Lezioni napoleoniche
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Lezioni napoleoniche

Sulla natura degli uomini, le tecniche del buon governo e l'arte di gestire le sconfitte

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Lezioni napoleoniche

Sulla natura degli uomini, le tecniche del buon governo e l'arte di gestire le sconfitte

Informazioni su questo libro

Napoleone non è soltanto l'icona vivente dell'eroe guerriero, come Cesare e Alessandro. La sua immagine più sorprendente, e per noi oggi più affascinante, è quella del grande organizzatore e manager che porta nell'esercito e nello Stato una mentalità imprenditoriale, il sapiente motivatore di uomini, l'inventore delle tecniche della comunicazione e del consenso di massa. Il genio empirico che conosce la psicologia degli uomini e apre le carriere al merito. L'intenditore di libri e di teatro che trasforma la cultura in strumento di buon governo, creando il Louvre.
Il politico spregiudicato e lo statista lungimirante che mette in pratica le teorie di Machiavelli. Ma anche il vinto che a Sant'Elena ribalta la sconfitta nella vittoria che nessuno potrà più strappargli costruendo la leggenda romantica del martire e del liberatore di popoli. È questo Napoleone inventore della modernità che Ernesto Ferrero racconta in questo trattatello: sei "lezioni" intessute di detti memorabili, illuminazioni e spunti che sorprenderanno i curiosi di cose storiche e gli appassionati cultori di Napoleone e offriranno molti motivi di riflessione e quanti hanno responsabilità pubbliche e private.

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I

La natura degli uomini

L’uomo ama il meraviglioso. Si presta spontaneamente a farsi ingannare. La verità è che tutto è meraviglioso intorno a noi, tutto è un prodigio della natura…
NAPOLEONE, 1816
Napoleone ha degli uomini una conoscenza disincantata, crudamente pragmatica, il che non esclude qualche momento di benevolenza, di comprensione, addirittura di pietà per le loro troppo evidenti manchevolezze, anche se a Sant’Elena si lascia scappare che il disprezzo per gli uomini è il sentimento che lo domina.
Talento empirico e pragmatico quant’altri mai, cresciuto in un ambiente duramente conflittuale, una feroce Corsica tribale, dilaniata dalle fazioni, contesa tra francesi e inglesi, N. impara presto a conoscere virtù e difetti dei suoi simili e a servirsi lucidamente di entrambi. Ripete spesso che «dobbiamo prendere le cose come sono, non come vorremmo che fossero» e che gli individui si giudicano dalle azioni, non dalle parole. Lungo è il catalogo delle debolezze umane. Gli uomini sono superficiali, incostanti, imprevidenti, creduloni. L’ignoranza, miscelata alla vanità e all’amor proprio, non produce che errori. «I tre quarti degli uomini si occupano del necessario solo quando ne sentono il bisogno; ma allora è troppo tardi.» Suggerisce di non dare nulla a chi non vi abbia servito fedelmente per almeno dieci anni.
Come ogni amministratore di buone intenzioni, N. si scontra con la vischiosità delle cose e degli uomini, con le resistenze burocratiche e psicologiche, con le pigrizie di chi aborre le novità che possano turbare i ritmi della routine quotidiana. A Sant’Elena ricorda: «Bisogna aver fatto tutto quello che ho fatto io per sapere quanto è difficile lavorare bene. Talvolta ci voleva tutto il mio potere per riuscirvi. Se si trattava di camini, di tramezzi, di mobili nei palazzi imperiali per qualche singolo personaggio, allora correvano tutti. Ma se si trattava di prolungare il giardino delle Tuileries, di risanare un quartiere, di costruire le fogne, di realizzare un’opera pubblica che non toccava direttamente i privati, allora ci voleva tutto il mio carattere, dovevo scrivere sei, dieci lettere al giorno, diventare rosso di rabbia. È così che ho speso trenta milioni in sistemi fognari, di cui nessuno mi ringrazierà mai. Ho fatto abbattere migliaia di case, in faccia alle Tuileries, per formare il Carrousel e dare aria al Louvre. Quel che ho fatto è immenso, quel che progettavo ancora di più». Diceva che solo lui poteva sapere quale concentrato di perversioni, vizi e obbrobri è la metropoli («le capitali sono delle vere Babilonie») che si sforzava di abbellire e di rendere più confortevole, a cominciare dalle Halles («Il mercato è il Louvre del popolo»). Detestava Parigi e i parigini: troppo volubili, incostanti, schiavi delle mode, facilmente suggestionabili. Si trovava a proprio agio soltanto con i soldati: sapeva capirli, parlare il loro linguaggio, ascoltarli, provvedere di conseguenza. Loro lo chiamavano «il camarade», qualcuno gli dava persino del tu.
