Insegnaci la quiete
eBook - ePub

Insegnaci la quiete

Uno scettico sperimenta le vie della guarigione

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Insegnaci la quiete

Uno scettico sperimenta le vie della guarigione

Informazioni su questo libro

L'esperienza di una patologia dolorosa e invalidante costringe il noto scrittore e traduttore Tim Parks ad affrontare un lungo e accidentato percorso di ricerca della guarigione, fino allo spaesamento provato quando la medicina tradizionale riconosce di non avere più risposte. È a questo punto che Parks decide, vincendo la sua istintiva avversione, di intraprendere un cammino che lo condurrà all'incontro con la meditazione e all'acquisizione di una fondamentale consapevolezza: che la malattia non può essere ridotta alla sequenza clinica sintomi-diagnosi-terapia, ma è un evento che riguarda tutta la persona e il frutto, probabilmente, dell'incredibile sfasamento tra le creature che siamo e il modo (e il mondo) in cui viviamo. Di qui la necessità di ritornare al proprio corpo, di riportarlo alla quiete che la vana frenesia degli affanni quotidiani gli nega, l'unica strada per ritrovare l'armonia e il benessere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804619062
eBook ISBN
9788852051418

Parte seconda

XVIII

Silenzio, ogni carne,
per la presenza del Signore

Un pomeriggio di giugno, sul tardi, ho chiuso la porta della camera, sistemato due cuscini sotto le ginocchia, mi sono steso sul letto e ho tirato un respiro profondo. Avevo un libro in mano, aperto al capitolo «Respirazione sinoidale aritmica, preparatoria per il rilassamento paradossale».
Difficile.
Che strano libro, quello che avevo estratto dalla scatola di cartone un paio di giorni prima. Sul sito web mi era sembrato che la copertina non riportasse altro che il titolo, scritto a caratteri grandi. Quando ho avuto il volume tra le mani, invece, mi sono accorto che lo sfondo marroncino dietro le lettere era in realtà la riproduzione sbiadita di un dipinto rinascimentale – qualcosa di famoso che avevo già visto da qualche parte – che mostrava un santo seduto, immerso nella lettura di un libro. Un santo con la barba lunghissima. Da dietro la sua spalla, in apparenza interessati anch’essi alla lettura, si affacciavano due cherubini biondi.
Come mai i due bravi dottori avevano scelto una simile immagine per la copertina del loro libro? Forse per invitare il lettore a un’analogia tra il libro che teneva in mano e il tomo del santo, certamente un testo sacro, forse addirittura la Bibbia. Era per questo che l’adesivo arancione che proclamava QUINTA EDIZIONE COMPLETAMENTE RIVEDUTA era stato messo proprio sotto l’antico volume?
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Per quanto ambiziosi, mi sembrava improbabile che gli autori avessero puntato così in alto.
Oppure i nostri dottori intendevano suggerire che questa figura era il prototipo del paziente che lamenta dolori addominali? Un lettore anziano e accanito, in posizione seduta con una pessima postura e le spalle cadenti? Non è chiaro su che cosa fosse seduto il santo, ma sembrava senz’altro qualcosa di scomodo. Se non era marmo, si trattava sicuramente di un tavolaccio di legno. Non riuscivo ancora a identificare il santo e mi chiedevo se non fosse magari san Girolamo, santo patrono dei traduttori, che spesso viene raffigurato mentre mortifica la carne con i tormenti dell’intelletto. Anche san Girolamo allora, soffriva della sindrome di dolore cronico all’addome? Doveva forse sottrarre un attimo di inavvertenza ai suoi sublimi pensieri per riuscire a fare un po’ di pipì? Una cosa era indiscutibile: il pittore rinascimentale non intendeva raffigurare il motto classico Mens sana in corpore sano. Ho controllato il risvolto, ma diceva soltanto: «Disegno di copertina, Bob Lee Hickson».
