In un batter di ciglia
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In un batter di ciglia

Il potere segreto del pensiero intuitivo

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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In un batter di ciglia

Il potere segreto del pensiero intuitivo

Informazioni su questo libro

Siamo abituati a concepire il pensiero come un processo con modalità e regole ben precise. E ci è stato insegnato che, prima di operare una scelta o di formulare un giudizio, è preferibile raccogliere e vagliare con cura il maggior numero di informazioni. Esiste però un'altra forma di conoscenza, tanto trascurata dalla teoria quanto universalmente praticata nella vita di tutti i giorni: che si concretizza in quella prima, fugace idea che ci facciamo di qualcuno o di qualcosa "in un batter di ciglia". Tale attività di "cognizione rapida" si rivela spesso un indispensabile strumento di interpretazione della realtà, soprattutto nei momenti d'emergenza, anche se può essere condizionata dalla fretta e dai pregiudizi. Malcolm Gladwell analizza, alla luce delle più recenti conquiste delle neuroscienze e della psicologia, che cosa si nasconde dietro quella spontaneità di giudizio, e lo fa con lo stile brillante del giornalista, calando le astrazioni della ricerca scientifica nel quotidiano e argomentando le sue tesi attraverso gustosi aneddoti e una galleria di personaggi singolari.

Domande frequenti

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Informazioni

VI

Sette secondi nel Bronx:
la sottile arte della lettura della mente

All’altezza dell’isolato 1100 la Wheeler Avenue, nel quartiere di Soundview, South Bronx, è una stretta via di modeste case a due piani e condomini. A un’estremità c’è la confusione di Westchester Avenue, la principale arteria commerciale, dalla quale si dipartono quasi duecento metri di strada fiancheggiata da alberi e file di macchine parcheggiate. La maggior parte degli edifici, che risalgono alla prima metà del secolo scorso, hanno una facciata di mattoni rossi decorata, con quattro o cinque gradini che portano a una sorta di pianerottolo dove si apre il portone d’ingresso. È un quartiere povero, di operai, e verso la fine degli anni Novanta il traffico di droga, specie tra Westchester Avenue e la via successiva, Elder Avenue, era fiorente. Soundview è la classica zona di New York dove finisci se sei un immigrato che cerca una casa a buon mercato e vicina a una stazione della metropolitana. Per questo Amadou Diallo era andato ad abitare in Wheeler Avenue.
Nel 1999 Diallo, originario della Guinea, aveva ventidue anni e faceva il venditore ambulante a Manhattan: vendeva videocassette, guanti e calzini sul marciapiede della 14th Street. Basso di statura, un metro e 68 per 68 chili di peso, e di aspetto modesto, abitava al numero 1157, uno degli stretti condomini della via, al primo piano. Il 3 febbraio 1999 tornò a casa poco prima di mezzanotte, fece due chiacchiere con le persone con cui divideva l’appartamento, poi scese e si fermò in cima agli scalini d’ingresso a godersi la notte. Pochi minuti dopo svoltò lentamente in Wheeler Avenue una Ford Taurus senza contrassegni, con a bordo una squadra di poliziotti in borghese. Erano in quattro, tutti bianchi, tutti in jeans, camicia di cotone pesante, berretto