La «povera natura umana è sempre incompleta», è questa la prima cosa che un capo deve sapere. N. ama citare il caso di Gioacchino Murat, re di Napoli: diventa un gigante e si comporta da eroe quando comincia a sentir fischiare le pallottole e vede il pericolo davanti a sé, con i propri occhi. Lontano dal campo di battaglia, i pericoli soltanto immaginati diventano fantasmi tormentosi che egli non sa riportare alle giuste dimensioni: «Le impressioni sono più forti di lui: invece di dominarle, ne è sconvolto». Lo spericolato guerriero si tramuta in un politico inetto fino allo smarrimento. Inversamente, esistono uomini che hanno le capacità intellettuali e morali di «calcolare con discernimento tutte le probabilità di un evento, ma non possono sentire rombare il cannone senza provare un vero e proprio terrore». È vero tuttavia che «l’intelligenza rende idonei a tutto. Quando è vera penetrazione che va diritta per la sua strada, impara presto gli aspetti tecnici delle cose».
Si riconosce la capacità di andare al cuore dei problemi, di cogliere il nocciolo essenziale di una questione e di affrontarlo senza farsi distrarre da quanto è marginale o accessorio: «Il mio talento sta nel vedere chiaro. La linea perpendicolare è più corta di quella obliqua». Conosce bene la tormentosa solitudine del capo, chiamato a decisioni difficili che lui solo può prendere, addirittura angosciato dai dilemmi che deve sciogliere, ma finalmente freddo e anzi sereno dopo aver scelto, e deciso a realizzare con tutte le forze quello che ha stabilito. Se dà l’impressione di avere sempre una risposta pronta, spiega, è perché si documenta, studia, valuta le variabili e gli imprevisti. Si sente un forzato della riflessione e della decisione, ma quella pressione continua sembra tonificarlo; si considera uno schiavo del calcolo degli avvenimenti e della natura delle cose. È perfettamente consapevole della rapidità delle proprie elaborazioni, convinto che le fibre del suo cervello possiedano una maggiore mobilità.
Osserva i comportamenti umani con l’occhio freddo dell’etologo. Tende a rifiutare le generalizzazioni e nella valutazione dei comportamenti attribuisce un’importanza decisiva al contesto in cui gli avvenimenti si svolgono. Gli stessi uomini, dice, possono risultare stupidi o intelligenti a seconda delle circostanze. Quanti uomini d’intelligenza superiore non tornano a essere bambini più volte al giorno? E anche quando leggiamo le opere degli storici antichi, dobbiamo fare uno speciale sforzo d’immaginazione per «giudicare gli uomini e i governi quali erano al loro tempo, in mezzo alle circostanze in cui vivevano»: per contestualizzarli, diremmo oggi.
Anche l’autoritarismo e il liberalismo sono figli di un contesto, di una situazione, e come tali vanno valutati: «Fossi stato in America, sarei stato volentieri un Giorgio Washington. Ma se lui si fosse trovato in una Francia disgregata all’interno e aggredita dall’esterno, avrei voluto vedere se restava se stesso. Se lo fosse rimasto si sarebbe comportato da sciocco, avrebbe propiziato grandi sciagure». Amava dire di sé: «Sono un sovrano che ha un’anima repubblicana». Il primo dovere di ogni capo di Stato resta quello di evitare la deriva dell’anarchia e del disordine, ad ogni prezzo.
