L’amore non si lascerà spronare
a ciò che non gli aggrada.
WILLIAM SHAKESPEARE
— Pianeta Terra chiama Aria. Ci sei?
Alzo lo sguardo dal mio TouchMe. Kiki e Bennie mi stanno fissando come se fossi una creatura di un altro pianeta.
— Non puoi prenderti una pausa durante la pausa pranzo? — Kiki indica la sua insalata mista quasi intatta, poi la sala del ristorante Da Paolo, all’interno del palazzo governativo in cui lavoro da due settimane. — Cosa c’è di così importante da non poterci concedere la tua attenzione per un’ora?
— Mezz’ora — la correggo. — Scusatemi, è solo che al lavoro c’è molto più… lavoro di quanto pensassi.
Archiviare, preparare i caffè ed essere l’assistente non retribuita di Benedict è tutto meno che gratificante. E anche se serve a farmi uscire di casa ogni giorno, lontano dagli occhi da falco di mia madre, mi annoia a morte.
— Be’, raccontaci qualcosa! — dice Bennie. Oggi mi ricorda una bambina, coi capelli raccolti in una coda e il vestito da giorno blu e verde. — Sei praticamente precipitata giù da Aire. Non so più niente di quello che combini, a parte le foto di te e Thomas che ho visto on line. Sembra che qualcuno si sia dato da fare! Con la lingua, intendo.
— Bennie ha ragione — continua Kiki. — Certe cose dovreste farle in camera da letto.
Alzo gli occhi al cielo. — È solo una messa in scena per il pubblico.
Le ragazze si scambiano un’occhiata, confuse.
— Cioè… è importante che facciamo vedere alla gente di essere innamorati — spiego. — Importante per le elezioni.
Ripenso all’altra sera, a quando Thomas e io siamo usciti a cena nel Lower East Side e ci hanno scattato una foto fuori dal ristorante, a come il suo braccio, quando mi ha attirato a sé, aderiva perfettamente alla mia vita, al suo alito profumato dalla gomma alla cannella che stava masticando mentre si è chinato per baciarmi sulla guancia. A come, per una frazione di secondo, ho sentito che forse era proprio così che le cose dovevano andare… almeno finché uno dei paparazzi non ha urlato: «Sulla bocca, ragazzi!»
— Questo vuol dire che siete innamorati? — Kiki prende un’altra foglia d’insalata e mi fissa in modo enigmatico. — Che ti è tornata la memoria?
La sua domanda mi fa irrigidire e mi irrita. Gli unici ricordi che mi sono tornati sono sogni confusi in cui non riesco a vedere Thomas in faccia. Lo so che Kiki vuole che mi confidi con lei, ma non ho niente da dire su Thomas e con Hunter, be’… credo che neanche lei capirebbe. — Possiamo parlare di qualcos’altro?
— Certo — interviene Bennie, accorgendosi del mio disagio. — Raccontaci la tua giornata, dall’inizio alla fine. Vai!
— Dunque, vediamo… mi sveglio ogni mattina…
— Non mi dire — m’interrompe Kiki.
— … mi lavo i denti, faccio la doccia…
— Aria! Vogliamo le parti interessanti!
— Okay, okay — dico ridendo. — Mio padre e io prendiamo l’aerovia insieme…
— Che vi dite?
— Non parliamo molto. Del più e del meno, del tempo, del matrimonio. Il suo ufficio è all’ultimo piano dello stesso palazzo dove lavoro, ma durante il giorno lo vedo raramente. Diciamo che sono la schiava dell’ufficio. Porto acqua e caffè agli impiegati quando hanno sete, riorganizzo gli archivi più vecchi e verifico le relazioni sulle purificazioni dei mystic. Piuttosto noioso, a essere sincera.
Bennie beve un sorso della sua cola dietetica. — Ti sei fatta qualche amico?
Penso alle persone che lavorano al mio piano. Tutti più grandi e, anche se sono cortesi, mi sono accorta subito che la loro è una gentilezza finta. Fanno così solo perché sanno chi sono. — Non direi. Mi mancate.
— Anche tu ci manchi! — grida Kiki. — Perché non ti licenzi e basta? Non ti divertiresti di più a stare con noi?
— Sto con voi — le faccio notare, indicando il tavolo intorno al quale siamo sedute.