da baseball e giubbotto antiproiettile, e tutti armati della calibro 9 semiautomatica in dotazione alla polizia. Facevano parte della cosiddetta «Street Crime Unit», una speciale unità del dipartimento di polizia di New York incaricata di pattugliare i «punti caldi» dei quartieri più poveri della città. Alla guida della Taurus era Ken Boss, ventisette anni. Al suo fianco sedeva Sean Carroll, trentacinque, e sul sedile posteriore Edward McMellon e Richard Murphy, entrambi ventiseienni.
È Carroll il primo a notare Diallo. «Ehi, fermi» esclama ai compagni. «Che cosa ci fa lì, quel tipo?» In seguito dirà che gli erano venuti due sospetti: il primo era che Diallo stesse facendo il palo per uno di quei ladri – push-in, come li chiamano – che, facendo finta di andare a trovare qualcuno, cercano di intrufolarsi negli appartamenti; il secondo che corrispondesse alla descrizione di un pluristupratore attivo nel quartiere circa un anno prima. «Se ne stava lì in piedi» ricorderà Carroll. «Se ne stava lì sul pianerottolo, a guardare in su e in giù lungo la via, sporgendo la testa e poi tirandola indietro contro il muro. Per alcuni secondi, sempre la stessa cosa: un’occhiata a destra, una a sinistra. E mentre ci avviciniamo sembra fare un passo indietro verso l’ingresso, come se non volesse farsi vedere. Poi gli passiamo davanti, io lo guardo e cerco di capire che cosa sta succedendo. Che cosa ha in mente, quel tipo?»
Boss ferma la macchina e fa retromarcia fino a trovarsi esattamente davanti al numero 1157. Diallo è ancora lì, cosa che, dirà Carroll, lo «sorprese». «Qui sta succedendo qualcosa, non c’è dubbio.» Carroll e McMellon scendono dall’auto. «Polizia» grida quest’ultimo mostrando il distintivo. «Possiamo scambiare due parole?» Diallo non risponde. In seguito verrà fuori che era balbuziente, e forse, quindi, aveva cercato di dire qualcosa ma non c’era riuscito. Inoltre, il suo inglese non era perfetto e, come se non bastasse, sembra che poco tempo prima un suo conoscente fosse stato rapinato da un gruppo di uomini armati. Insomma, è probabile che fosse terrorizzato: è lì fuori casa, dopo mezzanotte, in un quartiere malfamato, e due uomini grandi e grossi con un berretto da baseball in testa, il petto gonfiato dai giubbotti antiproiettile, camminano a grandi passi verso di lui. Diallo ha un attimo d’indecisione, poi corre verso l’ingresso. Carroll e McMellon si lanciano all’inseguimento. Diallo raggiunge la porta interna e, mentre con la mano sinistra afferra la maniglia, si gira, testimonieranno più tardi i poliziotti, «affondando» l’altra mano in una tasca. «Fai vedere le mani!» grida Carroll. Anche McMellon sta urlando: «Tira le mani fuori dalle tasche. Non costringermi ad ammazzarti!». Ma Diallo è sempre più sconvolto, e anche Carroll inizia ad agitarsi: gli sembra che, se quello si è girato su un fianco, è per nascondere quel che sta facendo con la mano destra.
«Eravamo probabilmente sugli ultimi gradini, cercavamo di raggiungerlo prima che attraversasse la porta» racconterà Carroll. «Il tipo si volta e ci guarda. La sua mano è sollevata, ancora sulla maniglia. E inizia ad alzare un oggetto nero dal fianco destro. Mentre lo tira su, tutto quello che riesco a vedere è una punta che sporge. Sembrava l’otturatore di una pistola nera. Le esperienze precedenti, l’addestramento, gli arresti che avevo compiuto mi dicevano che quella persona stava estraendo una pistola.»
