Sembrava un omicidio come tanti, eppure, nell’appartamento di via della Signora, a parte il cadavere della donna disteso sul parquet, tra la tavola e la poltrona di cuoio scuro, c’era qualcosa di bizzarro che Ambrosio aveva notato subito alla parete, tra acquerelli di modesta fattura in cornici di legno. Proprio sopra il pianoforte, un Blutmann nero, era appeso un piccolo quadro di una preziosità rara e lui conosceva bene l’autore di quel paesaggino: un campo di lavanda, una fila di gelsi in un cielo blu. Era uno dei suoi pittori preferiti. Mentre la casa si era riempita di gente e i lampi del fotografo parevano accentuare la stravaganza di quella mattina di marzo un po’ ventosa, Ambrosio aveva avuto per un istante la sensazione che quel delitto gli avrebbe dato del filo da torcere.
Mai previsione fu più profetica.
La nipote della vittima era seduta su una seggiola in camera da letto, teneva le braccia conserte e nella mano destra un fazzoletto azzurrino. Aveva pianto per qualche secondo, poi si era lasciata andare sulla sedia e guardava, immobile, la finestra che dava sulla strada. Una persiana si era mossa, spinta dal vento.
Le aveva sfiorato la spalla, lei si era alzata di colpo, gli occhi color fiordaliso su di lui, ma si intuiva che la ragazza pensava ad altro, come se la morte violenta della zia avesse dischiuso un sipario e adesso ogni cosa le apparisse del tutto inconsueta e sgradevole. Dimostrava poco più di vent’anni, non era alta, i capelli castani lisci e la pelle abbronzata – probabilmente con una lampada, aveva pensato Ambrosio – davano rilievo al suo sguardo luminoso e assente. Aveva un piccolo neo sulla guancia, sotto l’occhio destro, e una cicatrice di due centimetri, un filo più chiara, tra la mascella e l’orecchio.
«È stata lei a scoprire il corpo?»
Le aveva fatto cenno di sedersi ancora e lui, a sua volta, si era accostato a un divanetto ricoperto di raso che un tempo doveva essere di un tenue color pastello e che adesso pareva grigio sporco. Di fronte al divanetto una turca coperta da un plaid a scacchi viola. La stanza era in penombra a causa anche di un tendaggio che cadeva dal soffitto e che ad Ambrosio ricordava quelli della casa dei genitori con le mantovane di velluto giallo paglierino.
«Sono stati i vigili del fuoco, che ho chiamato quando la zia Alma non rispondeva al telefono, neppure stamattina quando sono venuta qui e ho suonato il campanello alla porta, inutilmente. Allora mi sono preoccupata.»
«Ieri dovevate vedervi, lei e sua zia?»
«Come tutti i venerdì.»
Ambrosio si era seduto sul divanetto, dopo aver chiuso la porta della stanza.
«Vi incontravate di venerdì?»
«Al pomeriggio, sul tardi. Però ieri non potevo venire qui da lei e così ho cercato di avvertirla. Subito ho pensato che fosse uscita, poi a casa ho tentato ancora, ne ho parlato con mia madre.»
«Sua madre è la sorella della... della signora, immagino.»
«La sorella minore, hanno... avevano un paio d’anni di differenza.» Stringeva il fazzoletto, si era passata la mano sinistra sui capelli, indossava un giaccone verde oliva foderato di pelliccia sintetica. Nella casa faceva freddo. Un sentore acidulo, fastidioso, aveva suggerito ad Ambrosio di spalancare la finestra, ma si era trattenuto.
«Perché vedeva sua zia?»
«Parlavamo.»
Lo aveva fissato per un istante, chinando la testa: «Lei mi capiva».
«Il suo nome?»
«Mi chiamo Sara.»
L’ispettrice Nadia Schirò, dopo aver bussato lievemente alla porta, era entrata nella stanza per avvertire Ambrosio che il medico e il sostituto procuratore stavano per andarsene. Prima di uscire, nei suoi occhi era passato un lampo di allegria che aveva spinto Ambrosio a dirle: «Nadia, poi accompagneremo la signorina a casa».
«Dove abita?»
«In piazza Oberdan.»
Aveva lasciato la ragazza nella stanza. C’era un vaso di opalina con due rami di fiori di pesco. Alcuni petali erano caduti sul tappeto persiano davanti al cassettone.
Sul pianerottolo due addetti all’obitorio erano in attesa, uno stava mangiando un mandarino.
C’era sangue sul pavimento, una quantità di sangue. E c’era sangue sulla poltrona di cuoio, sulla tavola, e persino a distanza del cadavere, gocce di sangue scuro, rappreso.
Dopo aver aperto la finestra, Ambrosio era tornato nella camera da letto.
«L’hanno portata via?»
«Voleva vederla?»
Aveva scosso la testa rapidamente: «No, no», si era premuta il fazzoletto sulla bocca e aveva ricominciato a piangere.
«Viveva da sola?»
Glielo aveva chiesto mentre lei si asciugava gli occhi.
«Da quando era rimasta vedova. Lo zio era un funzionario di banca in pensione. È morto tre anni fa, all’improvviso.»
«Infarto?»
«Credo di sì.»
«La zia possedeva gioielli?»
«Li teneva in una cassetta di sicurezza in una banca qui vicino, ma non so quale.»
«Aveva al mignolo un anellino con un granato.»
«Era convinta le portasse fortuna.»
«Non abbiamo trovato soldi in casa. Una borsetta vuota, un secchiello con dentro uno specchio, un pettine e una scatola di cipria.»
La ragazza lo aveva guardato: «E la borsa di cinghiale, quella nuova?».