Se una lettura degli eventi umani deve sempre tener conto della cornice storica in cui si svolgono e attingere con scrupoloso vaglio critico a una pluralità di fonti, N. è il primo a sapere che quel che chiamiamo storia è una favola convenzionale, basata su complicate dietrologie e semplici induzioni. Confessa che egli stesso non avrebbe saputo spiegare pensieri e azioni che nascevano dalla necessità di dover rispondere agli imprevisti del caso, nel vivo dell’azione. Prefigurando le intuizioni di Pirandello, sa bene che esistono tanti Napoleoni quanti sono i suoi interlocutori e coloro che lo raccontano. Nessuno è meno affidabile di un testimone, essere confuso in preda a tensioni emotive e poco incline all’oggettività. E poi la storiografia è sempre quella dei vincitori: Catilina è stato affidato alla memoria storica sotto una luce odiosa soltanto perché il suo movimento politico ha perso. L’insuccesso provoca accuse ingiuste e volgari. Se all’inizio della sua carriera – spiega – non fosse riuscito a reprimere a cannonate i moti del Vendemmiaio (500 morti), del Fruttidoro e del Brumaio e se il successo non avesse riportato il sereno sull’orizzonte tempestoso della Francia, la sua figura sarebbe rimasta sinistra come quella di Catilina. Per gli stessi motivi, i Gracchi vennero dipinti come mestatori senza scrupoli, anche se alcuni storici li considerano disinteressati, generosi e leali: non a caso erano figli di Cornelia. Il fatto è che i Gracchi sostenevano i diritti del popolo contro un Senato oppressore e oligarchico: «Le loro virtù vennero gabellate come delitti».
N. non si aspetta gratitudine da nessuno, anche se la constatazione gli riesce particolarmente odiosa. Alle figlie del duca di Villequier, che lo ringraziavano della restituzione delle loro terre confiscate, spiega che la riconoscenza «è una parola molto poetica, ma priva di senso in tempi di rivoluzioni». Chi è giovane non può sapere che cos’è l’odio politico: «È una specie di lente, attraverso la quale si vedono gli individui, le opinioni e i sentimenti con i cristalli della propria passione. Ne consegue che nulla è un bene o un male in sé, ma soltanto a seconda del partito al quale si appartiene. È una maniera assai comoda di vedere le cose e noi ne approfittiamo. Anche noi abbiamo le nostre lenti e se non guardiamo le cose attraverso le nostre passioni, le guardiamo almeno attraverso i nostri interessi». Un vero uomo di Stato deve badare a che «la lente della politica non gli ingrandisca o rimpicciolisca troppo gli oggetti. E, mentre li osserva con la massima attenzione, deve badare alle redini che tiene in mano. Il carro che guida spesso ha cavalli diseguali».
Parlando in generale, «gli uomini sono dei bambini cresciuti», e di questo loro lato infantile occorre tenere conto. Non esistono qualità e difetti assoluti, ma correlati a momenti specifici (Machiavelli: «Gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni»). Quanto all’uomo politico, deve saper calcolare anche i minimi vantaggi che può trarre dai suoi stessi difetti: «Si governano più facilmente gli uomini facendo leva sui loro vizi che sulle loro virtù».
Come sempre, è la verifica sperimentale che ci permette di capire: «Per avere un’idea del carattere di un uomo, dobbiamo vederlo nella disgrazia». È un pensiero che applica anzitutto a se stesso, quando a Sant’Elena confida a Las Cases: «Ho imparato a conoscermi nella sventura».