Qualunque fosse il legame esatto fra santo e patologia, avevo l’impressione che gli autori puntassero il dito verso il carattere ossessivo, tipico di coloro che soffrono di dolore pelvico cronico. I loro pazienti, affermavano, erano persone ambiziose che dedicavano pochissimo tempo alla cura della salute, e congestionavano il loro pavimento pelvico nel corso degli anni sgobbando come matti per soddisfare aspirazioni che nulla avevano a che vedere con una vita sana. Dalla prima pagina emerge che il dottor Wise è stato anche lui uno di questi. «Avendo sofferto personalmente per ventidue anni di dolori e disfunzioni nell’area pelvica…» esordisce nella prefazione. Per poi continuare: «Non ricordo nemmeno più quante volte mi svegliavo nel cuore della notte in lacrime per i dolori lancinanti e l’impossibilità di risolverli».
Ventidue anni!
Wise descrive le sue ricerche affannose, nell’epoca anteriore a Internet: «Andavo a frugare nella biblioteca del mio ospedale, nella biblioteca della facoltà di medicina dell’università della California, leggevo tutte le vecchie pubblicazioni…».
Il santo affrescato era allora l’archetipo del paziente prostatico in cerca di una cura, e il suo libro qualche antico trattato medico? Il dottor Wise elencava tutte le terapie tentate invano: antibiotici, diete e rinunce (niente alcolici, caffè, cibi piccanti), riflessologia, integratori di zinco, «agopuntura, psicoterapia, visualizzazione guidata, pranoterapia e preghiera».
Questa notazione mi aveva fatto sobbalzare. Qua e là, sempre tra le righe, il dottor Wise, voce narrante del libro, accennava a un lato più complesso del suo carattere, che doveva però mantenere in ombra se voleva convincere gli scettici. Cominciava a piacermi. Anche lui era un uomo segnato da profonde contraddizioni.
E così pure il suo modo di procedere. A più riprese, il libro seminava confusione, sulle prime spiegando dettagliatamente come fare a guarire, per poi riflettere che il percorso descritto era troppo complesso e impossibile da intraprendere da soli. «Più difficile che imparare a suonare il pianoforte» insisteva Wise. E pertanto impensabile senza un insegnante. Ormai avevo capito che tale atteggiamento non puntava – o non esclusivamente – ad attirare il paziente nella sua clinica, bensì derivava dalla sincera preoccupazione, tipica delle personalità ossessive, che se non c’era lui, il dottor Wise in persona, ad accompagnarti passo passo sulla via della guarigione, in nessun modo tu, Tim Parks, potevi farcela. Un atteggiamento che comprendo perfettamente, perché spesso lo condivido quando devo dare consigli ai miei studenti.
«Questo tipo pensa come me» ho confidato a Rita. «Speriamo che sia la volta buona.»
«Mi fai vedere?» mi ha chiesto mia moglie. Ha preso in mano il libro, studiato la copertina e dichiarato senza esitare: «Michelangelo, Cappella Sistina, il profeta Zaccaria». La sua erudizione è spiazzante. Poi, mentre lei esaminava il libro, e sebbene questa storia del dipinto in copertina non avesse la benché minima rilevanza, ho cercato su Google il buon Zaccaria e ho scoperto che il nostro profeta era famoso soprattutto per la sua oscurità:
Le profezie di Zaccaria sono oltremodo oscure, perché contengono visioni oniriche di cui fornisce l’interpretazione, ma con l’ammonimento che su di questa è impossibile pronunciarsi con certezza fino all’avvento del «vero maestro» (moreh tzedeq).
Straordinario. Che Wise volesse presentarsi come il vero maestro che avrebbe interpretato i miei sogni? Oppure come il profeta che trasmetteva difficili verità a una tribù cocciuta e litigiosa? E perché mai continuavo a vedere quella copertina come riferimento diretto a me stesso? Che la paranoia sia un tratto caratteristico di chi soffre di mal di pancia? Apro la mia vecchia Bibbia scalcinata, regalo di mio padre per il battesimo, che reca ancora, vergata di sua mano, l’inquietante dedica-esortazione: «Prendi come modello le sane parole che hai udito da me (2 Tm 1,13)». Ho cercato Zaccaria e letto il secondo capitolo fino a imbattermi nel seguente versetto, che mi ha lasciato interdetto:
Silenzio, ogni carne, per la presenza del Signore.
Parole sagge e silenzio. Imperativi inderogabili e conflittuali. Nel frattempo, però, io stavo male ed ero impaziente di mettere alla prova il libro: se non potevo permettermi il massaggio anale miofasciale della clinica californiana (descritto in tutti i particolari e corredato da illustrazioni poco rassicuranti), ero pronto nondimeno a sperimentare la tecnica di rilassamento raccomandata.
E senza indugio!
Ma ecco che subito il dottor Wise alzava una barriera. Il paradosso del rilassamento paradossale era presto spiegato: dopo esserti disteso sul letto e calmato, ti concentri sulle tensioni che avverti nel tuo corpo, ma non provi a rilassarle. Ti concentri e basta. Le lasci stare. In questo modo, prima o poi, svaniranno da sole. Ma solo se davvero non provi a rilassarle. Paradosso.
Proviamo, mi sono detto.
Anzi no, non proviamo.
Proviamo a non provare.
Ma prima di far questo, insisteva il dottore, occorre entrare in uno stato di «respirazione sinoidale aritmica» e questa complicata operazione deve essere fatta, ovvio, «sotto la guida di uno specialista».
Accidenti.
Subito dopo, però, consapevole che nella tua stanza da letto non hai a disposizione uno «specialista», il dottor Wise elenca le precise istruzioni per eseguire la suddetta respirazione. Nonostante la contraddizione, il messaggio è semplice: se non funziona, non è mica colpa di Wise e Anderson.
In breve, devi sincronizzare il battito cardiaco con la respirazione in modo che il polso sia un po’ più rapido nell’inspirazione che nell’espirazione. Sei profondi respiri addominali al minuto costituiscono la frequenza ottimale, secondo Wise.
Non avevo mai capito veramente che cosa fosse la respirazione addominale.
Seguivano nove paragrafi di istruzioni, numerati.
«Prendetevi il polso» esordiva il primo.
Mi ha sempre fatto impressione contare i battiti del mio cuore.
Il paragrafo quattro ordinava:
Contate fino a 5 battiti cardiaci (se la vostra frequenza è di 60, come nell’esempio sopracitato) mentre inspirate gonfiando l’addome, poi contate 5 battiti nell’espirare. Se la vostra frequenza è di 72, dovrete contare fino a 6 battiti nell’inspirazione e nell’espirazione.
Neanche in mille anni mi sarebbe riuscita un’impresa del genere. Anzi, tutto questo bizzarro esercizio mi faceva tornare in mente il Molloy di Beckett, che cerca di calcolare con esattezza la frequenza delle sue scoregge nell’arco delle ventiquattr’ore. Come fare a rilassarsi se bisogna prendersi il polso, contare i battiti e cercare di respirare seguendo precisi calcoli? Più difficile che imparare a suonare il piano, altroché. E pensare che al pianoforte ero un disastro. Malgrado avessi una brava insegnante.
Scoraggiato, ho messo giù il libro.
Forse dovrei spiegare che l’unica precedente esperienza che abbia mai avuto di tecniche respiratorie per il rilassamento era stato un divertente fiasco. Mia moglie era incinta del nostro primo figlio, una ventina d’anni fa, e ci eravamo iscritti al corso di training autogeno, che avrebbe dovuto aiutare la partoriente ad affrontare i dolori del travaglio e collaborare alle varie fasi della nascita. Il medico, in quel caso, era un affascinante eccentrico sulla sessantina, con un gran sorriso e un fare bonario. Eravamo una decina di coppie e lui ci aveva fatto accomodare su comunissime sedie di legno dallo schienale rigido, invitandoci a chiudere gli occhi e concentrarci sulla sua voce sonora e ipnotica: «Ognuno si dica, io sono calmo, io sono tranquillo, io sono rilassato…».
Facevo fatica a trattenere le risate.
