Sangue innocente
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Sangue innocente

  1. 392 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sangue innocente

Informazioni su questo libro

Dopo essere stata adottata dai Palfrey, per dieci anni Philippa ha continuato a fantasticare sui suoi veri genitori. Tormentata dal desiderio di far luce sul suo passato, appena raggiunge la maggiore età cerca di ritrovarli. E non si arrende, anche se le sue scoperte sono sconvolgenti. E l'incontro con sua madre sarà il preludio di una nuova tragedia...
Colpa e vendetta, legami di sangue e ragioni del cuore. Un dramma di famiglia che diventa un imprevedibile thriller.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804382218
eBook ISBN
9788852053009

Parte prima

PROVA DI IDENTITÀ

1

Non si era aspettata che l’assistente sociale fosse così anziana. Forse, per l’anonimo funzionario che aveva la cura di quei particolari, i capelli grigi e la corpulenza della menopausa erano caratteristiche indicate a sollecitare la fiducia degli adottati adulti che si presentavano per la loro seduta di consulenza obbligatoria. Dopotutto, queste persone sradicate, il cui cordone ombelicale stava in un decreto giudiziario, dovevano pur sentire un bisogno di rassicurazione; se no perché si erano preoccupate di imbarcarsi in quel viaggio burocratico alla ricerca della propria identità? L’assistente sociale sorrise nel suo modo di professionale incoraggiamento e le tese la mano dicendo:
«Sono Naomi Henderson. Lei è la signorina Philippa Rose Palfrey, vero? Temo proprio di dovere, per cominciare, chiederle un documento d’identità.»
Philippa mancò poco rispondesse: “In effetti, mi chiamano Philippa Rose Palfrey, è vero. Ma sono qui per scoprire chi sono”, però si trattenne in tempo, avendo intuito quanto poco adatta fosse quella precisazione per avviare il colloquio. Perché si trovasse lì lo sapevano tutte e due. E voleva che il colloquio andasse bene, andasse cioè a modo suo, benché non sapesse esattamente come. Aprì la borsetta di pelle e senza parlare porse il passaporto e la sua nuovissima patente di guida.
Il tentativo di creare un clima di accoglienza informale si era esteso anche all’arredamento. C’era una scrivania da ufficio, ma Naomi Henderson si era affrettata a lasciarla non appena era entrata Philippa e l’aveva invitata ad accomodarsi insieme a lei sulle poltrone in vinilpelle disposte a lato di un lungo tavolo basso da salotto. Sul tavolo c’era persino un piccolo vaso azzurro con la scritta: “Omaggio di Polperro”. Conteneva un mazzo di rose. Non erano le rose asettiche, prive di odore e di spine, di una vetrina da fioraio. Erano rose da giardino, ne riconobbe le varietà ricordando quelle del giardino di Caldecote Terrace: rose Peace, Superstar e Albertine, in piena fioritura, qualche petalo già appassito o caduto, con solo un paio di boccioli troppo chiusi, duri, gli orli anneriti, destinati a non sbocciare mai. Philippa si domandò se per caso non le avesse colte nel suo giardino l’assistente sociale stessa. Forse la donna era già in pensione e abitava in campagna. L’avevano reclutata appositamente per quell’incarico speciale, a tempo determinato. Non le era davvero difficile immaginarla in giardino, vicina alla sua aiuola di rose, con indosso le scarpe sportive e l’abito di tweed che portava ora, intenta a cogliere i fiori che andavano comunque tagliati e che in quel clima londinese non sarebbero durati più di un giorno. Qualcuno aveva bagnato le rose con zelo eccessivo, una goccia luccicava come una perla tra due petali gialli, il piano del tavolo basso era schizzato. Ma il finto mogano non ne avrebbe risentito; non era veramente legno. Le rose emanavano un’umida fragranza; anche se non erano veramente fresche. E su quelle poltrone nessun visitatore si era mai sentito veramente a suo agio. Il sorriso che le veniva dispensato dalla donna seduta di fronte a lei, e che era un invito alla fiducia e alla confidenza, lo doveva all’articolo ventisei del decreto del 1975 sull’infanzia, il Children Act 1975, la nuova legge sui figli adottivi e l’affiliazione.