Ma finché rimane nel vivo dell’azione, N. ama ripetere che due sono i veri motori delle azioni umane: la paura e l’interesse personale (con un corollario: gli uomini si preoccupano soltanto delle proprie necessità, non delle proprie capacità). Come accade con i bambini, la persuasione risulta più efficace del semplice uso della forza, anche se «obbedire, in generale, è temere». «La forza è una legge animale, è la convinzione a guidare gli uomini.» Su quella convinzione occorre lavorare: «Ci sono favole per tutte le età». Senza queste favole l’uomo non vive: esse sono il suo miraggio e la sua droga: «Vinco le mie battaglie con i sogni che i miei soldati fanno quando dormono». O ancora: «Non si può guidare un popolo se non gli si mostra un avvenire. Un capo è un venditore di speranze». È proprio la fede, lo zelo religioso a spingere i preti a «tentare imprese e sfidare pericoli che riuscirebbero insopportabili a un civile».
«È l’immaginazione che governa il mondo»: è lo stesso slogan del Maggio francese di un secolo e mezzo dopo, con una differenza: che gli studenti invocavano «l’immaginazione al potere», laddove per N. l’immaginazione coincide con l’arte di governare in modo innovativo. Ed è perfettamente napoleonico un altro slogan sessantottesco: siate realisti, chiedete l’impossibile. È noto come N. avesse bandito questo aggettivo dal proprio vocabolario. È lo scatto della fantasia che può arrivare là dove fallisce il razionalismo stretto: «Non mi piacciono i liberi pensatori. Solo la follia può sfidare il mistero». Ancora: «Nell’uomo forte tutto è ragione e insieme movimento: vuole impetuosamente quello che ha concepito attraverso una riflessione profonda». Perché «nell’immaginazione come nel calcolo la forza dell’ignoto è incommensurabile». A Sant’Elena N. traccia un abbozzo di scienza psicosomatica, spiegando al dottore i benefici effetti dei placebo: la vera arte di guarire il prossimo «è solo quella di addolcire, di sopire l’immaginazione».
Conversando con Metternich, arriva a sostenere l’ipotesi che la morte è il prodotto dell’assenza di una forte volontà di vita negli individui. Cede alla morte solo chi si rassegna a essa, chi non è in grado di sostenere con la vita un combattimento eroico. Non esistono misteri o segreti.
Il capo dev’essere una figura paterna forte e giusta: «deve avere energia senza fanatismo, princìpi senza demagogia, severità senza crudeltà». «La debolezza del potere supremo è la calamità più grave che possa colpire i popoli.» Anche perché «là dove un governo è debole, comanda l’esercito». Quanto a lui, «la mia politica è governare gli uomini come la maggioranza di essi vuol essere governata. È un modo, credo, di riconoscere la sovranità del popolo». In altre parole, le masse vivono in uno stato di perenne minorità e per questo l’autorità paterna deve provvedere al loro bene: «La buona politica è far credere ai popoli che sono liberi».
Detesta l’ideologia, «tenebrosa metafisica», disprezza la demagogia che adula il popolo (che va distinto dalla «canaglia»), attribuendogli «una sovranità che è incapace di esercitare». La libertà è forse un lusso che per il momento non ci si può concedere: «Perché un popolo sia libero, bisognerebbe che i governati fossero saggi e i governanti degli dei». «I soldati» spiega ancora «non sono repubblicani. Abituati a obbedire, sono contenti di vedere i borghesi piegare la schiena come loro. Un esercito è fondamentalmente monarchico.» Tuttavia queste masse che tendono a rimanere al di sotto della soglia dell’autocoscienza («la credulità è uno dei nostri vizi naturali») sono a loro modo indispensabili, l’equivalente della creta nelle mani di un vasaio. Occorre farle vivere soffiando lo Spirito sul materiale inerte che sono, coinvolgendole, stimolandole: «Gli uomini che hanno cambiato il mondo non ci sono arrivati cambiando i capi, ma smuovendo le masse». Da buon dialettico, N. è tuttavia capace di ammettere che «non c’è niente di più tirannico di un governo che si vuole paterno». Ma non v’è ombra di autocritica nell’affermazione di questo paternalista supremo.
N. crede nella sua buona stella e si rallegra che qualcuno possa crederlo protetto da un dio benigno, ma afferma con forza: «Dicono che sono fortunato solo perché so fare il mio mestiere. È tipico degli uomini deboli accusare gli uomini forti d’essere fortunati».
Nell’accezione napoleonica, l’impossibile va chiesto in primo luogo a se stessi: «Sono nato per lavorare. Conosco i limiti della mia vista e delle mie gambe, non quelli della mia capacità di lavoro». La conoscenza del proprio carattere e delle proprie risorse non esclude, ma anzi impone una sfida continua a superarsi, nella consapevolezza che esistono in noi energie segrete che non sappiamo di avere e che si rivelano solo nella prova del cimento, nelle sfide più grandi di noi. Come solo padrone N. riconosce «la natura delle cose», l’implacabile necessità delle cose da fare: «L’impossibile è l’alibi dei poltroni».
Si dichiara incapace d’odio come d’amore: «Un vero uomo non odia. L’uomo nato per gli affari e per esercitare l’autorità non vede le persone, non si deve occupare che delle cose, della loro importanza e delle loro conseguenze». «In me non c’è odio, non faccio nulla per vendetta.» «Il cuore di un uomo di Stato deve stare nella sua testa.» Metternich conferma: «Come uomo di Stato, non ammetteva alcun sentimento, non prendeva una decisione per amore o per odio». Anche le campagne militari sono una dura necessità, puro dovere espletato senza rancori: «La guerra che ho avviato contro la Russia è una guerra politica, l’ho fatta senza animosità. Avrei voluto risparmiarle i mali che essa stessa ha prodotto. Avrei potuto armare una grande parte del suo popolo proclamando la libertà dei servi della gleba, molti villaggi me l’hanno chiesto, ma ho rifiutato di prendere una misura che avrebbe votato alla morte, alla devastazione e ai supplizi troppe famiglie».
I suoi rapporti con i collaboratori prescindono da implicazioni personali e affettive. Dichiara: «Amo soltanto le persone che mi sono utili, per il tempo che mi sono utili». E postilla con rude sincerità: «Sarei pronto a baciare il culo di un uomo, se avessi bisogno di lui». Similmente, «in guerra tutto ciò che può essere utile è lecito». È poco incline a credere all’amicizia e sottoscrive il pensiero di Machiavelli: bisogna vivere con gli amici sapendo che domani potranno diventare dei nemici.
Sa che deve farsi temere dai suoi stessi compagni, in politica come in guerra: «Ogni mio generale crede di avere il mio stesso diritto a salire al trono. Qualsiasi politico di una certa importanza è convinto d’essere stato lui ad aprirmi la strada con il 18 Brumaio [il colpo di Stato del 1799 che seppellì il Direttorio e fece di lui il Primo Console]. Sono costretto a essere molto severo con loro, perché basterebbe un po’ di familiarità e vorrebbero subito dividere con me potere e denaro pubblico. Non mi amano, mi temono, ma questo mi basta. Li accetto nell’esercito, li metto ai posti di comando, ma li tengo d’occhio. Al mio primo insuccesso, saranno i primi ad abbandonarmi». Non apprezzava che Enrico IV si facesse chiamare «il buon Enrico». Diceva: «Anche i re fannulloni erano buoni». L’amore che ispirano i re «dev’essere un amore virile, fatto di timore rispettoso e di grande stima».
Difficile dunque sentirgli fare l’elogio dei suoi generali: «Si credono necessari e non sanno che ho cento generali pronti a prendere il loro posto». Nel 1808 ricordava: «Ero appena salito al trono e già vedevo risorgere delle pretese accanto a me. Moreau, Bernadotte, Masséna non mi perdonavano i miei trionfi … Hanno spesso tentato di rovesciarmi, o di dividere il potere con me. Poiché la divisione era meno rischiosa, dodici generali ordirono un piano per smembrare la Francia in dodici province. A me generosamente volevano lasciare Parigi e sobborghi. Per farmi accettare il piano, scelsero Masséna. Lui rifiutò. Mi conosceva bene».