Non appena capiva che il suo pubblico era entrato nella fase del respiro profondo, il nostro bravo medico ci guidava in un giro mentale del nostro corpo, ma rivolgendosi a noi come se fossimo tutte future madri, di modo che ho avuto l’esperienza assai curiosa di sentirmi incoraggiare a esplorare il mio utero e il mio bambino. Dopo la terza lezione, mentre stavamo uscendo, il dottore mi aveva preso in disparte e mi aveva detto, come se volesse togliersi un peso dal petto: «Signor Parks, non credo di aver mai visto una persona così completamente incapace di rilassarsi come lei».
Non era diverso dal momento in cui, più di vent’anni dopo, il pensionato bonaccione con il cappello bianco da cowboy mi aveva apostrofato per strada, intimandomi di «star dritto, santo Dio!». Ero così teso che la gente si sentiva in dovere di dirmelo.
Ricordando questi due episodi proprio mentre mi scoraggiavo davanti all’ostacolo della respirazione sinoidale aritmica, non potevo fare a meno di osservare che essi andavano a corroborare la teoria del dottor Wise, e cioè che i miei problemi scaturivano con ogni probabilità da una tensione martellante ed eccessiva. Forse mi conveniva allora provare almeno la tecnica di rilassamento, anche se non riuscivo a compiere il complesso esercizio propedeutico della respirazione. Due piccoli ma efficaci consigli all’inizio del libro mi incoraggiavano a credere che il programma del dottor Wise non fosse da scartare senza qualche esperimento. Per controllare la posizione del pavimento pelvico, suggeriva il libro nelle pagine iniziali, spingete come se doveste urinare, ma senza realmente urinare, e sentite come si muovono i muscoli. Esitando, perché non mi era mai capitato fino ad allora di far finta di urinare, ho eseguito il movimento. Di colpo, ho sentito scivolare verso il basso un corsetto di muscoli contratti tra ombelico e pube, quasi volesse tornare al suo posto. E di colpo, ho provato una sensazione di sollievo.
Strano.
Ho aspettato cinque minuti prima di ripetere l’operazione.
Ecco, di nuovo. Stessa spinta leggera, stesso movimento in basso della muscolatura, stesso sollievo.
Sono andato in cucina per preparare il pranzo e ho riprovato.
Sì!
Sono rimasto di stucco. Vai da tre o quattro urologi e paghi centinaia di euro e il primo consiglio utile, la prima raccomandazione che ti porta un briciolo di sollievo ti arriva da un libro di automedicazione. Qualcosa si era mosso e stavo già un pelino meglio, non c’era dubbio.
La prima reazione istintiva davanti al dolore, proseguiva il dottor Wise, è quella di ritrarsi. Questo è vero in particolare per l’area addominale dove i muscoli si ritraggono per difendere i genitali ed evitare il dolore. Non bisogna farlo. Anziché ritrarsi, occorre spingere verso il dolore.
Non mi mancavano le occasioni per sperimentare; dolore ce n’era, e in abbondanza. Spingevo, aspettavo, spingevo ancora. Ed era vero, la qualità del dolore cambiava. L’indolenzimento rimaneva, ma mi sembrava più sordo, più facile da gestire.
Ero emozionato. Per la prima volta ero riuscito a far qualcosa per padroneggiare il dolore. Anziché azzardare l’impresa della respirazione aritmica, ho deciso, mi sarei limitato a fare una decina di respiri profondi e regolari, per poi provare il rilassamento, paradossale o altro che fosse.
Mi sono steso sul letto. Ho sistemato i cuscini sotto le ginocchia, seguendo le istruzioni. Ero pronto? No, il cane del vicino si è messo ad abbaiare, Stefi suonava la chitarra. Ho cercato i tappi per le orecchie. Adesso andava meglio.
Infine ho chiuso gli occhi.
E ho inspirato profondamente.

XIX

Fuochi fatui

Silenzio.
Più o meno.
Che strano, penso, dopo il quarto o quinto respiro teatralmente profondo, questo rinchiudersi nel proprio corpo, non per appisolarsi o dormire, ma per prestare attenzione.
Attenzione a che cosa?
Con gli occhi chiusi, mi sento disorientato.
Ho un prurito all’angolo della bocca e mi gratto.
Non devi muoverti, mi ricordo. Le mani devono stare ferme. Ma dove? Wise...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Insegnaci la quiete
  3. Prologo
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright