sono le ragioni che le persone che a me si rivolgono hanno per domandarmi di farlo, sono dieci anni che lavoro tenendo dietro ai motivi dei miei clienti, ma è altrettanto certo che a parer mio faccia più compagnia un cane bell’e morto e adesso impagliato, invece di una tartaruga che pure tuttora sia viva e vegeta.
4.
Per darmi l’esempio iniziai con un gatto, lo tenni in braccio per un’ora prima di iniziare a lavorarci su, lo tenni in braccio come a volergli bene, lo stavo assicurando a me e a quel che di suo era ancora ricettivo, la minuta corporatura e il fatto che fosse morto dopo appena pochi mesi di vita costituivano un potenziale aggravio in caso di errore, un conto è perdersi nelle misure di uno stambecco un altro è difettare anche di un solo centimetro nell’imbastire l’espressione di un gatto poco più che neonato: più piccolo è il campo da gioco più grande è la probabilità di insuccesso, più è giovane l’animale e più vergognoso lo sgarro.
Il gatto era rimasto intossicato per aver leccato una lumaca, un groppo di resti di cibo si era impigliato senza fluire in basso per essere digerito, le mucose pallide e una sete enorme, il veleno l’aveva prima impedito ad alimentarsi poi sciancato nei movimenti e infine ucciso.
Me lo portò un amico che sapeva di cosa all’epoca mi stessi iniziando a interessare, ne notai subito il naso rossastro e gli occhi giallobruni che staccavano sul pelo bianchissimo, gli fui molto grato perché permise il mio esordio, e a guardarci adesso, se allora non mi fosse quasi piovuto tra le mani quel suo gatto, non sono così certo che la mia carriera di tassidermista non si sarebbe potuta arrestare alla semplice teoria.
Tamponati con del cotone le narici, la bocca e l’ano, ne incisi con un bisturi la pelle bianca del ventre, da appena sotto lo sterno in giù, senza mai accelerare, sentivo le mie anche che tremavano in parte per l’emozione della prima volta, in parte perché avevo letto che se avessi inflitto una pressione appena maggiore al consentito, la carne del gatto ne sarebbe stata rovinata, c’andai quindi progressivamente sempre più piano e subito mollai il bisturi, quasi me lo feci cadere dalla mano, quando mi convinsi di aver finito.
Dopo mi dedicai a snudarlo, lo spelai con le unghie e con la spatola, a tratti con vigore, lontano dagli arti soprattutto, quando pareva che la pelle si stesse allentando dal corpo, a tratti con lentezza estenuata, come nei paraggi del bacino, spogliai poi la coda come stessi rivoltando il dito di un guanto di lattice che si usa per lavare i piatti, e in seguito, sull’animale completamente denudato, sparsi una modesta quantità di cenere per asciugare le carni dal sangue.
L’avrei preparato in posizione raccolta, la bocca appena schiusa, gli incisivi e i canini si vedevano poco, il paio di orecchie tenuto a riposo, e soprattutto nessuna palla o gomitolo di lana nei paraggi a inscenare un gioco che avrei trovato lugubre.
Ancora adesso non mi sono avvezzato per niente a togliere il cervello dal cranio degli esemplari che mi sono commissionati, tra tutte è la cosa che mi disturba di più, mi accorgo di corrugare il naso le volte che mi capiti di farlo, e fu a partire da quel gatto, sin da quando per la prima volta intrusi un sottile bastoncino nella sua cavità occipitale, che spero che il timore nel fare ciò prima o dopo declini fino ad andarsene del tutto.
5.
Non conosco una persona consacrata agli animali come me.
Per ciascuno di loro a forza di unghie saggio la resistenza della pelliccia, e di conseguenza opto per l’arnese che dovrò usare, il coltellino a lama panciuta, le forbici curve, la pinza, scelgo il vigore cui lo sottoporrò, e di qualunque strumento mi servirò per incidere occorrerà star fermo come un sarto che stia prendendo le misure per confezionare un paio di pantaloni, anche se nel mio caso il diretto interessato non salterebbe né si metterebbe a urlare neppure se tutti gli spilli gli finissero nella pelle.
Dagli scalpellini anatomici ai raschiatoi, l’equipaggiamento del tassidermista si compone di decine e decine di strumenti, indispensabili perché un lavoro possa dirsi ben eseguito.
La filiera organizzativa, riducendola al corredo, la so a memoria: coltellini a lama retta e coltellini a lama panciuta, coltelli anatomici se la grossezza dell’animale è maggiore, forbici a lame rette e forbici a lame curve, pinze a estremità taglienti per scarnificare le ossa e pinze a pressione robuste, pinze a presa dolce per impostare le piume e pinze lunghe a medicazione, tenaglie per modellare il fil di ferro, il fil di ferro appunto per la montatura, tenaglie per attorcigliarlo e tenaglie con cui troncarlo, le aste usate per procedere all’imbottitura, i vuotacarni, le lime, le raspe, i trapani, i martelli, gli spilli e gli aghi per cucire le pelli, pennelli di crine per applicare la pomata arsenicale e pennelli morbidi per lisciare.