Philippa aveva curato il suo aspetto, ma del resto lo faceva sempre, mettendo un’arte puntigliosa nel presentare al mondo un’immagine di se stessa precisa, voluta e ogni giorno abilmente ricostruita. Quel mattino, aveva mirato a dare l’impressione di non essersi affatto curata del suo aspetto, di non provare nessuna particolare ansietà per quel colloquio che non esigeva da lei più attenzione del consueto nel modo di presentarsi agli altri. I capelli, di vivo color grano miscelati dal sole estivo al punto che non due ciocche apparivano esattamente dello stesso oro, se li era ravviati con semplicità all’indietro, raccogliendoli in un’unica pesante treccia che lasciava libera la fronte alta e spaziosa. La bocca larga, dal labbro superiore ben marcato e modellato, finemente sensuale negli angoli ricurvi all’ingiù, non recava traccia di rossetto, ma sulle palpebre l’ombretto lo aveva applicato con cura meticolosa, mettendo in risalto la sua caratteristica più notevole, i luminosi occhi verdi un tantino sporgenti. La pelle color miele era lustra di sudore. Aveva indugiato troppo a lungo nei giardini dell’Embankment, restia ad arrivare troppo presto al colloquio, col risultato che poi aveva dovuto affrettarsi. Calzava sandali e sopra i pantaloni di velluto a coste portava una semplice camicetta di cotone verde, aperta sul collo. Contrastavano questa apparente negligenza e semplicità di tutta la persona, questa studiata quanto ambigua elusività del denaro e della posizione sociale, i possessi personali che portava come talismani: il sottile, elegante orologio d’oro, i tre pesanti anelli di epoca vittoriana, un topazio, una corniola e un peridoto, la borsetta italiana a tracolla, in pelle, passata sulla spalla sinistra. Era un contrasto voluto. Il vantaggio di non serbare in pratica memoria di tutto ciò che le era potuto accadere prima del suo ottavo compleanno, unitamente alla consapevolezza di essere un’illegittima, era che non esisteva niente e nessuno, nessuna falange di morti viventi, nessun pio culto degli avi, nessun riflesso condizionato del pensiero o della condotta, a prevalere e inibirla nella creatività con cui modellava l’immagine di sé che intendeva presentare al mondo. Mirava a conseguire un’aria di singolarità, un’impressione di intelligenza e di sicurezza, un aspetto che colpisse, che magari riuscisse un pochino eccentrico, ma che fosse comunque tutto fuorché comune.
La sua pratica, nuova e pulita, stava aperta davanti alla signorina Henderson. Anche dal suo posto, all’altro lato del tavolo, Philippa poteva distinguerne parte del contenuto: l’opuscolo informativo del Governo, di cui si era fatta rilasciare copia da un ufficio comunale nella parte nord di Londra, in una zona dove non aveva corso il rischio di essere riconosciuta; la sua lettera, indirizzata al Centro Anagrafico cinque settimane prima, proprio l’indomani del suo diciottesimo compleanno, per richiedere il modulo speciale che era il primo documento per arrivare all’atto di nascita e all’identità; e una copia di questo modulo. La sua lettera era stata allegata in cima a tutta la pratica e spiccava bianchissima sul marrone camoscio della burocrazia. La signorina Henderson vi passò sopra le dita, pensierosa. Philippa pensò che in quella lettera c’era qualcosa capace di darle un fuggevole senso di disagio, era forse l’indirizzo, o la qualità della pesante carta di lusso che era visibile persino nella copia. Era forse la consapevolezza che suo padre adottivo era Maurice Palfrey. Appunto. Tenuto conto dell’instancabile pubblicità che si faceva Maurice, del fiume di pubblicazioni che fluiva dal suo Istituto di Sociologia, sarebbe stato piuttosto strano se un’assistente sociale di grado elevato come la signorina Henderson non avesse mai sentito parlare di lui. Si domandò se la signorina Henderson avesse letto Teoria e tecnica della consulenza: guida per i professionisti, e, se sì, fino a che punto la lucida indagine di Maurice nel campo della differenza tra consigli evolutivi e terapia della Gestalt l’avesse aiutata a incrementare nei suoi clienti la loro stima di se stessi – e che termine significativo, nel gergo dell’assistenza sociale, questo di “clienti”!
