
- 280 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Knulp - Klein e Wagner - L'ultima estate di Klingsor
Informazioni su questo libro
Tre racconti nei quali emerge il tipico eroe di Hesse, "portatore del senso unitario della vita, vagabondo, viandante, anarchico che distrugge i valori codificati per spianare la strada verso altri". Tre storie nelle quali i protagonisti giungeranno alla fine a trovare il proprio posto nell'armonia dell'universo.
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Informazioni
Print ISBN
9788804456810eBook ISBN
9788852052118KNULP
Titolo originale: Knulp
Inizio di primavera
Una volta, poco dopo il ’90, il nostro amico Knulp dovette stare alcune settimane all’ospedale, e quando ne fu dimesso era la metà di febbraio, con un tempaccio orribile, cosicché dopo pochi giorni di vita vagabonda si sentì di nuovo la febbre e dovette pensare a trovarsi un tetto. Gli amici non gli erano mai mancati, e si può dire che in quasi tutte le cittadine della regione avrebbe incontrato un’accoglienza cordiale. Ma su questo punto era singolarmente orgoglioso e, se accettava qualche cosa da un amico, questi poteva considerarsi onorato.
Questa volta si ricordò di Emilio Rothfuss, un conciapelli in alluda che abitava a Lächstetten e al cui portone, già chiuso, egli andò a bussare una sera di pioggia e di ponentino. Il conciapelli socchiuse le imposte al piano di sopra e gridò nella strada buia: «Chi è costì? Non potete aspettare finché faccia giorno?».
Udendo la voce del vecchio amico Knulp si sentì rianimare nonostante la stanchezza, e ricordò una strofetta che aveva creato anni prima quando era andato in giro per quattro settimane in compagnia di Emilio. La intonò dunque subito:
Sedea nel ristorante
un misero viandante:
non può esser così solo
che il prodigo figliolo.
Il conciaiolo spalancò le imposte e si sporse dalla finestra: «Knulp! Sei tu o uno spirito?»
«Sono io!» esclamò Knulp. «Ma puoi anche scendere dalla scala. O devi proprio uscire dalla finestra?»
L’amico scese tutto contento, aprì il portone e con la piccola lucerna fumigante illuminò il viso del nuovo arrivato, costringendolo a sbattere le palpebre.
«Adesso vieni su presto!» disse affannato tirando in casa l’amico. «Mi racconterai dopo. Abbiamo ancora un po’ di cena avanzata e c’è anche un letto. Dio santo, con questo tempaccio! Ma dimmi, sono buone le scarpe che hai?»
Knulp lo lasciò domandare e meravigliarsi, sulla scala si assestò i calzoni che aveva rimboccati e salì con sicurezza nella penombra benché non fosse più stato in quella casa da quattro anni.
Nel corridoio davanti alla porta del tinello si fermò un istante e trattenne il conciaiolo che lo spingeva perché entrasse. «È vero» mormorò «che adesso sei ammogliato?»
«Sì, certo.»
«Ecco, appunto. Vedi, tua moglie non mi conosce; può darsi che non le faccia piacere. Non vorrei disturbarvi.»
«Macché disturbare!» rise Rothfuss, e, spalancata la porta, spinse Knulp nella stanza illuminata. Sopra un’ampia tavola pendeva la grande lampada a petrolio attaccata a tre catene; nell’aria si librava un lieve fumo di tabacco ch’era come assorbito a leggere ondate dal cartoccio della lampada donde turbinava in alto e scompariva. Sulla tavola c’erano una gazzetta e una vescica di maiale piena di tabacco, e dal breve divano addossato alla parete la giovane padrona di casa si alzò con incerta e imbarazzata vivacità, quasi fosse disturbata nel sonno e non volesse farlo capire. Knulp batté un istante le palpebre come abbagliato dalla luce forte, guardò la donna negli occhi grigi e le porse la mano con un gentile inchino.
«Ecco, questa sarebbe lei» presentò il mastro ridendo. «E questo è Knulp: il mio amico Knulp, sai, quello di cui abbiamo parlato tante volte. S’intende che è nostro ospite e dormirà nel letto del garzone; tanto, è vuoto. Ma prima vogliamo bere insieme un bicchiere di sidro e dobbiamo anche dargli qualcosa da mangiare. Un po’ di salsiccia di fegato è rimasta, vero?»