Carroll grida: «Una pistola! Ha una pistola!».
Diallo non si ferma. Continua a tirare fuori qualcosa dalla tasca e, adesso, solleva l’oggetto nero in direzione degli agenti. Carroll apre il fuoco e McMellon, istintivamente, si butta all’indietro sugli scalini sparando e atterra sulla schiena. Le sue pallottole rimbalzano nell’ingresso, Carroll pensa che provengano dalla pistola di Diallo e, vedendo McMellon volare all’indietro, pensa che Diallo lo abbia colpito. Così continua a sparare, mirando, come viene insegnato ai poliziotti, alla «massa centrale». Pezzi di cemento e schegge di legno volano in tutte le direzioni, e l’aria lampeggia delle scintille delle pallottole e dei bagliori che escono dalle bocche delle pistole.
Adesso dalla macchina sono scesi anche Boss e Murphy, e corrono verso l’edificio. «Vedo Ed McMellon» testimonierà Boss quando i quattro agenti saranno portati davanti al giudice con l’accusa di omicidio colposo di primo grado e omicidio volontario di secondo grado. «È sulla sinistra dell’ingresso e sta volando giù dai gradini. Nello stesso tempo Sean Carroll, sulla destra, sta scendendo. Era una cosa frenetica. Si precipitava giù per gli scalini. Era… una cosa convulsa. Stava facendo tutto quello che poteva per venire giù da quegli scalini. E Ed è a terra. Gli spari continuano. Corro, mi sposto. Ed è stato colpito. Questo è tutto quello che riesco a vedere. Ed che spara. Sean che spara verso l’ingresso. … Poi vedo Diallo. È in fondo all’ingresso, verso il muro in fondo, dove si apre quella porta interna. È un po’ di lato rispetto alla porta ed è accovacciato. È accovacciato e ha la mano tesa e vedo una pistola. E dico: “Dio, sto per morire”. Sparo. Sparo buttandomi all’indietro e faccio un salto sulla sinistra. Ora sono fuori della linea di tiro. … Lui ha le ginocchia piegate. La schiena dritta. Sembra uno che cerchi di offrire un bersaglio più piccolo. Sembrava una posizione da combattimento, la stessa che mi avevano insegnato all’accademia di polizia.»
A questo punto l’avvocato che interroga Boss lo interrompe. «E come teneva la mano?»
«In fuori.»
«Tesa in fuori?»
«Tesa in fuori.»
«E nella sua mano ha visto un oggetto. Giusto?»
«Sì, m’è sembrato di vedergli una pistola in mano. … Quello che ho visto era una pistola intera. Una pistola squadrata nella sua mano. In quell’attimo, dopo tutti gli spari attorno a me, e il fumo delle pistole, e Ed McMellon a terra, mi sembrò che avesse una pistola, che avesse appena sparato a Ed, e che adesso toccasse a me.»
Carroll e McMellon sparano sedici colpi ciascuno, un intero caricatore. Boss spara cinque colpi, Murphy quattro. Poi cala il silenzio. Pistole in pugno, i quattro salgono i gradini e si avvicinano a Diallo. «Gli vidi la mano destra» dirà Boss. «Era discosta dal corpo. Con il palmo aperto. E dove avrebbe dovuto esserci una pistola c’era un portafoglio. … Dico: “Dov’è quella stramaledetta pistola?”.»
Boss si mette a correre verso Westchester Avenue. Fra le grida e gli spari, ha perso il senso di dove si trova. Più tardi, quando arriva l’ambulanza, è così sconvolto che non riesce a parlare.
Carroll si siede sugli scalini, accanto al corpo di Diallo crivellato di colpi, e scoppia a piangere.