«Non l’ho vista.»
Si era passata l’indice sulle labbra: «Come è stata uccisa, commissario?».
Parlava a voce bassa, quasi fosse in chiesa.
«Con una bottiglia di cristallo, credo, che non si è neppure rotta.»
«Aveva due bottiglie molto belle, con riflessi verdini, stavano sulla credenza provenzale. Un regalo di nozze. Ci metteva qualche liquore, lo zio beveva quello fatto con le mele.»
«Il calvados.»
«Ecco, sì. C’era un cocktail che faceva spesso, anche se la zia diceva che era meglio non bevesse. Si chiamava diki-diki.» Aveva sorriso appena: «C’era anche del pompelmo in quella mistura. A me ne dava sempre un pezzetto». Si era interrotta, poi all’improvviso: «È strano che abbia aperto la porta. Chiedeva ogni volta chi fosse, prima di girare la chiave e togliere la catenella. Non si fidava degli sconosciuti. Non c’è più la portinaia, la zia era rimasta l’unica inquilina del palazzo. Glielo avevo detto di andarsene, aveva avuto lo sfratto, ma lei era... era caparbia, non voleva sentire ragione, faceva di testa sua. È per questo che con mia madre non andava d’accordo, nemmeno quando erano giovani. Tuttavia era buona, e anche comprensiva, almeno... almeno con me. Sono sempre stata la sua nipote prediletta. Forse perché le somigliavo, così diceva».
«Perché non voleva lasciare questa casa?»
«Per i ricordi.»
«Non è facile trovare un alloggio libero con un affitto ragionevole.»
«L’immobiliare che ha comprato il palazzo aveva offerto alla zia un paio di possibilità in periferia, dalle parti dove abitava da ragazza. Niente da fare. Non voleva muoversi. Si era messa in testa di restare a due passi dal duomo.»
«Nella casa di piazza Oberdan pagate l’affitto?»
«È di nostra proprietà. Il nonno aveva lasciato un alloggio a ognuna delle figlie. Anche zia Alma ne aveva uno, più piccolo, che da anni ha dato in affitto.»
«In che zona?»
«In centro. Via Santo Spirito. Un palazzetto con le finestre piene di fiori.»
«Quindi sua zia avrebbe potuto andarsene, un giorno, in via Santo Spirito.»
«Impossibile.»
«Come mai?»
Aveva alzato la testa con levità e i capelli si erano mossi come fossero stati sfiorati da una brezza leggera.
«Abitava là quando si era sposata la prima volta. Aveva vent’anni, capisce?»
«È ancora vivo il primo marito?»
«Sì.»
«Lo conosce?»
«Non l’ho mai visto. Una frase che la zia ripeteva era questa: “Siamo inseguiti dai ricordi”.»
«Deve aver aperto a qualcuno che conosceva.»
«Penso di sì.»
«Abbiamo trovato sul tavolo due bicchieri, uno con un residuo di cognac, l’altro completamente pulito. La bottiglia con la quale, secondo me, è stata colpita era vuota e in casa non c’è un goccio di liquore, in nessun posto.»
«La zia non beveva alcol.»
«Quindi chi è entrato, ieri pomeriggio, doveva essere una persona che lei conosceva, che beveva cognac e che ha avuto l’accortezza di ripulire dalle impronte la bottiglia, e anche il bicchiere che aveva usato. Dopo averla colpita l’assassino ha rimesso la bottiglia, ancora sporca di sangue, accanto ai bicchieri.»
«È stata uccisa proprio con quella bottiglia?»
«Sarà il medico legale a stabilirlo con certezza. Posso solo dirle che ho l’impressione che abbia ricevuto un colpo violento, una sorta di fendente... Mi scusi,» si era accorto che la ragazza stava per commuoversi «volevo chiederle se soffriva di qualche malanno, se era cagionevole di salute.»
«Dove è stata colpita?»
«Alla tempia destra.»
«Quando sono entrati i vigili del fuoco, e io con loro, ma solo per un momento, la zia era coperta da una tovaglia a fiori, quella che teneva sulla tavola. Forse chi l’ha uccisa...»
«Non voleva vederla in quello stato.»
«Quanto sangue,» aveva chiuso gli occhi, si era fatta forza «mi ha chiesto se zia Alma soffriva di qualche... sì, di reumi. Si copriva molto. Mangiava poco, fumava qualche sigaretta dopo i pasti. Quelle sigarette leggere, lunghe, sottili come spaghetti.»
«In che modo passava il suo tempo?»
«Dava lezioni di pianoforte.»
«Ecco perché...» aveva detto Ambrosio alzandosi e dirigendosi verso un tavolino rotondo accanto alla turca. Si era chinato, aveva preso un’agenda di pelle chiara, l’aveva sfogliata, era tornato a sedersi sul divanetto: «Qui ci sono dei nomi e degli orari, sempre in certi giorni della settimana, il lunedì, il mercoledì, il giovedì, il sabato... Riccardo, Giampaolo, Ornella...».
«I suoi allievi.»
«Ne conosce qualcuno?»
«Sì, Riccardo soprattutto. L’anno scorso veniva dalla zia il venerdì, quando arrivavo io, lui se ne andava, era finita la lezione. Da gennaio l’appuntamento era stato spostato al sabato pomeriggio.»
«Cioè per oggi alle quattro.»
«Una bella sorpresa quando verrà.»
Aveva stretto i denti e soffocato un singulto.
«Lei ha degli occhi chiari, turchini. Come quelli di sua zia?» Era un modo per distrarla, ammesso che fosse stato pos...