La signorina Henderson le disse:
«Forse dovrei cominciare col dirle fino a che punto sono in grado di aiutarla. In parte lei è già al corrente, ma sono d’avviso che sia meglio puntualizzare tutto con chiarezza. Il nuovo decreto del 1975 sui figli adottivi ha introdotto importanti modifiche nella legge che riguarda l’accesso ai dati anagrafici. Prevede che i figli adottati e adulti – ossia tutti coloro di almeno diciotto anni compiuti – possano, se lo desiderano, richiedere al Centro Anagrafico Generale le informazioni che consentiranno loro di conoscere l’autentico atto di nascita. Quando lei fu adottata, le fu rilasciato un certificato di nascita nuovo, e l’informazione che collega il suo nome attuale di Philippa Rose Palfrey al suo autentico certificato di nascita è conservata presso il Centro Anagrafico Generale, in un registro riservato. È proprio questa informazione riservata che ora la legge contempla che il Centro Anagrafico Generale le trasmetta, se lei la desidera. Il nuovo decreto dispone inoltre che chiunque sia stato adottato prima del 12 novembre 1975, cioè prima dell’approvazione del decreto, debba avere un colloquio personale con un consulente prima di poter ottenere tale informazione riservata. Ciò fu motivato dalla preoccupazione del Parlamento per la portata retroattiva delle nuove disposizioni, perché ovviamente in passato molti genitori naturali acconsentirono all’adozione dei loro figli nell’intesa comune con gli adottanti che essi in quanto genitori naturali sarebbero rimasti ignoti per sempre. Lei si trova qui, oggi, perché si possa insieme esaminare gli effetti che potrebbero avere le sue eventuali ricerche dei suoi genitori naturali, al tempo stesso su di lei e su altre persone, e, inoltre, per fare in modo che l’informazione da lei desiderata e alla quale beninteso ha legalmente diritto, le venga procurata in maniera che risulti utile e opportuna. Al termine del nostro colloquio, se lei lo vorrà ancora io sarò in grado di dirle il suo vero nome di nascita, il nome della sua madre naturale e, se ciò è possibile – ma non è certo – il nome del suo padre naturale; e anche il nome del tribunale che ha pronunciato il suo decreto di adozione. Potrò inoltre consegnarle un modulo di domanda di cui si potrà valere per inoltrare al Centro Anagrafico la richiesta di copia del suo autentico certificato di nascita.»
Era un discorso che aveva già fatto tante altre volte, veniva fuori un po’ troppo fluentemente. Philippa intervenne:
«Sì, e c’è un prezzo standard di due sterline e cinquanta per l’atto di nascita. A buon mercato, se è per questo. So già tutto quanto. Sta scritto nell’opuscolo arancio e marrone.»
«Purché sia tutto ben chiaro. Le dispiacerebbe dirmi quando fu che per la prima volta prese la decisione di chiedere il suo atto di nascita? Vedo che ha presentato la domanda non appena compiuti i diciotto anni. È stata una decisione improvvisa, o ci pensava già da un po’ di tempo?»
«Ho preso la decisione quando la legge del 1975 era all’esame in Parlamento. Avevo quindici anni e stavo preparandomi agli esami del liceo. Non credo che ci pensai su molto, al momento, decisi semplicemente che avrei fatto domanda non appena fossi stata legalmente abilitata a farlo.»
«Ne ha parlato con i suoi genitori adottivi?»