Tre errori fatali

Le forme forse più comuni, oltre che più importanti, di cognizione rapida sono i giudizi che formuliamo sugli altri, le idee che ce ne facciamo. Ogni minuto che passiamo in presenza di qualcuno produciamo un flusso costante di predizioni e inferenze su ciò che questo qualcuno pensa e sente. Quando una persona ci dice «ti amo», la guardiamo negli occhi per verificarne la sincerità. Quando incontriamo qualcuno per la prima volta, spesso cogliamo labili segnali che in seguito ci fanno dire, anche se la persona appena conosciuta ci ha parlato in modo normale e cordiale, «credo di non andarle a genio», oppure «ho l’impressione che non sia molto felice». Analizziamo senza difficoltà le espressioni facciali compiendo distinzioni complesse. Se, per esempio, vedeste il mio volto aprirsi in un largo sorriso e i miei occhi brillare, direste che sono allegro, mentre se mi vedeste annuire e sorridere in modo esagerato, tendendo gli angoli delle labbra, direste che sono stato provocato e sto reagendo con sarcasmo. Se mi vedeste cercare con gli occhi una persona, accennare un sorriso, poi abbassare lo sguardo e fissarlo altrove, pensereste che sto tentando un approccio. Se, dopo aver fatto un’osservazione, sorrido per un attimo e scuoto leggermente la testa, potreste concludere che ho detto qualcosa di un po’ antipatico e sto cercando di smorzarne l’effetto. Non avreste bisogno di sentire quello che dico per giungere a queste conclusioni. Esse si presenterebbero alla vostra mente in un batter di ciglia. Se vi avvicinate a un bambino di un anno seduto a giocare sul pavimento e fate qualcosa di appena un po’ enigmatico, come chiudere le mani a coppa sulle sue, il bambino vi guarderà immediatamente negli occhi. Perché? Perché ciò che avete fatto richiede una spiegazione, e lui sa di poterla trovare sul vostro viso. La pratica di inferire motivazioni e intenzioni altrui è una classica forma di thin-slicing. Significa infatti cogliere sottili e fuggevoli indizi per leggere nella mente di un’altra persona, e non c’è praticamente impulso altrettanto elementare e automatico e nel quale, il più delle volte, eccelliamo senza fatica. Nelle prime ore del 4 febbraio 1999, tuttavia, i quattro poliziotti che percorrevano Wheeler Avenue fallirono in questo compito fondamentale, perché non lessero nella mente di Diallo.
Innanzitutto, Sean Carroll lo vide e disse ai suoi compagni: «Che cosa ci fa lì, quel tipo?». La risposta era: sta prendendo una boccata d’aria. Ma Carroll lo misurò con lo sguardo e, all’istante, decise che aveva l’aria sospetta. Errore numero uno. Poi i quattro tornarono indietro e Diallo era sempre lì. In seguito Carroll dirà che questo lo «sorprese»: che impudente, a non scappare alla vista della polizia! Diallo, però, non era impudente, era curioso. Errore numero due. A questo punto Carroll e Murphy si diressero verso di lui, in cima agli scalini, lo videro girarsi lentamente su un fianco e abbozzare il gesto di infilare una mano in tasca. Decisero all’istante che era pericoloso. Ma Diallo non era pericoloso, era terrorizzato. Errore numero tre. Di solito non abbiamo alcuna difficoltà a distinguere, a colpo d’occhio, fra chi è sospetto e chi non lo è, fra un impudente e un curioso, e, cosa ancor più facile, fra chi è pericoloso e chi è terrorizzato. Chiunque cammini a notte fonda per le strade di una città compie in continuazione calcoli istantanei di questo genere. Eppure, per qualche ragione, quella notte i quattro poliziotti sembrarono privi di una delle più elementari capacità umane. Perché?
Errori simili non sono eventi anomali. Accade a tutti di fallire nella lettura della mente, come dimostrano gli innumerevoli diverbi, contrasti, equivoci e casi di sentimenti offesi. Senonché tali fallimenti, essendo così subitanei e misteriosi, ci restano incomprensibili. Nei giorni e nei mesi successivi all’uccisione di Diallo, per esempio, mentre la vicenda rimbalzava sui giornali di tutto il mondo, la discussione su che cosa fosse successo quella notte oscillò fra due estremi. Per alcuni s’era trattato solo di un tragico incidente, un’inevitabile conseguenza del fatto che a volte i poliziotti si trovano a dover prendere decisioni di vita e di morte in condizioni di incertezza. Fu questa la conclusione alla quale giunse la giuria al processo, sicché Boss, Carroll, McMellon e Murphy vennero prosciolti dall’accusa di omicidio. Per altri, invece, ciò che era accaduto costituiva un caso lampante di razzismo. Vi furono proteste e manifestazioni in tutta la città. Diallo divenne un martire, tanto che Wheeler Avenue fu ribattezzata Amadou Diallo Place. Bruce Springsteen scrisse e cantò in suo onore una canzone dal titolo American Skin (41 Shots), «Pelle americana (41 spari)», il cui ritornello suona: «È che puoi essere ucciso solo perché vivi nella tua pelle americana».
Nessuna di queste spiegazioni, tuttavia, è davvero soddisfacente. Nulla fa pensare che i quattro poliziotti che spararono a Diallo fossero dei mascalzoni, o dei razzisti, o che ce l’avessero con lui. Ma non si può neanche liquidare la sparatoria come un semplice incidente: non fu propriamente quel che si dice un’esemplare operazione di polizia. Gli agenti commisero una serie di madornali errori di valutazione, a cominciare dal presumere che un uomo che prende una boccata d’aria sotto il portone di casa sia un potenziale criminale.
In altri termini, l’uccisione di Diallo si colloca in una sorta di zona grigia, a metà fra il deliberato e l’accidentale, come succede talvolta quando si fallisce nella lettura della mente. Gli insuccessi nella cognizione rapida non sono sempre così evidenti e clamorosi. Ve ne sono anche di sottili, complessi e incredibilmente comuni. Quello che accadde quella notte in Wheeler Avenue è un vivido esempio di come funziona – e, a volte, tragicamente fallisce – la lettura della mente.