La padrona uscì di corsa mentre Knulp la seguiva con gli occhi.
«Però è un po’ spaurita» osservò a voce bassa, ma Rothfuss non volle ammetterlo.
«Figlioli non ne avete ancora?» chiese Knulp.
Ma ella già rientrava recando la salsiccia su un piatto di peltro e posava accanto a questo l’assicella con mezza forma di pan nero messo accuratamente con il taglio in giù: lungo l’orlo rotondo spiccava l’iscrizione in rilievo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
«Sai, Lisa, che cosa mi stava chiedendo Knulp?»
«Lascia andare!» protestò questi. E voltosi sorridendo alla padrona: «Dunque, signora padrona, se permette, mi servo».
Ma Rothfuss non cedette.
«Se abbiamo figli, mi ha chiesto.»
«Oh, via!» fece lei ridendo e allontanandosi di nuovo.
«Non ne avete?» domandò Knulp quando fu uscita.
«No, non ancora. Lei si prende tempo, capisci, e per questi primi anni è anche meglio. Ma su, mangia, non far complimenti!»
Ora la donna recava il boccale di maiolica grigio-azzurra e vi aggiungeva tre bicchieri empiendoli subito di sidro. Faceva tutto abilmente, e Knulp la guardava sorridendo.
«Alla tua salute, caro amico!» disse il conciatore alzando il bicchiere verso Knulp. Ma questi osservò con galanteria: «Prima le signore. Alla sua salute, signora padrona. Alla tua, vecchio mio».
Toccarono i bicchieri e bevvero mentre Rothfuss, raggiante, strizzava l’occhio alla moglie per farle notare quanto l’amico era garbato e gentile. Ma lei l’aveva notato da un pezzo. «Vedi,» commentò «il signor Knulp è più gentile di te e conosce le buone usanze.»
«Oh, scusi,» fece l’ospite «ognuno fa come ha imparato. In quanto a cortesie, lei, signora, può mettermi facilmente in imbarazzo. Come ha servito bene! Par di essere in un albergo di lusso.»
«Vero?» esclamò il padrone di casa ridendo. «Queste cose però le ha imparate.»
«Davvero? E dove? il suo signor padre fa l’albergatore?»
«No, è sepolto da un pezzo e non l’ho quasi neanche conosciuto. Ma fui a servizio un paio d’anni al Cervo d’oro. Non so se lo conosce.»
«Al Cervo d’oro? In altri tempi era la locanda più fine di Lächstetten» assentì Knulp elogiando.
«Lo è ancora. Vero, Emilio? Vi ospitavamo quasi soltanto viaggiatori di commercio e turisti.»
«Ci credo, signora. Si sarà trovata bene di certo e avrà anche guadagnato. Ma la casa propria è preferibile, no?»
Con lentezza golosa spalmava sul pane la salsiccia tenera, ne poneva sull’orlo del piatto la pelle pulita e ogni tanto prendeva un sorso del giallo e ottimo sidro di mele. Il conciatore osservava con rispetto e compiacimento quelle mani esili e fini che facevano tutto delicatamente e quasi giocando. Anche la padrona lo notava con piacere.
«Però non si può dire che tu abbia un’ottima cera» incominciò Emilio. Knulp dovette confessare che ultimamente s’era sentito male ed era stato all’ospedale. Ma tenne per sé la parte più penosa. E quando l’amico gli chiese quali fossero ora i suoi propositi e gli offrì cordialmente vitto e alloggio per qualunque periodo di tempo, Knulp pensò che si era aspettato proprio questa sua offerta ma, preso dalla timidezza, si schermì in fretta e rimandò il discorso all’indomani.
«Di ciò potremo parlare domani o anche dopodomani» disse con indifferenza. «Grazie a Dio, i giorni non mancano, e in ogni caso conto di restare qui un poco.»
Non faceva volentieri progetti o promesse di lunga portata. Se non poteva disporre liberamente del giorno successivo, si sentiva a disagio.