«No, non comunichiamo molto in famiglia.»
La signorina Henderson evidentemente per il momento preferì sorvolare.
«E che cosa si propone esattamente? Vuole soltanto sapere chi sono i suoi genitori legittimi, o spera di rintracciarli?»
«Spero di scoprire chi sono io. Non vedo che senso avrebbe fermarmi a due nomi su un certificato di nascita. E i nomi potrebbero anche non essere due. So di essere illegittima. La ricerca potrebbe anche non approdare a nulla. So che mia madre è morta, dunque non posso rintracciare lei e, quanto a mio padre, potrei non trovarlo mai. Ma, almeno, se riesco a scoprire chi era mia madre può darsi che risalga fino a lui. Potrebbe essere morto, ma non lo credo. Non so perché ma sono sicura che mio padre è vivo.»
Solitamente, Philippa preferiva che le sue fantasticherie avessero una sia pur tenue base di realtà. Soltanto questa singola fantasia era diversa, fuori del tempo, altamente inverosimile, e tuttavia impossibile da ripudiare, quasi come un’antica religione le cui cerimonie arcaiche, consolanti nella loro familiare assurdità, in qualche modo danno testimonianza di una verità essenziale. Non riusciva più a ricordare come mai avesse in origine collocato la sua scena nell’Ottocento, e nemmeno perché, dopo aver appreso così in fretta quanto ciò fosse impossibile e assurdo essendo lei nata nel 1960, non si fosse decisa ad aggiornare le persistenti chimere in cui si compiaceva, ma tant’è, era più forte di lei: sua madre, esile figura abbigliata da cameriera vittoriana, la bella crocchia di capelli biondi che spuntava di sotto la cuffietta increspata dai nastri ricamati a punto inglese, si staccava spettrale sul cupo sfondo dell’alta siepe che circondava un roseto. Suo padre, vestito in abito da sera, incedeva come un principe, attraversava la terrazza, scendeva per l’ampio viale tra gli zampilli delle fontane. Il prato dolcemente in pendio, inondato dalla morbida luce del sole al tramonto, era tutto uno scintillare di pavoni. Le due ombre si fondevano in una sola, la testa bruna si chinava verso quella bionda:
«Amore, caro, non ti posso lasciare. Sposami!»
«Non posso. Lo sai che non posso.»
Era diventata un’abitudine rievocare le scene predilette proprio negli attimi che precedevano il sonno che calava su di lei come in una pioggia di petali di rose. Nelle primissime fantasie sognate a occhi aperti, suo padre le era apparso nell’uniforme scarlatta e oro, il petto coperto di decorazioni, al fianco la spada tintinnante. Crescendo, Philippa aveva eliminato con cura questi goffi abbellimenti. Il soldato, l’aitante cavaliere con i suoi cani da caccia, aveva ceduto il posto allo studioso, al signore aristocratico e intellettuale. Ma il quadro fondamentale era rimasto immutato.
Una goccia d’acqua era sul punto di scivolare giù dal petalo di una rosa gialla. Philippa la guardò affascinata, opponendosi mentalmente alla sua caduta. Si era del tutto estraniata da quanto le aveva appena detto la signorina Henderson. Fece uno sforzo e s’impose di ascoltare. L’assistente sociale le stava chiedendo dei suoi genitori adottivi:
«E sua madre che cosa fa?»
«Mia madre adottiva cucina.»
«Vuol dire che è una cuoca?» Ma subito l’assistente sociale riformulò la domanda quasi fosse conscia di aver derogato implicitamente a qualche norma, e aggiunse:
«È una cuoca professionista?»
«Cucina per suo marito, per gli invitati e per me. Inoltre è giudice in un tribunale per minorenni, ma credo che questo lo faccia solo per compiacere suo marito. Lui pensa che le donne debbano avere un’occupazione fuori casa, purché beninteso ciò non interferisca in alcun modo con le sue comodità. Ma cucinare è comunque la sua passione. È brava abbastanza per farne una professione, se è per questo, anche se non credo che l’abbia imparata a scuola, a meno che non fosse alle serali. Era segretaria di mio padre adottivo, prima di sposarlo. Ciò che intendevo dire è che cucinare è il suo hobby.»