La teoria della lettura della mente

Gran parte di ciò che sappiamo della lettura della mente la dobbiamo a due scienziati di vaglia, maestro e allievo: Silvan Tomkins e Paul Ekman. Tomkins, il maestro, nacque a Philadelphia nei primi anni del secolo scorso, figlio di un dentista emigrato dalla Russia. Piccolo di statura e piuttosto corpulento, esibiva una selvaggia criniera di capelli bianchi ed enormi occhiali dalla montatura di plastica nera. Insegnava psicologia a Princeton e a Rutgers, New Jersey, e scrisse un’opera in quattro volumi – Affect, imagery, consciousness – così densa che i suoi lettori si dividevano equamente fra coloro che la capivano e la trovavano brillante e coloro che non la capivano e la trovavano brillante. Era un parlatore formidabile. Capitava che, alla fine di un party, sedessero rapite ai suoi piedi folle di persone. Uno diceva: «Ancora una cosa…», e tutti restavano un’altra ora e mezzo a sentirlo disquisire, poniamo, di fumetti, di un determinato serial televisivo, della biologia delle emozioni, dei suoi problemi con Kant e del suo entusiasmo per l’ultima moda in fatto di diete. Il tutto esposto senza soluzione di continuità, in un unico fluente discorso.
Durante la Depressione, mentre studiava per il dottorato a Harvard, lavorava come «handicapper» per un’associazione ippica, e con tanto successo da vivere lussuosamente nell’Upper East Side di Manhattan. All’ippodromo, dove sedeva in tribuna per ore fissando i cavalli con il binocolo, era noto come «il Professore». «Aveva un sistema per predire come si sarebbe comportato un cavallo» ricorda Ekman. «Si basava sui cavalli che aveva vicino, sui rapporti emotivi fra di essi.» Per esempio, se ai nastri di partenza un maschio che nei primi due anni di corse era stato battuto da una femmina si trovava accanto una cavalla, bisognava attendersi il peggio. (O qualcosa del genere, nessuno lo sapeva con certezza.)
Tomkins era convinto che il volto di una persona, persino il muso di un cavallo, contenesse preziosi indizi per penetrare le sue emozioni e motivazioni interiori. Si diceva che poteva entrare in un ufficio postale, osservare i manifesti dei ricercati e, solo in base alle foto segnaletiche, dire quali crimini avevano commesso. «Guardava “To Tell The Truth”a e, infallibilmente, capiva subito chi stava mentendo» racconta suo figlio Mark. «Una volta scrisse al produttore per dirgli che era un gioco troppo facile, e quello lo invitò ad andare a New York e, da dietro le quinte, far vedere quel che sapeva fare.» Virginia Demos, che insegna psicologia a Harvard, ricorda le lunghe conversazioni avute con Tomkins mentre era in corso la convention democratica del 1988. «Noi parlavamo al telefono e lui azzerava il volume mentre, per esempio, Jesse Jackson discuteva con Michael Dukakis. Poi leggeva i loro volti e faceva le sue previsioni su quello che sarebbe successo. C’era della profondità.»
Paul Ekman conobbe Tomkins all’inizio degli anni Sessanta. Allora era un giovane psicologo, aveva appena terminato la scuola di specializzazione e gli interessava lo studio dei volti. C’erano delle regole comuni, si chiedeva, dietro le espressioni facciali degli esseri umani? Silvan Tomkins pensava di sì, laddove la maggior parte degli psicologi erano convinti del contrario. All’epoca L’idea corrente era che tali espressioni fossero culturalmente determinate, vale a dire che noi usassimo il volto in conformità a un insieme di convenzioni sociali frutto di apprendimento. Ekman non sapeva quale delle due teorie fosse giusta e, per cercare di capirlo, visitò il Giappone, il Brasile, l’Argentina, fino a raggiungere remote tribù nella giungla dell’Estremo Oriente, portando con sé fotografie di una varietà di caratteristiche espressioni facciali di uomini e donne. Con suo grande stupore, ovunque andasse la gente esprimeva giudizi concordanti sul significato di quelle espressioni. Capì, quindi, che aveva ragione Tomkins.
