In piedi sui pedali
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In piedi sui pedali

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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In piedi sui pedali

Informazioni su questo libro

La Numero uno – bicicletta da bambino, telaio laccato bianco, parafanghi e carter in plastica arancione –, la Furia – bicicletta da cross, telaio nero, parafanghi e carter cromati –, e poi ancora la Corsara, la Zaira e tante altre fino alla Bionda – mountain bike da cross country hardtail, ruota da 26'', telaio in alluminio, due portaborracce, contachilometri: tutte le biciclette di una vita, quelle che hanno seguito di poco i primi passi, quelle che per la prima volta ci hanno fatto respirare il vento della libertà, quelle che hanno portato sulla canna il primo amore... Enrico Brizzi si racconta, e insieme traccia la linea di un'esperienza che è quella di ciascuno di noi. In piedi sui pedali è la storia di una passione, ma anche di un'iniziazione. In equilibrio su una sella, infatti, il giovane protagonista compie le sue prime esplorazioni, partendo dal cortile di casa fino a scoprire la propria città da una prospettiva sorprendente. Nella prima adolescenza, un'età in cui "si sogna anche da svegli", le gare contro gli autobus si trasformano negli infuocati finali di una tappa del Giro, mentre le salite dei Colli possono prendere le sembianze dei "muri" della Liegi-Bastogne-Liegi. Al Liceo la bici diventa il mezzo che conduce ai rendez-vous con le ragazze, e che permette al "Girardengo appena più basso e rock" di alleviare il dolore per la fine della sua storia d'amore. E così via, lungo gli anni, fino ai viaggi cicloturistici e alle uscite in mountain bike dei tempi più recenti, con le rocambolesche avventure che li accompagnano. I piccoli, grandi stupori quotidiani del ciclista urbano e l'epica dei grandi campioni finiscono per intrecciarsi, dando vita a un romanzo di formazione che – con ironia e dolcezza, alternando la pedalata quieta dei ricordi agli scatti esaltanti della fantasia – è un inno al mezzo di locomozione più versatile che ci sia e a chi, vento in faccia, ne ha fatto uno stile di vita e di pensiero.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804634577
eBook ISBN
9788852050305

Arrivare alla fine della Terra.
La Zaira

CATEGORIA bicicletta da cicloturismo, ruote da 28”, telaio in alluminio
MARCA Suzzi
VELOCITÀ 18
COLORE telaio nero con riflessi rossi
DOTAZIONE portapacchi anteriore e posteriore, contachilometri, cavalletto
Fu in quel periodo che, per la prima volta, mi approcciai al mondo delle arti: suonare per ore i Sex Pistols a tutto volume, chiusi come i cristiani delle catacombe dentro una cantina adibita a sala prove, mi parve un modo adatto per spegnere l’ansia che mi divorava.
A diciott’anni la mia discutibile divisa da rock’n’roll era composta da un berrettino azzurro della squadra ciclistica Z, dai soliti bermuda da skateboard e da un paio di stinte Adidas Gazelle; come bassista valevo ancor meno dello scarsissimo Sid Vicious, ma come lui riuscivo a sfogare l’energia che sentivo dentro. Per fortuna, Erbas era un discreto cantante-chitarrista, e aveva abbastanza presenza scenica da farsi perdonare il discutibile taglio a caschetto; quanto allo smilzo Mosca, diceva d’ispirarsi al batterista dei Police e picchiava sui tamburi come un tarantolato.
Quando cominciammo a scrivere pezzi originali, si profilò una nuova strada: confezionare una storia sotto forma di tre strofe e un ritornello mi veniva piuttosto facile e, nel giro delle band amiche, mi trovai a essere apprezzato come autore di testi.
Ecco perché, non appena apparve il bando del concorso “Racconta il quartiere”, i soci m’incoraggiarono a partecipare.
Fra un compito di latino e una versione di Aristotele, mi sforzai di mettere su carta ciò che provavo nel corso delle mie pedalate domenicali. La trama era praticamente assente, ma la caratterizzazione dei ciclisti che incrociavo sulla mia strada risultò gradita alla giuria (o, forse, fui l’unico partecipante nella categoria Scuole superiori); fatto sta che un giorno, rientrato a casa, trovai un fax col quale si annunciava che avevo vinto le duecentomila lire del premio.