Uso perlopiù le stesse cose che si usavano cento anni fa per fare la stessa cosa, la tecnologia non mi è venuta incontro e io non l’ho cercata, preferisco i succhielli, i raschiatoi o mettere il fil di ferro sul fuoco per mallearlo al meglio, il contribuito maggiore che l’high-tech ha portato al mio lavoro mentre incido, scavo, svuoto, pulisco, cucio, riempio, allestisco e via così cantilenando, sono le cuffie con cui ascolto la musica.
6.
Il mio lavoro, facile capirlo, ha a che fare con la parte viva dei morti.
7.
L’ultima volta che ero passato a trovarlo gli avevo disposto un telefono alla parete, affianco alla finestra del suo letto, un telefono che non ha rubrica, né messaggeria, né segreteria, giusto dieci grandi tasti che vanno dall’uno allo zero, e il vivavoce con il volume regolabile, e l’indicatore luminoso che si attivava a ogni chiamata.
Quando sono andato ad acquistarlo il commesso mi disse, come se la cosa potesse interessarmi, di non avere altri colori disponibili a parte quello titanio, m’indicò un tasto che avrebbe consentito la ripetizione dell’ultimo numero chiamato, e sul cartoncino dove di solito si scrive il proprio recapito di casa, appuntai il mio numero di cellulare.
Ha anche quattro tasti che consentono la selezione diretta, a ciascuno di questi corrisponde un numero di telefono, per alleggerire il carico della memoria dell’anziano, per accelerare la telefonata in caso di emergenza, per arrivare prima a soccorrerlo, Uno è il mio numero, gli dissi, e mio padre lo guardava, spremuto lì, come a dirmi, indicando i pulsanti del telefono appiccicato al muro, Cosa ne faccio degli altri tre?
8.
Ho passato il tempo tra la chiamata di mio padre e la decisione di andare da lui su uno stuolo di pelli di cinciallegra, quasi costantemente a contatto con le mie mani ho avuto una serie di farfalle che mi erano state commissionate con particolare fretta, nel mentre stimavo i guasti lasciati da un proiettile nell’addome di una lontra e pizzicavo le piume nere di lignite di un corvo, come si fa con il nastro di un pacco regalo perché s’arricci.
Il giorno stesso della partenza un uomo mi portò un serpente: disse che c’aveva lavorato un suo amico con qualche nozione di tassidermia mal valutando però le proprie capacità, ora perciò era essenziale oltre che urgente che io rimediassi agli errori e da lì in avanti procedessi: mi offrì dunque una buona paga perché accettassi.
Lo avvolsi con della carta di giornale, prima però mi dovetti accertare, come è necessario, che la sua pelle fosse totalmente asciutta, dopodiché, incartato per il bene che ho imparato negli anni in cui ho fatto questo mestiere, lo deposi nell’ampia cassa di latta dentro cui m’era arrivato dal suo proprietario, una circonferenza di un metro e mezzo per un’altezza di un metro, riempii il contenitore fino all’orlo di naftalina, così da preservarlo oltre che dagli urti anche dai parassiti, e saldato il coperchio lo inscatolai in una controcassa di legno.
Mio padre aspettava il ricovero in un centro di riabilitazione dove sarebbe stato seguito da infermieri specializzati, lo predispose dopo l’ultima degenza in ospedale, mi disse però che non era chiaro quando sarebbe arrivata la conferma della buona sorte toccata alla sua richiesta, su per giù si figurava un’attesa di tre settimane o anche di un mese.
Nel frattempo quindi mi sarebbe toccato trasferirmi da lui per aiutarlo nel dispiegare la sua quotidianità faticosa, accompagnarlo al mercato le mattine che avrebbe voluto passar fuori, o fare io quando da casa non si sarebbe potuto muovere per nulla, così come per assisterlo in bagno e fargli compagnia in cucina.
Sistemato il serpente per il viaggio, trascorsi il resto della mattinata facendo avanti e indietro a piedi da casa mia allo sportello postale, destinando ciascuno dei pacchi contenenti i miei attrezzi da lavoro a un unico destinatario, l’indirizzo dell’appartamento di mio padre dove, dopo un paio di giorni, io stesso avrei raccolto il tutto.
