
- 196 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Passione
Informazioni su questo libro
La storia della passione non corrisposta di Henri, cuoco nell'esercito di Napoleone, per la figlia lesbica di un gondoliere veneziano, sullo sfondo di un'appassionante pagina di storia. Un'opera che fonde temi scabrosi e fantasia, indagando il confine segreto tra l'amore e l'ossessione.
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Informazioni
Print ISBN
9788804491156eBook ISBN
97888520544331
L’imperatore
Bonaparte aveva una vera passione per il pollo e i suoi cuochi erano costretti a lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro. Quella sì che era una cucina! Dappertutto si vedevano polli spennati: quelli crudi appesi ai ganci, altri infilzati negli spiedi sul fuoco, ma perlopiù gettati tra la spazzatura perché l’imperatore era occupato e non aveva il tempo di mangiarli.
È strano ricevere ordini da un appetito.
Fu il mio primo incarico. All’inizio tiravo il collo ai polli, ma presto toccò a me portare il piatto attraverso il fango fino alla sua tenda. Gli piacevo perché sono basso. Forse esagero. Non gli dispiacevo. A lui piaceva solo Joséphine e gli piaceva esattamente come il pollo.
L’imperatore non aveva mai avuto un cameriere più alto di un metro e mezzo. Esigeva servitori piccoli e cavalli enormi. Il suo cavallo preferito era alto diciassette palmi, con la coda tanto lunga da avvolgere un uomo tre volte lasciandone abbastanza per fare una parrucca alla sua amante. Quel cavallo aveva l’occhio cattivo e nella stalla c’erano stati tanti cadaveri quanti in cucina. Quelli che erano sopravvissuti ai suoi calci fulminei erano stati cacciati via dal padrone perché il mantello dell’animale non risplendeva o perché il morso non era lucidato a dovere.
«Un nuovo governo deve abbagliare e stupire» diceva. Pane e circo, credo fossero le sue parole. Non c’è da meravigliarsi allora che, quando finalmente trovò lo stalliere giusto, questi avesse lavorato in un circo e arrivasse appena al fianco del cavallo. Quando lo strigliava saliva su una scala ben solida con il vertice triangolare, ma quando doveva addestrarlo saltava sulla sua lucida groppa con un balzo agile. Il cavallo indietreggiava e sbuffava, ma non riusciva a disarcionarlo, nemmeno se piegava il muso nel fango e sollevava le zampe posteriori verso Dio. Poi sparivano in una nube di polvere e cavalcavano per miglia, e per tutto il tempo il nanerottolo stava aggrappato alla criniera sbraitando in una lingua strana che nessuno di noi capiva.
Ma lui capiva tutto.
Faceva ridere l’imperatore e non si fece domare dal cavallo. Così rimase. Rimasi anch’io. E diventammo amici.
Una notte nella cucina da campo la campanella si mette a suonare come se dall’altra parte ci fosse il Diavolo in persona. Balziamo tutti in piedi: uno corre agli spiedi, un altro sputa sull’argenteria e io m’infilo gli stivali per un’altra passeggiata lungo i solchi gelati. Il nano sghignazza e dice che preferisce di gran lunga affrontare il cavallo piuttosto che il padrone. Ma noi non ridiamo.
Il pollo è pronto, guarnito con il prezzemolo che il cuoco coltiva amorevolmente nell’elmetto di un soldato morto. Fuori i fiocchi di neve cadono così fitti che mi pare di essere una figuretta nella tormenta disegnata da un bambino. Devo strizzare gli occhi per non perdere di vista la luce giallastra che rivela i contorni della tenda di Napoleone. È l’unico ad avere una lampada a quest’ora della notte.
Manca il combustibile. Non tutti i soldati hanno una tenda.
Quando entro è solo, è seduto e tiene una sfera davanti a sé. Non si è accorto della mia presenza e continua a rigirarla con entrambe le mani, accarezzandola teneramente come se fosse un seno. Tossicchio e quando di colpo solleva lo sguardo sul suo volto c’è la paura.
«Appoggialo qui e vattene.»
«Non desidera che lo trinci, signore?»
«Ci penso io. Buonanotte.»