«Se dovessi rimaner qui davvero qualche tempo» riprese a dire «dovrai notificarmi come tuo apprendista.»
«Mancherebbe anche questa!» rise il padrone. «Tu, mio apprendista! D’altro canto non sei affatto conciapelli.»
«Che importa? Non capisci? Non tengo punto a conciare le pelli, per quanto dicano che sia un bel mestiere. E il lavoro non è il mio forte. Ma se ne avvantaggerà il mio libretto personale, intendi? Allora potrei usufruire dell’assistenza.»
«Me lo fai vedere, il libretto?»
Knulp mise la mano nella tasca interna dell’abito quasi nuovo e ne trasse il libretto accuratamente infilato in una fodera incerata.
Il conciapelli lo guardò ridendo: «Sempre accurato! Si direbbe che tu abbia lasciato tua madre solo ieri mattina».
Poi esaminò le registrazioni e i timbri e approvò con grande ammirazione: «Ma che ordine! Proprio vero: tutte le cose tue devono essere ammodo».
Certo uno dei divertimenti più belli di Knulp era quello di tenere in ordine il libretto personale. Perfetto come era, rappresentava una graziosa finzione o poesia, e le registrazioni ufficiali e accreditate indicavano altrettante tappe gloriose d’una vita di onesto lavoro dove dava nell’occhio soltanto la smania di muoversi, comprovata dal frequente mutare di località. La vita documentata da quel passaporto ufficiale Knulp se l’era ideata lui, e il filo più volte minacciato della sua finta esistenza egli l’aveva continuato con mille artifici mentre in realtà non faceva cose proibite, ma come vagabondo disoccupato menava una vita illegale e disprezzata. Certo non sarebbe riuscito a continuare così indisturbato il suo bel poema, se i gendarmi non lo avessero visto tutti di buon occhio. Fin dove era possibile lasciavano in pace l’uomo sereno e divertente del quale apprezzavano la superiorità intellettuale e talvolta la serietà. Era quasi incensurato, non gli si poteva imputare né un furto né l’accattonaggio, e da per tutto aveva amici cospicui; perciò lo si lasciava stare come, per esempio, si lascia vivere in famiglia un bel gatto che tutti credono di tollerare con indulgenza mentre fra le persone operose e affannate esso vive imperturbato una vita elegante, senza pensieri, da padrone e disoccupato.
«Adesso però sareste già a letto da parecchio, se non fossi venuto io» disse Knulp riprendendo le sue carte. E alzatosi fece un inchino alla padrona.
«Andiamo, Rothfuss, fammi vedere dov’è il mio letto.»
Il mastro lo accompagnò con il lume su per la scaletta del solaio fin nella camera del garzone. Un lettuccio vuoto di ferro era appoggiato alla parete e accanto a questo un altro, di legno, con lenzuola e coperte.
«Vuoi la fiasca dell’acqua calda?» domandò il padrone paternamente.
«Ci mancherebbe anche questa!» rise Knulp. «È vero che al signor padrone non occorre, dato che ha una mogliettina così bella.»
«Ecco, vedi,» spiegò Rothfuss accalorandosi «tu entri nel letto freddo in questa stanza a tetto, e qualche volta in uno ancor peggiore, o magari non ce l’hai e devi dormire nel fieno. Io, invece, ho casa e azienda e una donna come si deve. E dire che potresti essere mastro da un pezzo e aver fatto più strada di me, purché avessi voluto.»
Intanto Knulp, svestitosi in fretta, si era infilato rabbrividendo tra le lenzuola gelate.
«Ne hai ancora molte da dirmi?» domandò. «Qui sto bene e posso ascoltarti.»
«Bada, Knulp, che dicevo sul serio.»
«Anch’io, Emilio. Ma non devi credere che il matrimonio sia un’invenzione tua. Addio, dunque, buona notte.»
Il giorno seguente Knulp rimase a letto. Si sentiva ancora un po’ debole, e il tempo era tale che gli avrebbe impedito d’uscir di casa. Al conciapelli, ch’era andato a salutarlo la mattina, aveva rivolto la preghiera di lasciarlo tranquillo e di recargli soltanto un piatto di minestra a mezzogiorno.