Non molto tempo dopo, Tomkins si recò a San Francisco nello studio di Ekman, il quale aveva scovato 30.000 metri di pellicola girata dal virologo Carleton Gajdusek nella remota giungla di Papua Nuova Guinea. Parte del filmato mostrava una tribù pacifica e amichevole, i Fore del Sud; il resto riguardava una tribù sanguinaria e ostile, i Kukukuku, un cui rituale omosessuale imponeva ai preadolescenti maschi di fungere da cortigiane per gli uomini adulti. Per sei mesi Ekman e il suo collaboratore Wallace Friesen avevano passato in rassegna la pellicola tagliando le scene non pertinenti per focalizzarsi solo su primi piani dei volti e confrontare le espressioni facciali dei due gruppi.
Mentre Ekman preparava il proiettore, Tomkins aspettava nel retro. Non gli era stato detto niente sulle due tribù e tutti gli elementi del contesto dai quali avrebbe potuto ricavare informazioni erano stati tagliati. Tomkins guardò il filmato attentamente, scrutando le immagini attraverso i suoi grossi occhiali. Alla fine si avvicinò allo schermo e, indicando i volti dei Fore del Sud, disse: «Questo è un popolo mite e gentile, molto indulgente e pacifico». Poi puntò il dito sui volti dei Kukukuku: «Questo, invece, è un gruppo violento, e una quantità di segni fa pensare che pratichi l’omosessualità». Ancor oggi, a distanza di oltre trent’anni, Ekman non riesce a capacitarsi. «Ricordo come fosse oggi che gli dissi: “Cristo, Silvan, ma come diavolo hai fatto?”» racconta Ekman. «Allora lui tornò verso lo schermo e, mentre riavvolgevamo la pellicola alla moviola, indicò le particolari protuberanze e pieghe nei volti su cui aveva basato i suoi giudizi. Fu allora che capii: “Devo analizzare minutamente il volto”. Era una miniera di informazioni, ignorata da tutti. Quell’uomo riusciva a leggerlo e, se ci riusciva lui, forse poteva riuscirci chiunque.»
Allora Ekman e Friesen decisero di elaborare una tassonomia delle espressioni del volto. Dopo aver setacciato i manuali di medicina che illustravano i muscoli facciali, studiarono ogni loro possibile movimento. Ne identificarono quarantatré, che chiamarono «unità d’azione». Poi, per giorni e giorni, si sedettero uno di fronte all’altro e iniziarono a lavorarci sopra, un’unità d’azione alla volta, prima localizzando mentalmente il muscolo, poi concentrandosi nel tentativo di isolarlo e, mentre lo facevano, si guardavano reciprocamente da vicino, controllavano i loro movimenti allo specchio, prendevano nota di come la configurazion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. In un batter di ciglia
  3. Introduzione: La statua che aveva qualcosa che non andava
  4. I: La teoria delle «fette sottili»: come un granello di conoscenza possa portare molto lontano
  5. II: La porta chiusa: vita segreta delle decisioni istantanee
  6. III: L’errore Warren Harding: perché ci affascinano gli uomini alti, prestanti e di carnagione scura
  7. IV: La grande vittoria di Paul Van Riper: una struttura per la spontaneità
  8. V: Il dilemma di Kenna: modi giusti, e modi sbagliati, di chiedere alla gente che cosa vuole
  9. VI: Sette secondi nel Bronx: la sottile arte della lettura della mente
  10. Conclusione: Ascoltare con gli occhi
  11. Note
  12. Ringraziamenti
  13. Copyright