«Be’, dev’essere gradevole per suo padre e per lei.»
Questo tono di condiscendenza doveva essere ormai troppo radicatamente inconsapevole nella signorina Henderson perché riuscisse a evitarlo: Philippa contemplò freddamente la donna, prese atto della cosa, e la incalzò:
«Sì, siamo entrambi golosi, mio padre adottivo e io. Possiamo mangiare tutti e due con voracità e ingordigia senza per questo ingrassare.»
Ciò doveva significare una certa brama di vita, un appetito tuttavia non indiscriminato: apprezzavano entrambi la buona tavola. Forse, significava un rafforzamento della loro convinzione di potersi entrambi permettere il lusso di appetire la vita senza perciò dover pagare nulla in cambio. L’ingordigia, diversamente dal sesso, non comportava altro impegno che verso se stessi, altra violenza che quella fatta al proprio corpo. Il suo discernimento in fatto di cibi e bevande rassicurava sempre Philippa. Per lo meno, questa era una qualità difficilmente imputabile al solo buon esempio di Maurice. Persino lui, pur convinto ambientalista qual era, avrebbe trovato piuttosto difficile sostenere che un fiuto per il chiaretto fosse acquisibile così agevolmente. Imparare ad amare il vino, scoprire la ricca sensibilità del suo palato era stata per lei una nuova, rassicurante conferma di un gusto ereditario. Ricordò il suo diciassettesimo compleanno; le tre bottiglie in tavola davanti a loro con le etichette coperte. Non riusciva a ricordare Hilda. Eppure, di certo, lei era stata presente a un pranzo di compleanno della famiglia, ma, nel suo ricordo, lei e Maurice avevano festeggiato da soli. Lui aveva detto:
«E ora dimmi quale preferisci. Dimentica la prosa enfatica dei supplementi a colori dei giornali; voglio sapere quello che ne pensi tu, con parole tue.»
Lei aveva assaggiato di nuovo i vini, trattenendoli in bocca, sorseggiando acqua tra una degustazione e l’altra perché pensava che così bisognava fare, osservando i suoi vividi occhi colmi di sfida.
«Questo.»
«Perché?»
«Non lo so. Mi piace di più, ecco tutto.»
Ma il padre adottivo si aspettava un giudizio più meditato. E così lei aveva aggiunto:
«Forse perché con questo non riesco a distinguere il gusto dal profumo e dalla sensazione del profumo in bocca. Non sono sensazioni separate ma una triade di piacere.»
Aveva scelto il vino giusto. C’è sempre una risposta giusta e una risposta sbagliata. Quella era stata un’altra prova superata con successo, un’altra tacca lungo la graduatoria dell’approvazione. Egli non poteva rifiutarla completamente, non poteva rimandarla indietro; Philippa lo sapeva. Un decreto di adozione non poteva essere revocato. Ciò rendeva tanto più importante che lei giustificasse la scelta da lui fatta adottandola, gli doveva un valore in cambio del denaro. Hilda, che si affannava per ore in cucina a preparare i pasti, mangiava e beveva poco. Sedeva a tavola tenendo gli occhi ansiosi fissi su di loro che ingurgitavano cibo. Hilda dava, loro prendevano. Era quasi troppo psicologicamente perfetto. La signorina Henderson domandò:
«Prova risentimento verso di loro perché l’hanno adottata?»
«No, gratitudine. Sono stata fortunata. Non credo che mi sarei tro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sangue innocente
  3. Parte prima - PROVA DI IDENTITÀ
  4. Parte seconda - ORDINE DI RILASCIO
  5. Parte terza - ATTO DI VIOLENZA
  6. Parte quarta - EPILOGO ALL’ORA DEL VESPRO
  7. Copyright