N. si sente diviso tra i suoi eccessi di accentratore e la necessità di preparare una «buona macchina di governo» in grado di funzionare da sola, anche se alla sua testa ci fosse un sovrano mediocre. In lui l’assillo delle troppe cose da fare si somma alla diffidenza. Nel 1813 N. è costretto ad ammettere di non essere riuscito a formare capi militari in grado di fare la guerra al suo posto: «Li ho troppo abituati a non sapere che ubbidire. Non ce n’è uno, tra loro, in grado di comandare gli altri e tutti insieme non sanno ubbidire che a me». Eloquente la lettera di uno dei suoi più stretti collaboratori, il generale Berthier: «Non so più cosa fare. Quando voi non ci siete, dubito di me stesso. Sono ormai quindici anni che ho perso l’abitudine di pensare e che ricevo da voi tutte le idee».
Nel precipitare degli eventi del 1814-15 non sarà data controprova sul campo. N. spiegherà la decisione di affrontare la ritirata da Mosca nel cuore dell’inverno con la necessità di non lasciare Parigi abbandonata a se stessa per sei mesi. Sa bene che la Parigi aristocratica e borghese si lascia incantare dai venti dell’opinione, dalle ambizioni e dagli intrighi. Accadde quello che Metternich aveva sommessamente rimproverato a N.: «Il vasto edificio che aveva costruito era esclusivamente opera sua ed egli stesso ne è stato la chiave di volta. Ma questa costruzione gigantesca mancava di base. I materiali che la componevano altro non erano che le rovine di altri edifici, gli uni in disfacimento, gli altri senza consistenza. Rimossa la chiave di volta, la costruzione è crollata di schianto».
Nel bilancio finale della vicenda napoleonica, la dipendenza dei generali, l’assenza di un erede o di una squadra di eredi rappresenta un passivo grave. N. ne è consapevole quando riflette: «La società che la Rivoluzione ha ridotto in polvere, non sa che aver paura, non sa che ubbidire … La Storia non saprà mai quanto era difficile fare una monarchia con i materiali che avevo sotto mano … Per una ragione o per l’altra, sono pochi quelli che posso utilizzare, e io non posso aspettare. Bisogna che vada, che faccia, che avanzi. Mi ci vogliono occhi, braccia, gambe, e non mi posso servire di chi non ne ha. Più tardi ci saranno i loro figlioli, ma bisogna prima formarli, ci vuole tempo. Del resto i rivoluzionari invecchiano». La costruzione del nuovo è un’angosciosa battaglia contro il tempo: gestire l’oggi con il vecchio materiale umano che ci si ritrova, inventare un futuro sapendo di non poter aspettare.
A chi gli rimprovera di attribuire al genere umano una perfidia eccessiva, risponde: «Non sono propenso a considerarlo migliore di quel che è». «Il cuore umano è un abisso che inganna ogni calcolo. Lo sguardo più penetrante non riesce a sondarlo.» Alle persone che lo servono non chiede conto del loro passato, di quello che hanno detto o scritto: esige soltanto che nel nuovo impegno o missione lavorino alacremente, in buona fede e in concordia con gli altri. Chiede per prima cosa di essere obbedito ciecamente. Poiché comincia sempre «credendo al peggio», si vanta che è difficile sorprenderlo e sfida chiunque a ingannarlo: «Gli uomini dovrebbero essere dei gran farabutti per essere più cattivi di quello che io penso che siano». Cattivi ma abbastanza elementari, quindi prevedibili, anche se non è sempre vero che il volto è lo specchio dell’anima. Ottimo conoscitore d’uomini, dunque buon lettore di volti, N. non ama uno dei fondatori della fisiognomica, lo svizzero Lavater; diffida di Mesmer, Gall, Cagliostro, e in generale di quanti pretendono di applicare le scoperte di una presunta scienza, quale per esempio il magnetismo, alla risoluzione di problemi vecchi quanto l’uomo: «Quel Mesmer! La tinoz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lezioni napoleoniche
  3. Introduzione
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. Postfazione 2014
  11. Nota bibliografica
  12. Copyright