«Immagina qualcosa di rilassante. La spiaggia di Los Angeles: sabbia bianca, onde azzurre che la lambiscono, tu che passeggi sulla battigia…»
Jace socchiuse una palpebra. «Suona molto romantico.»
Il ragazzo seduto di fronte a lui fece un sospiro e si passò le dita fra i capelli scuri e arruffati. Anche se era una fredda giornata di dicembre, i licantropi non erano sensibili al clima quanto gli umani, e Jordan se ne stava senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate. Erano seduti l’uno di fronte all’altro su una macchia erbosa brunastra in una radura a Central Park, entrambi con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia, i palmi rivolti all’insù.
Accanto a loro, dal terreno affiorava una roccia suddivisa in formazioni più o meno grandi, e sopra una di quelle maggiori erano appollaiati Alec e Isabelle Lightwood. Quando Jace alzò lo sguardo, Isabelle ricambiò l’occhiata e gli fece un cenno d’incoraggiamento. Notando il gesto, Alec le diede uno schiaffetto sulla spalla. Jace lo vide fare la ramanzina a Izzy, probabilmente dicendole di non interrompere la sua concentrazione. Sorrise fra sé: nessuno di quei due aveva davvero motivo di starsene lì, ma erano venuti comunque per offrire “sostegno morale”. Nonostante tutto, Jace sospettava che in realtà Alec non sopportasse l’idea di non avere niente da fare in quei giorni, che Isabelle detestasse il fatto di vedere suo fratello da solo e che entrambi stessero evitando genitori e Istituto.
Jordan gli fece schioccare le dita sotto il naso. «Ma almeno mi stai ascoltando?»
Jace corrugò la fronte. «Lo stavo facendo, finché non siamo sconfinati nel territorio degli annunci di incontri per trovare l’anima gemella.»
«E va bene, allora dimmi: cos’è che ti fa sentire calmo e rilassato?»
Jace staccò le mani dalle ginocchia – la posizione del loto gli stava facendo venire i crampi ai polsi – e si appoggiò all’indietro sui gomiti. Un vento gelido scosse i resti delle fronde morte ancora appese ai rami degli alberi. Sullo sfondo del pallido cielo invernale, le foglie avevano un’eleganza sobria, come schizzi fatti a china. «Uccidere i demoni. Una bella esecuzione netta e decisa: quelle più incasinate sono fastidiose, perché dopo bisogna ripulire…»
«No» Jordan alzò le mani, esasperato. Da sotto le maniche della camicia spuntavano i tatuaggi che salivano a spirale lungo le braccia. Shanti shanti shanti. Jace sapeva che quella parola significa “la pace che supera ogni comprensione” e che andava ripetuta tre volte a ogni occasione in cui pronunciavi il mantra, per calmare la mente. In quei giorni, tuttavia, sembrava che niente potesse calmare la sua. Il fuoco nelle vene gli faceva viaggiare anche la testa a mille, con i pensieri che si succedevano troppo in fretta uno via l’altro come un’esplosione di fuochi d’artificio. Sogni vividi e saturi di colori come dipinti a olio. Aveva cercato di sfogarsi con gli allenamenti, ore e ore trascorse in palestra fra sangue, lividi, sudore e, una volta, persino dita fratturate. Alla fine era riuscito solo a irritare Alec con le continue richieste di rune di Guarigione e, in un’occasione memorabile, era arrivato ad appiccare accidentalmente il fuoco a una delle travi.
Era stato Simon a dirgli che il suo coinquilino faceva meditazione tutti i giorni, spiegando che imparare quella disciplina gli era servito per placare gli incontrollabili accessi di rabbia che spesso accompagnavano la trasformazione in licantropo. Da quello al suggerimento di Clary per cui “tanto vale provarci” il passo era stato breve, quindi eccoli lì, alle prese con la seconda sessione. La prima si era conclusa con Jace che aveva marchiato a fuoco il parquet di Simon e Jordan, motivo per cui quest’ultimo aveva suggerito di proseguire gli incontri all’aperto ed evitare così ulteriori danni alla proprietà.
«Nessuna uccisione» disse Jordan. «Stiamo cercando di farti sentire in pace. Sangue, morte e guerra sono tutto il contrario. Non c’è nient’altro che ti piaccia?»
«Le armi» fu la risposta di Jace. «Mi piacciono le armi.»
«Comincio a pensare che il problema qui sia la tua personale filosofia di vita.»
Jace si sporse in avanti, i palmi aperti sull’erba. «Io sono un guerriero. E sono stato cresciuto come un guerriero. Non avevo giocattoli, avevo armi. Ho dormito con una spada di legno fino all’età di cinque anni. I miei primi libri sono stati manuali medievali di demonologia con le pagine miniate. Le prime canzoni, formule per scacciare i demoni. So cosa mi dà pace, e non sono né la sabbia delle spiagge né il canto degli uccelli nella foresta pluviale. Voglio un’arma in mano e una strategia per vincere.»
Jordan lo guardò dritto negli occhi. «In pratica mi stai dicendo che ciò che ti dà pace è la guerra.»
Jace alzò le braccia e si rimise in piedi, spazzolandosi via l’erba dai jeans. «Ci sei arrivato, finalmente.» Sentì l’erba secca scricchiolare dietro di sé e, quando si girò, vide Clary che si infilava nello spazio fra due alberi e riemergeva nella radura, seguita a breve distanza da Simon. Aveva le mani dentro le tasche posteriori dei jeans, e rideva.
Jace rimase a guardarli per un istante – era strano osservare gli altri quando non sapevano di avere spettatori. Ricordò la seconda volta in cui aveva visto Clary, dall’altra parte della sala principale al Java Jones. Anche allora rideva e chiacchierava con Simon come stava facendo in quel momento. Ripensò all’insolita fitta di gelosia che gli aveva colpito il petto, togliendogli il fiato, e al senso di soddisfazione che aveva provato quando lei si era allontanata da Simon per andare a parlargli.
Come cambiavano le cose. Era passato dai morsi della gelosia nei confronti di Simon a un riluttante rispetto per la sua tenacia e il suo coraggio, arrivando infine a considerarlo un amico, anche se dubitava che l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. Jace vide Clary guardare nella sua direzione e mandargli un bacio, mentre i suoi capelli rossi ondeggiavano legati in una coda di cavallo. Era così piccola… Delicata, una bambola, aveva pensato prima di scoprire la sua forza.
Clary raggiunse Jace e Jordan, mentre Simon si fermò per arrampicarsi sul masso dove sedevano Alec e Isabelle; appena si lasciò cadere accanto a Izzy, lei si sporse per dirgli qualcosa, il viso nascosto dietro la cortina di capelli corvini.
Clary si fermò di fronte a Jace, puntandosi sui talloni con un sorriso. «Come sta andando?»
«Jordan vuole che pensi alla spiaggia» rispose lui, depresso.
«È testardo» disse Clary, rivolta a Jordan. «Quello che vuole dire è che apprezza molto il tuo impegno.»
«A dire il vero no» le fece eco Jace.
Jordan sbuffò. «Senza di me saresti in giro per Madison Avenue a sprizzare scintille da tutti gli orifizi.» Si alzò in piedi e si rimise la giacca verde. «Il tuo ragazzo è pazzo» comunicò infine a Clary.
«Sì, ma è anche uno schianto» commentò lei. «Va tenuto in considerazione.»
Jordan fece una smorfia, ma si vedeva che era divertito. «Io vado. Mi trovo con Maia in centro.» Fece il saluto militare e si dileguò in mezzo agli alberi, scomparendo con il passo felpato del lupo qual era sotto le spoglie umane. Jace lo guardò allontanarsi. Improbabili salvatori, pensò. Se solo sei mesi prima qualcuno gli avesse detto che sarebbe finito a prendere lezioni di comportamento da un licantropo, non gli avrebbe mai creduto.
Negli ultimi mesi Jordan, Simon e Jace avevano stretto una sorta di amicizia. Jace non riusciva a fare a meno di sfruttare casa loro come una specie di rifugio, lontano dalle pressioni quotidiane dell’Istituto e dai continui segnali che il Conclave non era ancora preparato allo scontro con Sebastian.
Erchomai. Quella parola gli sfiorò la mente con il tocco leggero di una piuma, facendolo rabbrividire. Vide l’ala di un angelo, staccata dal corpo, in una pozza di sangue dorato.
Sto arrivando.
«Cosa c’è che non va?» gli chiese Clary; all’improvviso Jace sembrava distante anni luce. Da quando il fuoco celeste era entrato nel suo corpo, aveva sviluppato la tendenza a perdersi più spesso nei propri pensieri. Clary aveva la sensazione che quello fosse un effetto collaterale del suo sopprimere le emozioni. Avvertì una debole fitta: quando l’aveva conosciuto, Jace le era apparso sin troppo controllato, e soltanto una piccola parte della sua vera personalità riusciva a trapelare attraverso le crepe della sua armatura, come la luce attraverso le fessure di un muro. C’era voluto molto tempo per abbattere quelle difese. E ora il fuoco dentro le sue vene lo stava costringendo a rialzarle, a soffocare le emozioni per ragioni di sicurezza. Ma quando il fuoco fosse scomparso, sarebbe stato in grado di smantellarle di nuovo?
Jace sbatté le palpebre, riscosso dalla voce di lei. Il sole invernale era alto in cielo e freddo; gli metteva in risalto le ossa del viso e le ombre sotto gli occhi. Le prese la mano, inspirando profondamente. «Hai ragione» disse con quella voce pacata e seria che riservava soltanto a lei. «Mi aiutano. Le lezioni con Jordan, intendo. Mi aiutano, e lo apprezzo.»
«Lo so.» Clary gli strinse il polso. Sentì la sua pelle calda sotto la mano, come se, dal suo incontro con Gloriosa, avesse raggiunto una temperatura di svariati gradi superiore alla norma. Il cuore di Jace continuava a battere al solito ritmo regolare, ma quando lei lo toccava sentiva il sangue nelle vene vibrare con l’energia cinetica di un incendio sul punto di scoppiare.
Si mise in punta di piedi per dargli un bacio sulla guancia, ma lui si girò e le loro labbra si sfiorarono. Da quando quel fuoco aveva iniziato a cantargli nelle vene, non avevano fatto niente di più che baciarsi, e pure quello con prudenza. Anche in quel momento Jace era cauto, la sua bocca scivolava morbida contro quella di lei, la mano le racchiudeva la spalla.
Per un attimo furono corpo a corpo, e Clary sentì pulsare il sangue di lui. Jace si mosse per tirarla più vicino a sé, e fra loro passò una scintilla improvvisa, secca, come il crepitio della corrente statica.
Jace interruppe il bacio e arretrò, esalando un respiro; prima ancora che Clary potesse dire qualcosa, un coro di applausi beffardi eruppe dalla vicina collinetta. Simon, Isabelle e Alec li stavano prendendo in giro. Jace fece un inchino, mentre Clary si allontanò un po’ timidamente, agganciando i pollici nella cintura dei jeans.
Jace sospirò. «Pensi che dovremmo unirci ai nostri fastidiosi amici guardoni?»
«Sfortunatamente, è l’unico genere di amici che abbiamo.» Clary gli diede una spallata al braccio, e insieme camminarono verso la roccia. Simon e Isabelle, seduti fianco a fianco, parlavano a bassa voce. Alec era un pochino in disparte, lo sguardo fisso sul cellulare e un’espressione di intensa concentrazione.
Jace si sedette accanto al suo parabatai. «Ho sentito dire che se fissi quei cosi abbastanza a lungo, prima o poi squillano.»
«Sta scrivendo un messaggio a Magnus» spiegò Isabelle, lanciando al fratello uno sguardo di disapprovazione.
«Non è vero» rispose lui di scatto.
«E invece sì» disse Jace, sporgendosi per sbirciarlo da sopra una spalla. «E gli hai anche telefonato. Vedo le tue chiamate in uscita.»
«È il suo compleanno» spiegò Alec chiudendo di scatto il cellulare. In quei giorni sembrava più emaciato, era quasi pelle e ossa nel maglione azzurro liso, con tanto di buchi sui gomiti; anche le labbra erano tutte mordicchiate e screpolate. A Clary dispiaceva moltissimo. Dopo che Magnus l’aveva lasciato, Alec aveva vissuto la prima settimana immerso in una specie di nebbia fatta di tristezza e incredulità. Nessuno di loro riusciva davvero a capacitarsene. Clary era sempre stata convinta che Magnus amasse Alec, che lo amasse sul serio, ed era evidente che anche Alec aveva creduto la stessa cosa. «Non voglio lasciargli pensare che non ho… che me ne sono dimenticato.»
«Ti stai struggendo» commentò Jace.
Alec fece spallucce. «Senti chi ...