La sera del 21 giugno del 1946 Marzia camminava a fianco della madre lungo un viale di platani; grandi candele accese dentro vasi di coccio, tra un tronco e l’altro, segnavano la strada ai margini dei fossi. Ricordava bene quel giorno di compleanno. L’aria profumava di essenza di limone e di geranio bruciati per tenere lontane le zanzare. Era il primo giorno d’estate dopo una lunga e fredda primavera che aveva lasciato dietro di sé i ricordi e le macerie della guerra.
Marzia indossava un vestitino leggero con una gonna a pieghe, ai piedi un paio di sandali neri, comprati apposta per l’occasione, e sopra le spalle un golfino azzurro, i capelli raccolti dietro la nuca. Gli uomini le superavano e sorridevano maliziosi, alcuni salutavano voltandosi. Madre e figlia si guardavano stupite e complici, chiedendosi chi fosse tutta quella gente che pareva conoscerle, nascondendo un certo imbarazzo misto a piacere. Marzia sentiva arrivare da lontano la musica che invitava alla festa. Nell’aria stagnava il profumo della carne alla brace insieme all’odore di grano maturo, di terra calda, di polvere e di stoppie riarse. La luce delle candele faceva tremare le ombre tra le foglie dei platani, come fossero le quinte di un teatro, lasciando, in chi passava di lì, la sensazione che qualche demone potesse sbucare all’improvviso da dietro un tronco. Una nuvola grigia si alzava sopra la casa padronale dei Marra, dissolvendosi nel cielo buio.
Marzia accoglieva dentro di sé le voci ridenti della gente, la musica dei violini e il profumo della notte e dell’erba appena tagliata, con l’entusiasmo innocente di chi scopre per la prima volta il mondo. Non parlava molto. Stava attenta ai rumori e ai suoni delle cose che la circondavano. Da quando era uscita dal collegio svizzero non guardava più il mondo con occhi di bambina. Ogni albero, ogni pietra, le ombre delle cose, la luce del fuoco, tutto per lei era una meraviglia. Camminare accanto alla madre era una gioia, come tenerla sottobraccio e stringerla a sé: quanto aveva desiderato farlo in quei lunghi giorni del collegio. Mentre camminava nel buio ebbe di nuovo la sensazione del vuoto che si portava dentro da mesi. Era un’immagine, un’idea, come l’incavo di una mano pronta ad accogliere qualcosa che ancora non aveva nome, come una carezza mancata. Provò il desiderio voluttuoso di abbandonarsi alla notte perché l’avvolgesse con le sue braccia scure, e mentre pensava a questo, abbassò leggermente la testa e si girò il golfino azzurro attorno alle spalle come se un brivido improvviso le avesse attraversato la schiena.
«... Vedi di comportarti bene, hai capito? È la tua prima festa! Sei grande ma sei ancora una bambina» diceva sua madre sottovoce, come in un bisbiglio. «Divertiti, sii cordiale con tutti, anche con la festeggiata, ma quella pazza dell’Emma... mi raccomando... cerca di non darle troppa confidenza... lo sai cosa dicono di lei! E non dare ascolto a quello che ti ha detto tuo padre, mi raccomando» continuava a ripetere stringendola sottobraccio in modo sempre più deciso. Il rumore della ghiaia pesta nascondeva le voci.
Marzia non aveva mai visto Emma. Ne aveva sentito parlare qualche volta nei pettegolezzi di casa, a pranzo, e ciò che era stato detto su quella ragazza le aveva suscitato solo una distratta curiosità, niente di più.
Passarono vicino a una voragine che una bomba aveva aperto di fianco al giardino, come una specie di lago; nell’acqua stagnante gracidavano le rane e i rospi fino a scoppiare.
Erano arrivate sole, con la macchina guidata dall’autista che aveva parcheggiato nel prato, accanto alle altre rare automobili. All’ingresso del giardino Marzia guardava la gente a braccetto che si salutava a mano a mano che si avvicinava al parco illuminato, con titubanza ma anche con un grande desiderio di felicità. Tutti sorridevano e sentivano la voglia finalmente di fare festa, d’incontrarsi e divertirsi dopo anni di sofferenze e paura, di lontananza, di lutti e macerie che avevano lasciato il paese distrutto.
Marzia entrò nel giardino affollato di gente. C’erano candele ovunque, nel prato, nell’aia e sui balconi a illuminare la facciata ferita dai colpi sventagliati dalle mitraglie che avevano disegnato, sull’intonaco giallo, un fregio di buchi che cesellava anche gli scuri di legno.
“Questa è forse la felicità che ho sognato tanto?” pensò Marzia. Lei aveva il dono del silenzio e della natura. Sapeva ascoltare i brividi che attraversano le punte degli alberi, i fremiti leggeri nelle siepi in aperta campagna, i fruscii della neve che cade leggera nel bosco. Era capace di cogliere la bellezza degli attimi sospesi nei momenti di passaggio, quando il giorno si risveglia tra la notte e l’alba. Aveva il dono di percepire la natura di fronte al primo raggio di sole, quando i sogni ammutoliscono alla luce dell’aurora e si accompagnano alla voce dei merli. La notte risuonava in lei come il canto dell’usignolo nascosto nella siepe. Aveva scoperto in collegio questo segreto della sua anima, guardando per ore dal vetro della finestra, nel giardino, prigioniera dei propri giorni, nell’attesa che qualcuno la venisse a prendere per portarla via di lì per sempre.
Sua madre si voltò a guardarla preoccupata. «C’è qualcosa che non va?»
Marzia scosse appena la testa, come per dire che non era nulla. In verità sorrise alla notte, alle sue ombre, alle voci sorelle, al gracidare delle rane e dei rospi, e al lamento dei grilli nascosti nel prato.
In piedi, accanto ai tavoli, un gruppo di ragazzi e di ragazze rideva schiamazzando attorno a una fiaccola come uno sciame di falene impazzite. Marzia si voltò a guardarli. Una di loro, vestita di bianco con la gonna da tennista appena sotto il ginocchio, si era messa a correre di qua e di là con i piedi scalzi e i sandali in mano. Rideva con i capelli biondi all’aria. Non era molto alta e il suo sguardo illuminava la notte. Alcuni ragazzi, correndole dietro, la catturarono tra mille grida, poi, prigioniera, la sollevarono a forza e la portarono verso una seggiola. Emma, rovesciata sulle spalle di un ragazzo alto e moro, sbatteva i piedi come per liberarsi da quella presa. Entrando nel giardino videro il guizzo delle gambe nude di Emma. Quando la posarono in piedi sulla seggiola, lei fece un gesto di stizza, un movimento lento che solo gli alticci compiono quando sembrano scacciare le mosche noiose. Poi applaudì, intanto mandava baci agli amici intorno, languida, con le braccia molli, come per ringraziarli della loro presenza. Con un bicchiere in mano cominciò un comizio in mezzo al prato.
Marzia capì in quel momento che quella ragazza vestita di bianco, che urlava con i sandali in mano, dava una ragione d’esistere al giardino, alla notte, e alle persone che la guardavano e le correvano incontro per festeggiarla. Era la sua presenza notturna a dare luce al mondo attorno, e a quel pensiero provò una tenerezza che la lasciò indifesa.
Al suono di una tromba entrarono due ragazzi con un grande pacco rosso e un fiocco d’oro e i suoi sandali sopra un vassoio d’argento. Chiesero silenzio e poi attenzione. Scoppiò un applauso. L’orchestrina cominciò a suonare una marcetta allegra. Gli ospiti sparsi sul prato si girarono ammutoliti verso la festeggiata. Senza volerlo Marzia si fermò alle soglie della strada ghiaiata. Sua madre scivolò leggermente più avanti.