So cosa intende fare. Non mi chiede quasi mai di tagliare il pollo. Appena me ne sarò andato solleverà il coperchio, prenderà il pollo e lo infilerà in bocca. Vorrebbe avere la bocca grande quanto la faccia per riempirla con un pollo intero.
Con un po’ di fortuna, domani mattina troverò l’osso a forchetta.
Non c’è calore, solo gradi di freddo. Ormai non so più cosa significhi sentire il tepore del fuoco vicino alle gambe. Persino nella tenda della cucina, il luogo più caldo di tutto il campo, il calore è troppo debole per diffondersi e le pentole di rame si appannano. Una volta alla settimana mi tolgo le calze e mi taglio le unghie, e per questo gli altri mi considerano un damerino. Siamo tutti bianchi, col naso rosso e le dita blu.
Il tricolore.
Lo fa per conservare i polli.
Usa l’inverno come una dispensa.
Ma questo accadde tanto tempo fa. In Russia.
Adesso la gente parla delle sue imprese come se avessero senso. Come se i suoi errori più disastrosi fossero solo il risultato della sua arroganza o della sfortuna.
Invece era il caos.
Devastazione, stupro, massacro, carneficina, fame, sono parole con cui cerchiamo di imprigionare la sofferenza. Parole sulla guerra facili a leggersi.
Ti sto raccontando una favola. Fidati.
Volevo diventare tamburino.
L’ufficiale di reclutamento mi diede una noce e mi domandò se sarei riuscito a schiacciarla tra pollice e indice. Non ci riuscii e quello disse ridendo che un tamburino doveva avere mani forti. Tesi il palmo su cui stava la noce e gli lanciai la stessa sfida. Arrossì e ordinò a un tenente di condurmi alle cucine. Il cuoco mi squadrò da capo a piedi e decise che con la mia esile costituzione non sarei stato un buon macellaio. Non faceva per me la confusione quotidiana di carni senza nome da tagliare per lo stufato. Mi disse che ero fortunato, che avrei servito Bonaparte in persona e per un breve, luminoso istante mi immaginai apprendista pasticciere impegnato a erigere delicate torri di zucchero e panna. Ci dirigemmo verso una piccola tenda sorvegliata da due guardie impassibili.
«La dispensa personale di Bonaparte» annunciò il cuoco.
Tutto lo spazio fino alla volta della tenda era occupato da gabbie di legno rudimentali, grandi circa un metro quadrato, accatastate in file così serrate che un uomo vi sarebbe passato in mezzo a stento. In ogni gabbia due o tre polli, a cui erano stati mozzati il becco e gli artigli, spiavano con occhi vacui attraverso le assicelle. Non sono un codardo e ho assistito a molte mutilazioni necessarie nelle nostre fattorie, ma non ero preparato al silenzio. Non si udiva un fruscio. Se non fosse stato per gli occhi sarebbero sembrati morti. E sarebbe stato meglio che lo fossero. Il cuoco si voltò per andarsene. «Il tuo compito è tenere pulite le gabbie e tirare il collo a queste bestie.»
Scappai al porto. Le pietre erano tiepide in quell’inizio d’aprile e io avevo viaggiato per giorni interi, così mi addormentai e sognai un tamburo e un’uniforme rossa. Mi svegliò uno stivale, duro e lucido, dal familiare odore di sella. Sollevai la testa e lo vidi appoggiato sul mio stomaco, come la noce posata sul mio palmo. Senza guardarmi in faccia, l’ufficiale disse: «Ora sei un soldato e avrai mille occasioni per dormire all’addiaccio. In piedi».
Sollevò lo stivale e, mentre mi alzavo, mi assestò un calcio. Continuando a guardare davanti a sé, commentò: «Natiche sode. È già qualcosa».
Ben presto venni a sapere della reputazione che aveva, ma non mi infastidì mai. Forse l’odore di pollo lo teneva lontano.
La nostalgia di casa mi prese sin dall’inizio. Mi mancava mia madre. Mi mancavano le colline da cui i raggi del sole fendevano la valle. Mi mancavano tutte le piccole cose quotidiane che avevo odiato. A primavera le bocche di leone screziano i campi e il fiume continua a scorrere pigramente persino dopo mesi di piogge. Quando arrivarono gli ufficiali di reclutamento eravamo una banda di ragazzi coraggiosi e allegri, e non vedevamo l’ora di lasciarci alle spalle il granaio dal tetto rosso e i vitelli che avevamo fatto nascere. Ci arruolammo immediatamente e quelli di noi che non sapevano scrivere fecero uno scarabocchio pieno di ottimismo sul foglio.