Se evitai di gloriarmene subito con Erbas e Mosca, non fu per modestia: era solo che mi premeva mantenere intatto il gruzzolo, ché avevo già addocchiato il negozio nel quale spenderlo per intero.
Un pomeriggio dell’aprile ’93, forte dei primi denari guadagnati, scesi in via del Fossato e varcai la soglia del vecchio Suzzi, il più celebre fra i meccanici ciclisti della città.
Era un omone che assemblava le biciclette di persona, e tutti raccomandavano di approcciarlo con delicatezza perché aveva un carattere difficile; sulla qualità dei suoi lavori, però, nessuno aveva da ridire.
Prima di darmi udienza, terminò un’operazione di saldatura. Solo allora levò la maschera da fiamma ossidrica per mostrarmi il suo vero volto, rubicondo e indagatore.
«Sarai mica di quei defizànt che rovinano le bici a starci in piedi sul portapacchi?» indagò, ma feci orecchie da mercante.
«Va’ là!» scrollai le spalle. «Io ci vado in collina.»
«Bàn!» approvò, ma la sua rabbia contro i defizànt che rovinavano le bici non era del tutto estinta. «Sul cannone delle macchine che costruisco, ci metto un adesivo col nome del mio babbo» volle spiegare. «È lui che mi ha insegnato il lavoro. E se uno fa lo spiritoso con me, posso anche riderci su. Ma chi manca di rispetto al mio babbo, me l’amàz
Sfilò i guanti, e sotto c’erano due mani a ganascia, sporche di morchia fin sopra l’attaccatura dei polsi, così non mi sentii di mettere in discussione i suoi principi guida.
«Giusto» esalai e, per sembrare più convincente ai suoi occhi, ribadii in dialetto: «Ai vôl dal rispèt!»
Il vecchio Suzzi si nettò il naso col dorso della destra, poi volle sapere in tono burbero quale tipologia di bici cercavo e, quando gli ebbi risposto, annuì con un accenno di sorriso; era come se le parole “ibrida da città e cicloturismo” avessero risvegliato in lui un ricordo piacevole.
«Vediamo un po’» fece, rabbonito. «Quanto pensavi di spendere, all’incirca?»
Dissi quel che avevo, e lui incassò la testa fra le spalle, mostrando i denti in una smorfia, come gli fosse arrivata addosso una secchiata gelida.
«Troppo poco?» domandai, impressionato.
Rispose con una bestemmia, poi sospirò: «Tanto bisogna pur morire» e trasse dalla rastrelliera una promettente fuoriserie da cicloturismo, le ruote da ventotto pollici gommate di bianco e un doppio portapacchi indicato per trasportare le borse da viaggio. «Ti piace il colore?» domandò.
«È un bel nero» risposi a colpo sicuro.
«Mocché nero!» mi corresse. «Prendila su per il canòne, somaro, e guardala alla luce.»
Il somaro eseguì e, sotto i raggi che filtravano dalla finestrella della bottega, il telaio parve sprigionare una polvere rossastra. Era un effetto che non avevo mai visto prima, e il vocione di Suzzi esplose alle mie spalle: «È bicolore! Una lavorazione dai riflessi rubino che farebbe l’orgoglio del mio babbo!».
«È davvero uno spettacolo» risposi, depositando la bici, ruote a terra.
«Se avesse immaginato, pover’uomo, che razza di pigmenti fanno adesso per i telai...»
«Quante velocità ha?»
«Non le sai fare le operazioni?» risorse dalle sue fantasticherie. «Tre moltipliche e sei pignoni, a casa mia fa diciotto.»
«La prendo» dichiarai e, spaventato dalle possibili conseguenze delle mie parole, aggiunsi: «Se per lei va bene.»
«Te la lascio per la miseria che mi vuoi dare solo perché sei giovane» precisò. «Però ci metti il nome che dico io, e ti venisse la rogna se osi cambiarlo!»
Annuii, senza trovare il coraggio di porgergli la destra.
«Mano sul cuore» intimò il vecchio Suzzi, sollevando la bicicletta per il tubo orizzontale. «Lei è la Zaira!» Restò a guardarmi avvolto da uno sfavillio di rubini, e domandò: «Siamo d’acordo?».
Forse non era il primo nome che mi sarebbe venuto in mente, ma ormai avevo preso un impegno: se lui lo credeva adatto, Zaira andava benissimo.
Per mettere alla prova la nuova bicicletta mi spinsi attraverso il tavolato della Bassa sino alle mura di Ferrara, imparando a conoscere uno per uno paesi che, sin lì, erano stati solo nomi sulla mappa.
Avessi avuto in tasca trentamila lire, mi sarei fermato nella pensione più economica della città per proseguire l’indomani lungo l’argine di Po: mi era presa l’idea di traversare il Delta sino al Faro del Bacucco, dove la terra finiva e l’acqua del fiume si mescolava a quella del mare. Peccato che in tasca mi ballassero sì e no diecimila lire, così toccò battere in ritirata verso sud.
La spedizione andava organizzata meglio, e decisi di coinvolgere mio fratello: ormai aveva quindici anni, cavalcava la sua prima bici da adulto ed era abbastanza atletico e orgoglioso da gettarsi nel cimento.
Sfruttammo il ponte del 1° maggio, l’ultima pausa della quale avrei goduto prima dell’esame di maturità: partimmo all’alba, panini e frutta negli zainetti, per salire con la Zaira e la sua Bianchi da passeggio sul regionale che andava nel capoluogo estense, e da lì, dopo la giusta colazione, cominciammo a pedalare.
Le studentesse in bicicletta che solcavano i selciati rischiarono di distrarci, eppure trovammo la giusta determinazione per abbandonare le lusinghe della città.
Giunti al cospetto del ponte che porta verso le terre magre del Polesine, lasciammo la strada e imboccammo di slancio la pista che correva sull’argine emiliano, nello stesso verso dell’acqua che fluiva verso la ragnatela di isolotti, paludi e specchi salmastri del Delta.
«Caldo, eh?» considerò mio fratello mentre filavamo affiancati.
«Sono appena le dieci di mattina. Però, se hai caldo, faresti meglio a mettere il cappello.»
«E chi ce l’ha?»
«Non l’hai portato?» domandai, senza nascondere la preoccupazione. «Guarda che ti cuoci la testa.»
Scrollò le spalle. «Vuoi sempre saperla più lunga degli altri» protestò. «Non sei mica la mamma.»
«Infatti.» Mi aggiustai in testa il berretto azzurro con la zeta sulla visiera, e aggiunsi: «Sono molto più veloce, io», poi cominciai ad aumentare il ritmo.
«Vuoi la gara?» gridò mentre lo staccavo. «È la gara che vuoi?»
Invece di rispondere, lo salutai con la mano; ormai prendevo il largo spingendo sul rapporto più lungo.
«Fermati!» strillava Richi da dietro. «Da solo non so dove andare!»
Rallentai per farmi raggiungere, ma quando riapparve al mio fianco mi guardò con sdegno. «Sei sempre il solito!» mi accusò e, per un paio di chilometri, ostentò una gelida indifferenza.
Si era offeso e, all’offerta del mio berretto in segno di pace, reagì rifiutando. «Fa puzza» disse.
Pedalammo ingrugnati fino al paese di Ro, col suo municipio littorio a guardia dell’ultimo ponte stradale prima che le acque del fiume si separassero in rami diversi; lì ci fermammo per uno spuntino e mi sentii in dovere di farmi perdonare raccontandogli, nel dettaglio, la trama dell’ultimo film dell’attrice Luce Caponegro, in arte Selen.
L’avevo confuso abbastanza da indurlo ad accettare un buon consiglio e, prima di ripartire, si fabbricò un copricapo di fortuna con la maglietta di riserva.