All’improvviso Emma si girò per la felicità del dono e urlò buttando i sandali in aria, come si lancia un bicchiere vuoto appena bevuto dietro la schiena, in segno di buon augurio. Un sandalo cadde ai piedi di Marzia che ebbe un leggero sorriso sulle labbra, ma non si chinò per raccoglierlo.
Emma si voltò ridendo, mettendosi una mano sulla bocca. «Scusa!» urlò da lontano, alzando il braccio.
Anche i suoi due amici guardarono Marzia per un attimo, come incantati, poi uno dei due cominciò a leggere una lettera scritta sopra una carta gigante, di auguri di buon compleanno. L’altro si voltò di nuovo verso quella ragazza che nessuno conosceva, accompagnata dalla madre. Emma, pensierosa, notò che la sconosciuta con la gonna e il golfino azzurro la guardava con attenzione, le braccia strette in vita. Si fissarono da lontano, e a Marzia cominciò a battere il cuore, con una violenza di cui si vergognò. Per un istante temette che qualcuno potesse scorgere quell’emozione, la sua improvvisa fragilità.
Emma, con i piedi scalzi sulla seggiola, si voltò di nuovo e cominciò a ridere come mai aveva riso nella sua vita. Anche i suoi amici risero, sorpresi da quella folle gioia.
«Andiamo!» urlò sottovoce la madre a Marzia, girandosi, stizzita. Aveva sempre quel tono di gelo quando parlava con lei. Marzia guardò per un attimo la scena, si chinò furtiva a raccogliere il sandalo, attenta a non farsi vedere, e corse dietro la madre che stava camminando più avanti. Era divertita, si sentiva leggera, e pensò che quello fosse un attimo di felicità, come solo in certe notti il mondo ti sa donare con l’incanto della meraviglia.
Si ritrovarono nel giardino affollato di gente che si salutava, chiacchierava e stringeva mani. Madre e figlia non conoscevano nessuno, si guardavano attorno sperse, un po’ timorose ed eccitate, e la madre teneva stretta a sé la figlia, come per darsi sicurezza.
«Speriamo che tuo padre non tardi troppo.»
Alcune coppie di signori, avvicinandosi, sorridevano e si presentavano spontaneamente alle due donne. I giovanotti, in gruppo, bevevano e ridevano, lanciando sguardi furtivi per poi commentare sottovoce, chiedendosi chi fosse quella ragazza così bella mai vista prima.
Marzia vide una signora anziana che piangeva accarezzando i capelli a un giovanottone sorridente: gli ricordava di averlo visto bambino prima della guerra; poi salutò un anziano signore dicendogli: «Ma non ti ricordi chi sono? Sono diventata così vecchia e brutta?».
Era una festa di gente che s’incontrava dopo tanto tempo, che si abbracciava e sorrideva, quasi stupita di ritrovarsi lì, ancora viva, sopravvissuta ad anni di miseria e di bombe.
«Ma dove s’è cacciato tuo padre?» disse la madre spazientita.
Marzia alzò appena le spalle, con le mani dietro la schiena, e si guardò attorno. Sotto il portico c’era la piccola orchestra d’archi che suonava. Poco lontano, un lungo tavolo ricco di pasticcini e piccoli panini dolci, camerieri in livrea con i guanti che servivano vino bianco, torta fritta e salumi, tartine e piccoli spiedini di carne. C’erano interi vassoi pieni di frutta tagliata, con mele e pere, fragole e poi paste alla crema, torte di cioccolato, cioccolatini e bottiglie di spumante e champagne.
«Che manie di grandezza, che spreco, dopo tutto quello che abbiamo passato» commentò sua madre.
Quando un cameriere si avvicinò, Marzia tentò di prendere un pasticcino, ma di fronte allo sguardo severo della madre ritirò delusa la mano.