Alla fine di ogni inverno nel nostro villaggio accendiamo un falò. Quell’anno l’avevamo preparato per settimane, innalzandolo come una cattedrale, con una guglia blasfema di trappole rotte e di paglia infestata di pulci. Ci sarebbero stati vino e balli a volontà e un’innamorata nel buio e siccome dovevamo partire soldati ci era permesso illuminare la notte. Al tramonto affondammo cinque tizzoni ardenti nel cuore della pira. Mi si seccò la bocca nell’udire il crepitio della legna che prendeva fuoco e si spaccava alla prima fiammata. Avrei voluto essere un santo protetto da un angelo custode, così mi sarei lanciato nel fuoco per purificarmi dei miei peccati. Vado a confessarmi, ma senza fervore. Bisogna farlo col cuore, o non serve a nulla.
Siamo gente tiepida malgrado i giorni di festa e il duro lavoro. Quasi nulla ci tocca, ma desideriamo essere toccati. Passiamo le notti insonni sperando che l’oscurità si fenda e ci mostri una visione. Ci spaventa l’affettuosità dei nostri figli e facciamo in modo che crescano come noi. Tiepidi come noi. In una notte come questa, in cui le mani e i volti scottano, riusciamo a credere che il futuro ci mostrerà un angelo in un vaso e che improvvisamente i boschi familiari riveleranno un altro sentiero.
L’ultima volta che accendemmo il falò, un vicino cercò di scardinare le assi della sua casa. Diceva che era solo un mucchio puzzolente di letame, pulci e carne raggrinzita. Voleva bruciare tutto. La moglie cercava di trattenerlo. Era una donna forte, abituata alla zangola e ai campi, ma non riuscì a fermarlo. L’uomo prese a pugni il legno stagionato finché la sua mano non assomigliò alla testa scorticata di un agnellino. Poi si sdraiò vicino al fuoco, lasciandosi cospargere di cenere dal vento fresco, e vi rimase fino all’alba. Non ne parlò mai in seguito. Neppure noi ne parlammo. Da allora non ha più assistito ai falò.
Talvolta mi domando perché nessuno di noi l’avesse fermato. Forse volevamo veramente che distruggesse la casa, che lo facesse per noi. Che abbattesse le nostre lunghe giornate e ci aiutasse a cominciare una nuova vita. Puliti e semplici, con le mani tese. Ma non sarebbe accaduto, nemmeno se Napoleone avesse appiccato il fuoco a mezza Europa.
Ma avevamo forse un’altra possibilità?
Si fece giorno e noi ci incamminammo con le provviste di pane e formaggio stagionato. Le donne piangevano e gli uomini ci davano pacche sulle spalle, dicendo che per un ragazzo la vita del soldato è meravigliosa. Una bambina che mi seguiva dappertutto mi tirò una manica, aggrottando le sopracciglia con aria preoccupata.
«Ucciderai degli uomini, Henri?»
Mi inginocchiai vicino a lei. «Non uomini, Louise, solo il nemico.»
«Chi è il nemico?»
«Chi non sta dalla nostra parte.»
Andavamo a raggiungere l’Armata d’Inghilterra a Boulogne. Boulogne, una sonnolenta città portuale con una manciata di bordelli, improvvisamente diveniva il trampolino di lancio dell’impero. A sole venti miglia, ben visibile nelle giornate serene, c’era l’Inghilterra e la sua arroganza. Conoscevamo gli inglesi: sapevamo che mangiavano i figli e si facevano beffe della Santa Vergine. Si suicidavano con una leggerezza indecorosa. L’Inghilterra ha il più alto tasso di suicidi del continente. Me l’ha detto un prete. John Bull mangia carne inglese e beve birra schiumosa. E in questo stesso istante se ne sta lungo le coste del Kent, immerso nell’acqua sino alla cintola, e si prepara a far affondare il più forte esercito del mondo.
Invaderemo l’Inghilterra.
Se sarà necessario recluteremo tutti i francesi. Bonaparte afferrerà la sua patria come una spugna e la strizzerà fino all’ultima goccia.
Noi amiamo Napoleone.
A Boulogne, le mie speranze di suonare il tamburo in testa a una colonna di soldati coraggiosi sono svanite, ma il mio entusiasmo non si è spento perché so che incontrerò Bonaparte. Viene regolarmente dalle Tuileries e, parlando fitto fitto, scruta il mare come un uomo comune controllerebbe il barile dell’acqua piovana. Domino il nano dice che stargli vicino è come avere il rombo del vento nelle orecchie. Sono le esatte parole di Madame de Staël, dice, ed è così famosa che sicuramente ha ragione. Non vive più in Francia. Bonaparte l’ha mandata in esilio perché protestava contro la censura del teatro e la soppressione dei giornali. Una volta ho acquistato un suo libro da un venditore ambulante che l’aveva avuto da un nobile ridotto in miseria. Non ci ho capito molto, ma ho imparato la parola «intellettuale» e mi piacerebbe essere definito così.
Domino ride di me.
Di notte sogno le bocche di leone.
Il cuoco afferrò un pollo dal gancio sopra la sua testa e con un mestolo raccolse un po’ di ripieno da una ciotola di rame.
Sorrideva.
«Stanotte si va in città, ragazzi, e sarà una notte indimenticabile, ve lo garantisco.» Ficcò il ripieno dentro il pollo, rigirandolo con la mano per pareggiare la superficie.
«Siete già stati con una donna, suppongo.»
Molti di noi arrossirono, alcuni ridacchiarono.
«Se non ci siete mai stati, allora non potreste provare nulla di più dolce. E se ci siete già stati, be’, nemmeno Bonaparte si è stancato di gustare quel saporino tutti i giorni.»
Ci tese il pollo perché lo controllassimo.
Avevo sperato di rimanere al campo a leggere la piccola Bibbia che mia madre mi aveva regalato alla mia partenza. Mia madre amava Dio, diceva che Dio e la Vergine erano tutto ciò di cui aveva bisogno, sebbene fosse contenta di avere una famiglia. L’ho vista inginocchiarsi prima dell’alba, prima della mungitura, prima di cuocere la farinata d’avena, e lodare ad alta voce il Signore senza averlo mai visto. Più o meno siamo tutti religiosi al villaggio, rispettiamo il prete che fa sette miglia per portarci l’ostia, ma Dio non ci trafigge il cuore.
San Paolo ha detto che è meglio sposarsi che ardere, ma mia madre mi ha insegnato che è meglio ardere che sposarsi. Avrebbe voluto farsi suora. Sperava che diventassi prete e risparmiava per farmi studiare, quando i miei amici intrecciavano corde e arrancavano dietro l’aratro.
Non posso essere prete perché, sebbene il mio cuore canti come il suo, non so fingere di avere ottenuto una risposta chiara. Ho gridato a Dio e alla Vergine, ma essi non hanno fatto altrettanto e a me non interessano le voci flebili. Un dio può davvero rispondere alla passione con la passione?
Mia madre dice di sì.
Allora perché non lo fa?
I genitori di mia madre non erano ricchi ma conducevano una vita rispettabile. Le fecero prendere lezioni di canto e scelsero per lei i libri adatti a una fanciulla. Non discutevano mai di politica a tavola, nemmeno quando i rivoluzionari sfondavano le porte. Erano monarchici. A dodici anni disse loro che voleva prendere il velo, ma essi non approvavano gli eccessi e le assicurarono che il matrimonio sarebbe stato più soddisfacente. Allora continuò a crescere in segreto, lontano dai loro occhi. Apparentemente era sottomessa e affezionata, ma il suo cuore era divorato da una fame che li avrebbe disgustati se il disgusto non fosse stato un eccesso. Leggeva le vite dei santi e sapeva quasi tutta la Bibbia a memoria. Era convinta che la Vergine Maria l’avrebbe aiutata quando fosse giunta l’ora.
L’ora giunse quando aveva quindici anni, alla fiera del bestiame. Tutti i cittadini erano usciti a passeggiare tra i...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Passione
- 1 L’imperatore
- 2 La regina di picche
- 3 L’inverno russo
- 4 La roccia
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