Kiki mi fa segno con la mano di finirla. — Dovresti stare con noi tutto il tempo. Ieri siamo andate a farci manicure e pedicure in quella SPA in centro che ci piace tanto, e mentre la signora mi metteva lo smalto sono scoppiata a piangere, perché non riuscivo a non pensare che tu adori farti mettere lo smalto sulle unghie. — Tira su col naso. — Questa è la nostra ultima estate prima del tuo matrimonio, Aria, poi sarà tutto diverso.
Sto per dire che quando sarò sposata non cambierà niente, ma in cuor mio so che non è vero. — Non posso licenziarmi. Ma vedrò di passare più tempo insieme a voi.
— Bene — commenta Bennie, sfoggiando un sorriso. — Puoi cominciare questo fine settimana.
— Che succede questo fine settimana? — chiedo, sapendo che probabilmente Thomas vorrà passare un po’ di tempo insieme a me.
Kiki mi fulmina con lo sguardo. — Potrai anche passarla una notte lontana da Thomas. — Le sue parole sono taglienti e la cosa mi sorprende, mi domando se non sia ancora arrabbiata per la mia relazione segreta e l’overdose. Non necessariamente per i fatti in sé, ma perché non ne è stata informata prima di chiunque altro.
— E con questo che vorresti dire?
— Che mi manchi — piagnucola lei. — Lo vedi praticamente ogni giorno. Che fine hanno fatto le nostre serate tra ragazze? Spettegolare, guardare programmi scemi alla TV, scambiarci il reggiseno…
— Non ci siamo mai scambiate il reggiseno — le faccio notare. — E non ci tengo affatto.
— Non intendevo letteralmente, è un modo di dire. Credo. Comunque sia, prima facevamo tutto insieme, Aria. Adesso invece è come se a malapena ti conoscessi.
— Va bene, hai vinto, organizziamo una serata per sole donne.
— No! — urla Bennie. Kiki e io la guardiamo, confuse. — Volevo dire… ho in programma un piccolo soirée. I miei sono in vacanza in Brasile, mi è sembrata un’ottima occasione per fare qualcosa di divertente. — Si mette a scrivere sul TouchMe. — Non fate caso a me. Sto solo appuntando dei promemoria per ricordarmi di chiamare la ditta di catering, magari un DJ… oh, e ci servirà anche qualche barista…
— Ehi, frena! — le dico. — Perché non facciamo qualcosa per pochi intimi? Solo noi ragazze?
— Smettila di essere così egoista! — Kiki si è fatta rossa in viso, si slaccia uno dei bottoni della camicetta blu modello Oxford e si sventaglia col tovagliolo. — Vorrei combinare qualcosa anch’io! Flirtare con qualcuno! Voi avete tutte e due una relazione e invece io non ho nessuno — protesta, mettendo il broncio. — Vorrei soltanto che un ragazzo mi baciasse. Sto forse chiedendo troppo? Magari con un po’ di lingua.
Bennie ci pensa su un momento. — Nessun problema, Kiki. Chiederò a Kyle di portare qualche amico. Lo scorso semestre c’era un ragazzo nel suo corso di letteratura che ho sempre trovato sexy in un modo, come dire, da studente del college. Capelli marroni, occhi marroni…
— Oh, ma io vado pazza per il marrone — commenta Kiki.
— … mi sembra che si chiamasse Marco — continua Bennie. — O forse Paul. Non me lo ricordo. Comunque, ci divertiremo un mondo! — Smette di scrivere e mi guarda. — Pensavo di invitare un po’ di gente dalla parte dei Foster. Ti sta bene?
Penso a Gretchen Monasty, a quando alla demolizione mi aveva detto che alcune cose dovrebbero rimanere divise. Be’, al diavolo Gretchen. — Certo, Bennie. Nessun problema.
Lei fa un largo sorriso. — Ci pensate? Sarà la prima volta che i ragazzi delle due fazioni fanno festa insieme. Non sarà facile, all’inizio, ma bisogna pur cominciare da qualche parte e una festa è un modo come un altro, no? Aria, assicurati soltanto di strusciarti addosso a Thomas davanti a tutti. Fai vedere alla gente che cos’è il vero amore! — Riabbassa lo sguardo sullo schermo. — Cacchio. La mia lista di cose da fare è già lunga un chilometro. Mi servirebbe una mano.
— Sono a tua completa disposizione — dice Kiki, guardandomi come per dire: “E tu?”
Prima che possa rispondere, il mio TouchMe squilla. Sullo schermo c’è un messaggio di Patrick Benedict: SEI IN RITARDO.