«Si serva pure, è offerto tutto dalla casa.»
Marzia ne prese velocemente due al cioccolato e si leccò le dita golosa mentre sua madre si voltava per aver sentito una voce familiare. Sbucò dietro di loro un gruppo di persone. Tra questi suo marito e Marra, il padrone di casa che stava parlando con lui. Marra era un uomo alto, magro, con i capelli leggermente brizzolati. Non era né giovane né vecchio, in quell’età in cui gli uomini sono maturi ma non hanno perso la giovinezza, e la vecchiaia è ancora un futuro lontano.
A Marchesi s’illuminarono gli occhi. Sorrideva felice. Voleva comunicare alle due donne con i gesti che solo i membri di una famiglia sanno riconoscere, che ormai era quasi fatta, e quando presentò Marzia e sua moglie all’amico, lo fece con tutto l’orgoglio di un capofamiglia che vede il sogno di una vita divenire realtà.
Marra sorrise alla ragazza, salutò la madre ma poi si avvicinò di nuovo alla figlia del suo futuro socio. «Diciassette anni...» ripeté, «devo complimentarmi, caro Marchesi, tua figlia è un fiore pronto a sbocciare. È un anno più giovane della mia piccola Emma...»
Marra fissò Marzia negli occhi e questa li abbassò all’improvviso. Aveva gli occhi lucidi, timida, e il suo sorriso era un incanto. Una leggera ciocca di capelli le scivolò sul viso e con un gesto naturale della mano la riportò dietro l’orecchio.
«Scommetto che avete già incontrato mia figlia, girava scalza con il suo pacco regalo, in giardino. Era quella vestita di bianco un po’ allegra... Emmaaa, Emmaaa, vieni!» gridò Marra. «Pazza scatenata! Le ho insegnato a essere libera come una volpe e adesso mi ritrovo che la sa più lunga di una gazza!» disse suo padre, ridendo. «Emma, vieni qui, Emmaaa!» urlò di nuovo. «Ma dove si sarà cacciata quella matta...» Marra aveva fatto girare gli ospiti che affollavano il prato, con i piatti e i bicchieri in mano, tra la musica che suonava leggera come un vento notturno.
Emma corse verso il gruppo di amici. Era sudata, aveva i capelli biondi attaccati alla fronte che lasciavano scoperta la pelle bianca dietro l’orecchio, gli occhi di un azzurro cupo riflettevano il colore della notte.
«Eccomi!» disse trafelata.
«Vieni che ti presento il mio amico Marchesi. È qui con la moglie e sua figlia. Ti ricordi di quella bambina di cui ti avevo parlato... be’, direi che Marzia si è fatta ormai una ragazza matura.»
Emma salutò in fretta, poi, con il respiro affannato, guardò negli occhi la ragazza avvolta nel golfino azzurro, le braccia strette al corpo come per proteggersi dal mondo.
Marzia s’impaurì del suo improvviso batticuore, ma quando incrociò gli occhi di quella ragazza minuta, uno strano senso di pace e di gioia s’impossessò di lei.
«Ciao, io sono Emma» disse trafelata, allungando una mano.
«Ciao» rispose Marzia e gliela strinse senza indugi, con naturalezza, lasciando per un attimo, tra l’imbarazzo di quel toccarsi le mani per la prima volta, che ognuna potesse impossessarsi del calore dell’altra. Non ebbe paura di guardarla negli occhi, fissandola, forse con la segreta speranza di poter essere come un vetro per lei. Risero entrambe.
Emma ebbe la sensazione che la ragazza di fronte a lei fosse una farfalla, o meglio, una crisalide pronta ad aprire le ali e volare via.
«Non vieni con noi?»
«Forse ti serve questo» rispose Marzia, e le allungò il sandalo.
Sua madre ebbe un sussulto, restò zitta e guardò seria la figlia. Marchesi non capiva.
«Se non ho...