Per un tratto che mi sembrò infinito, seguimmo il volo a intermittenza di un airone alla volta di Serravalle. La cupola del cielo appariva completa sopra un mondo liquido e rarefatto, e la curvatura dell’orizzonte era già disponibile all’occhio come in mare aperto: più che serrarsi una valle, sembrava annunciarsi un oceano.
Procedemmo lungo l’argine del ramo meridionale, il Po di Goro, assecondando le sue anse e cercando d’indovinare che vita potevano condurre i pionieri, gli scavatori di ghiaia e i pescatori che vivevano nella Mesopotamia d’Italia. A giudicare dai loro sguardi, non sembravano intenzionati in alcun modo a incentivare il turismo nel Delta. Nemmeno i rari ciclisti che incontravamo si perdevano in cordialità, come se da quelle parti ognuno fosse abituato a badare a sé e fare poche domande.
Nel primo pomeriggio riparammo nell’abitato di Mesola in cerca di acqua, e provammo l’ulteriore sollievo di vedere esseri umani ancora capaci di rivolgersi la parola e condurre vite, all’apparenza, normali. Sulla minuscola piazza del paese facemmo la conoscenza di un anziano dalla pelle cotta dal sole. Era giunto sin lì a bordo del suo trattore, un mezzo che sembrava risalire all’epoca del piano Marshall, e domandò in tono perentorio dove fossimo diretti.
«Andiamo a vedere il Delta» lo informai.
«Maiàl!» esclamò. «Avete fatto un voto?»
«Lo facciamo per sport» spiegò Richi.
L’uomo annuì con aria grave. «Dovete dormire a Goro. Dopo non c’è più niente.»
«Dovrebbe esserci Gorino, qualche chilometro più in là» feci presente.
«Gorino!» ripeté quello, in tono canzonatorio. «Se non hanno neanche gli occhi per piangere, quei vongolari!»
«Perché dice così?» domandò mio fratello. «Secondo le mappe, è l’ultimo paese prima che il fiume...»
«Non è posto da andare» lo interruppe il vecchio, definitivo, e rimontò in trattore. Prima di riavviarlo, ci considerò con un attimo di pena, controllò il disco del sole che cominciava a scendere sui campi, e intimò: «Fermatevi a Goro, se non volete guai!».
A quell’età, suonò come una sfida irrinunciabile: come si permetteva quel tizio di darci consigli? Ci aveva forse presi per due cacasotto? Avanti tutta, verso il finis terrae!
A Gorino, l’asfalto smorì in una strada bianca che s’inoltrava nella vegetazione dell’ultima lingua di terra; in breve raggiungemmo il Faro del Bacucco, dove la pianura lasciava posto al mare.
«Che razza di posto!» approvò mio fratello.
Doveva essere il suo modo di ringraziarmi, e io replicai con una frase che avevo orecchiato in sala prove da Erbas.
«Fra amici, né “scusa” né “grazie”.»
Smontò di sella. «Comunque, mi fa un gran male il culo» considerò, come Ganna alla fine del primo Giro d’Italia. «Spero mi passi, altrimenti dovrò cenare in piedi.»
Solo allora mi resi conto che non avevamo pensato ad assicurarci un pasto né un giaciglio.
Per non allarmarlo, feci finta di preoccuparmi delle sue chiappe. «Vedrai che passa» assicurai, e lasciai cadere la bici nell’erba alta, a due passi dalla sua. «Ti va di sederci un attimo sulla riva, prima di tornare verso la civiltà?»
Rise. «Ti muovi come un burattino di legno.»
«Anche tu non sembri così sciolto» replicai, e ci lasciammo cadere a due passi dall’acqua.
Il cie...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. In piedi sui pedali
  3. Mantenere l’equilibrio. La Numero Uno
  4. Andare veloce. La Mirella
  5. Sparire alla vista. La Furia
  6. L’anno dello Sceriffo
  7. Prendere il largo. La Diavolessa
  8. Completare le mappe. La Corsara
  9. Arrivare alla fine della Terra. La Zaira
  10. La leggenda del Pirata
  11. Trovare la pace. La Bionda
  12. Copyright