— Ragazze, devo andare. — Faccio un cenno al cameriere e gli dico di mettere il pranzo sul mio conto.
— Allora, verrai questo fine settimana? — mi chiede Bennie. Nella sua voce c’è una nota di speranza che non mi sento di stroncare e mi ritrovo a dirle di sì.
— Direi che possiamo accontentarci… — commenta Kiki. Sembra che i suoi occhi verdi riescano a guardarmi dentro. — Per ora. Non credere che non ti stia organizzando un addio al nubilato da manicomio, carina.
L’ufficio in cui lavoro è al duecentesimo piano del grattacielo Rivington, appena sopra la Quarantesima Strada, a circa trenta isolati dal nostro appartamento. Prima della Conflagrazione, questa parte della città era chiamata Hell’s Kitchen. Adesso è il quartier generale dei Rose.
Saluto Kiki e Bennie, poi passo sotto allo scanner nell’atrio e mi viene accordato l’accesso. Sono le due, il che significa che è l’ora del mio giro di caffè pomeridiano.
Dopo aver preso l’ascensore, cammino lungo il corridoio e passo davanti all’ufficio di Benedict, a quelli di altri dirigenti, e a una porta d’acciaio senza serratura né touchpad. Non so dove conduca e a quanto pare non lo sa nessuno. Poi il corridoio si apre su un labirinto di séparé, che è dove lavoro io.
Mi sfilo il cardigan e lo appendo alla parete della postazione che mi hanno assegnato. Accanto a me ci sono altre venti scrivanie, equidistanti l’una dall’altra. La pila di cartelline sul mio tavolo è diventata così alta che rischia di crollare. “Appunto mentale: vedi di smaltirle.” Sono copie delle relazioni sulle purificazioni che risalgono a oltre dieci anni fa, prima che fosse tutto ottimizzato elettronicamente. Devo trasferire i dati nel sistema TouchMe, ma l’operazione sta portando via più tempo del previsto.
Spero che Benedict non si arrabbi con me.
— Eleanor, vuoi un caffè? — chiedo alla donna che occupa la scrivania accanto alla mia. Ha una trentina d’anni, e i capelli biondo platino così lucidi che fanno male agli occhi a guardarli.
— Un mocaccino — risponde lei — magro. — Mi parla come se fossi dura di comprendonio. — Il che vuol dire senza grassi.
— Okay. Nient’altro?
— No, è solo che il mocaccino di ieri era grasso. Il latte era almeno al due per cento.
Nonostante le sue parole, sono abbastanza sicura che il vero messaggio sia: “Sei stupida e ti odio.”
Io annuisco e ripeto: — Magro. — Passando poi vicino a un tizio con una cravatta gialla e rosa curvo sulla scrivania, che picchietta sul TouchMe e ogni tanto si lascia sfuggire una risatina stridula, dico: — Caffè, Steve?
— Alla nocciola. Freddo. — Ha una voce monocorde, quasi robotica. — Doppio. Zuccherato — aggiunge senza neanche guardarmi in faccia.
— Agli ordini. — Mi allontano e continuo il mio giro. Per non dimenticarmi niente segno tutte le richieste su un blocchetto.
Marlene, quattro scrivanie più avanti, chiede un americano senza zucchero.
Robert, dall’altra parte della stanza, vuole un tè. — Ho lo stomaco delicato, il caffè è troppo acido — mi spiega.
Prendo le ordinazioni nel resto dell’ufficio open space, poi torno nel corridoio dove ci sono le postazioni personali. Lascio Benedict per ultimo, visto che ha l’abitudine di urlare, invece che parlare. Qui è l’unico che non sembra intimidito dal mio cognome, probabilmente perché lavora a stretto contatto con mio padre e sa già di essere nelle sue grazie.
Annoto qualche altra richiesta – due caffè normali, un muffin al pistacchio e un cappuccino freddo – prima di bussare con esitazione alla porta di Elissa Genevieve.
— Elissa?
— Entra pure!
La porta si apre ed entro nel suo ufficio, che ha le pareti dipinte di un giallo solare. La stanza è priva di qualsiasi tipo di ingombro, contiene solo una scrivania oblunga e uno scaffale stretto per i libri.
— Aria! — Sembra sinceramente contenta di vedermi e mi indica una sedia vuota.
— Grazie — le dico sedendomi.
Elissa mi piace. È l’unica qui dentro a sembrare una persona vera. Lavora con Benedict, si occupa di monitorare l’energia mis...