Recapitai così ciascun pezzo del mio corredo, con pacchi ordinari e pacchi straordinari a seconda della dimensione e dell’urgenza con cui questi mi sarebbero serviti, avevo adoperato rocchetti di spago e scatole d’imballaggio, risme di carta e plichi marroncini, buste gialle e nastro adesivo, avevo preparato la spedizione della mia attrezzatura con la massima cura, perché avessi dimenticato anche il più piccolo e presumibilmente prescindibile aggeggio mi sarebbe poi toccato tornare a prenderlo.
Una volta in posta, alcuni li feci strisciare sotto lo sportello, ci sono strumenti che sono molto leggeri e sottili, i pennelli e le pinze ad esempio, mentre altri li passai per la porticina che c’è a fianco, e tra questi il sostegno di legno su cui avrei montato l’esemplare, la confezione di plastilina da cinque chilogrammi che mi sarebbe servita per conferirgli la sua nuova forma, e un regalo per mio padre.
Avrei voluto portare il serpente in treno con me, ma un trasporto sventurato può essere rischioso, e dato che non avrei comunque potuto avercelo per tutt’e tre le ore del viaggio appena a una spanna da dove sarei stato seduto io, mi decisi per rivolgermi a una ditta di trasporti privati che dava garanzie su come l’oggetto della spedizione sarebbe arrivato a destinazione: la controcassa di legno avrebbe viaggiato in un cassone climatizzato, nessun sobbalzo a pregiudicare il lavoro fino a quel punto realizzato, e il tutto a bordo di un furgone che per regolamento avrebbe percorso esclusivamente strade principali.
Quella che fu la maggiore spesa quando iniziai a fare questo mestiere, vale a dire il mobilio comperato appositamente per la conservazione degli esemplari, mi è stata impossibile traslocarla nell’appartamento di mio padre, sono armadi le cui peculiarità, il fatto di essere di noce stagionato, e tutti assolutamente bianchi così da far stagliare gli animali disposti sugli scaffali, e rigorosamente con serrature eccelse e che abbiano un coperchietto con cui occludere il buco, così per salvaguardare l’interno da polvere e pulviscolo, e con vetri che riflettano la luce che altrimenti rovinerebbe il contenuto, tutto ciò mi ha impedito di muoverli: mi dispiacque non contare sulla loro vista mentre avrei lavorato, ma li avrei inutilmente messi a rischio, e con loro tutti gli animali ordinati sui ripiani, per non dire del fatto che di certo nello stanzino in cui avrei preso posto non ci sarebbero entrati.
Perché non ha messo tutto in un unico scatolone?, mi chiese l’impiegata della posta a fine mattina, invece di fare tutti quei giri sarebbe stato sufficiente un francobollo e nient’altro, e io da come mi sorpresi alla sua domanda, dal silenzio con cui le replicai, compresi che la mia testa si stava mettendo in tono con il convalescenziario in cui stavo andando.
9.
Mio padre cadde la prima volta il giorno che arrivai, forse avevo aspettato troppo a raggiungerlo, portava il suo accappatoio di spugna azzurro, lo trovai disteso nell’ingresso di casa, nessun graffio, nessun livido, bianco da sembrare tutto incipriato, era lungo a terra quando lo trovai aprendo la porta, aggrovigliato dalle cose che gli erano straordinariamente tracimate fuori, come avesse scrollato il suo accappatoio come si sbattono le tovaglie dal balcone per buttar giù le briciole, mio padre stava in mezzo a quella nuvolaglia di oggetti, tutto a intasare il pavimento, il suo corpo e il resto, alla rinfusa, con già quasi i bioccoli di polvere attorno.
Quando mi vide chinato su di sé, pronunciò il mio nome a voce bassissima, ci fosse l’altezza come l’intendiamo di solito tra i parametri di un timbro di voce, quella con cui lo pronunciò stava rasoterra, neanche una spanna si alzava dal pavimento, era magro e attorto come uno scovolino e la sua voce sfilava rasante le piastrelle dell’ingresso dove era riverso.
10.
Imparai già dal mio primo gatto che la più difficile delle prove che spettino a un tassidermista arriva al momento della posa da scegliere per l’animale, egli allora, a parer mio, deve dissimulare più che sia possibile il suo lavoro, dando alla bestia una disposizione e un contorno, fatto che sia di ramaglie tronchi sassi pietrisco o ghiaia, che dia l’impressione di non avervi messo studio o diligenza particolare nell’apparecchiarlo.
Così a un fenicottero accomodo le penne remiganti senza però arruffarle, a una tigre non spalanco la bocca come se questa si trovi davanti un pasto dopo anni di inedia, a una vipera non stiro all’infuori la lingua, e così non costrinsi il gatto ad avere per sempre la coda impegnata a far le fusa, e allo stesso modo, al primo animale cui lavorai sotto pagamento, uno scoiattolo bruno, non gli rizzai le orecchie come stesse sentendo chissà quale rumore da chissà dove, né lo accia...