Se ne stette dunque quieto e contento tutto il giorno nella penombra della cameretta, sentì sparire il freddo e la fatica della marcia e si abbandonò con piacere al benessere di sentirsi al calduccio e al riparo. Ascoltò l’assiduo tamburellare della pioggia sul tetto e il vento di scirocco che soffiava irrequieto e carezzevole a folate capricciose. Negli intervalli dormì qualche mezz’ora o lesse, finché fu abbastanza chiaro, gli scritti della sua bibliotechina di viaggio che constava di fogli, sui quali aveva copiato poesie e sentenze, e d’un piccolo fascio di ritagli di giornale. C’erano anche alcune illustrazioni ritagliate dai settimanali. Due di queste gli erano particolarmente care, e a furia di maneggiarle le aveva stropicciate e smangiate. Una rappresentava l’attrice Eleonora Duse, l’altra un veliero esposto in alto mare alle raffiche di vento. Fin da ragazzo Knulp aveva una predilezione per il nord e per il mare, e più volte vi si era incamminato, arrivando un giorno fin nel Brunswick. Ma una strana trepidazione e nostalgia aveva sempre risospinto a marce forzate verso la Germania meridionale quell’uccello di passo che era sempre in giro e non sapeva fermarsi in nessun luogo. Può anche darsi che la spensieratezza lo abbandonasse quando arrivava in luoghi di costumi e dialetti stranieri dove nessuno lo conosceva e dove trovava difficoltà a tenere in ordine il suo leggendario libretto.
Verso mezzogiorno il conciaiolo gli portò pane e minestra. Camminava in punta di piedi e parlava bisbigliando perché pensava che Knulp fosse malato, ed egli stesso dal tempo delle malattie infantili non era mai stato a letto di giorno. L’amico, che si sentiva benissimo, non si prese la briga di dare spiegazioni e assicurò soltanto che l’indomani si sarebbe alzato in buona salute.
Nel tardo pomeriggio la padrona andò a bussare alla porta, e siccome Knulp dormicchiava e non rispose, entrò cautamente e posò sul comodino una tazza di caffè e latte al posto del piatto vuoto.
Knulp, che l’aveva udita entrare, rimase a occhi chiusi o per stanchezza o per capriccio, e non fece capire ch’era desto. La padrona, con il piatto vuoto in mano, gettò uno sguardo al dormiente che teneva la testa sul braccio semicoperto dalla manica della camicia a quadretti azzurri. E poiché la finezza dei capelli scuri e la quasi infantile bellezza del viso sereno attiravano la sua attenzione, rimase lì un istante a guardare il bel giovanotto del quale suo marito aveva raccontato meraviglie. Vide, al di sopra degli occhi chiusi, le folte sopracciglia sulla fronte chiara e delicata, le guance scarne, ma abbronzate, le labbra fini e rosse e il collo snello; e tutto le piacque e le rammentò il tempo quando, cameriera al Cervo d’oro, si era lasciata amare per capriccio primaverile da un simile bel ragazzo forestiero.
Mentre trasognata e un po’ eccitata si chinava per vedere tutto il viso, il cucchiaio di stagno le scivolò dal piatto e cadde a terra facendola spaventare nel silenzio e nel trepido segreto del luogo.
Knulp aprì gli occhi lento e ignaro quasi avesse dormito profondamente. Volse la testa, tenne un istante la mano sopra gli occhi e disse sorridendo: «Oh, è la signora padrona. E mi ha portato il caffè. In questo momento sognavo proprio un buon caffè caldo. Mille grazie, dunque, signora Rothfuss. Che ora sarà mai?».
«Le quattro» rispose subito lei. «E adesso beva, finché è caldo. Poi verrò a prendere la tazza.»
Co...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Knulp - Klein e Wagner - L'ultima estate di Klingsor
- Introduzione di Maria Pia Crisanaz Palin
- Cronologia
- Bibliografia
- Knulp
- Klein e Wagner
- L’ultima estate di Klingsor
- Copyright