L'ufficiale e la spia
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L'ufficiale e la spia

  1. 444 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ufficiale e la spia

Informazioni su questo libro

In una fredda mattina di gennaio del 1895, nel cortile dell'École Militaire nel cuore di Parigi, Georges Picquart, ufficiale dell'esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all'umiliante degradazione inflitta al capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di avere passato informazioni segrete ai tedeschi. In piazza ventimila persone urlano: "Traditore! A morte gli ebrei!". Picquart, patriota integerrimo, scapolo quarantenne, intellettuale e moderatamente antisemita, con un'amante sposata a un funzionario del ministero degli Esteri, non ha alcun dubbio: Dreyfus è colpevole. Il condannato viene trattato in modo disumano e confinato sull'isola del Diavolo, nella Guyana francese, dove l'unica forma di sollievo alla sua angoscia e alla solitudine è scrivere accorate lettere alla moglie lontana. La faccenda sembra archiviata. Picquart, ora promosso capo della Sezione di statistica - l'unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus -, si accorge però, dopo il ritrovamento di un petit bleu, che qualcuno sta ancora passando documenti segreti al nemico. Forse Dreyfus è innocente ed è stato incastrato proprio dagli uomini con cui lui sta lavorando? Questa possibilità getta Picquart nello sconforto e, determinato a scoprire la verità, diventa a sua volta personaggio assai scomodo per i suoi superiori. L'ufficiale e la spia si ritrovano così entrambi a dover difendere il proprio onore. In questo straordinario romanzo, Robert Harris racconta l'affaire Dreyfus da una prospettiva completamente inedita, quella di Picquart, voce narrante e personaggio finora poco conosciuto della nota vicenda. L'ufficiale e la spia non è dunque solo l'appassionante e impeccabile ricostruzione dello scandalo giudiziario più famoso di tutti i tempi, che ossessionò la Parigi della Belle Époque e il mondo intero, ma anche una storia fatta di occultamento di prove, delatori e spie fuori controllo, caccia alle streghe e giustizia corrotta dagli inquietanti risvolti contemporanei.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804638421
eBook ISBN
9788852050299
Argomento
Letteratura

PARTE PRIMA

1

«Maggiore Picquart. Sono atteso dal ministro della Guerra...»
La sentinella su rue Saint-Dominique esce dalla garitta per aprire il cancello e sotto un turbine di neve attraverso il cortile ventoso per entrare nel caldo atrio dell’hôtel de Brienne, dove un azzimato giovane capitano della Guardia repubblicana si alza per salutarmi. In tono ancora più concitato, ripeto: «Maggiore Picquart. Sono atteso dal ministro della Guerra...!».
Marciamo al passo, il capitano davanti, sul pavimento di marmo bianco e nero della residenza ufficiale del ministro, saliamo la scalinata curva, oltrepassiamo armature d’argento risalenti all’epoca del Re Sole, gli orrendi dipinti del kitsch imperiale, il quadro di David Napoleone attraversa le Alpi al San Bernardo, fino a quando arriviamo al primo piano, dove ci fermiamo davanti a una finestra che dà sul giardino e il capitano si allontana per annunciare il mio arrivo, lasciandomi solo per qualche istante a contemplare una scena rara e incantevole: il giardino innevato avvolto dal silenzio nel pieno centro di una città, una mattina d’inverno. Perfino le luci elettriche giallognole del ministero della Guerra, che brillano tra gli alberi diafani, hanno un che di magico.
«Il generale Mercier l’aspetta, maggiore.»
L’ufficio del ministro è enorme, elegantemente tappezzato d’un tenue verdazzurro, con un doppio balcone che si affaccia sul giardino imbiancato. Due uomini attempati in uniforme nera, gli ufficiali più alti in grado del ministero della Guerra, sono in piedi di spalle davanti al camino acceso. Uno è il generale Raoul le Mouton de Boisdeffre, capo di stato maggiore, esperto di affari russi, artefice della nostra sempre più stretta alleanza con il nuovo zar; ha trascorso così tanto tempo presso la corte imperiale che sembra ormai un conte russo dai baffi impomatati. L’altro, sulla sessantina o poco più, è il suo superiore: il ministro della Guerra in persona, il generale Auguste Mercier.
Avanzo a passo marziale sul tappeto fino al centro della stanza e faccio il saluto militare.
Mercier ha un viso stranamente corrugato e immobile, come una maschera di cuoio. A momenti ho la strana impressione che a guardarmi attraverso gli occhi stretti a fessura sia qualcun altro. Mi dice a voce bassa: «Allora, maggiore Picquart, non c’è voluto molto. A che ora è terminata?».
«Mezz’ora fa, generale.»
«È davvero tutto finito?»
Annuisco. «È finito.»
E così tutto ha inizio.
«Venga, si accomodi davanti al caminetto» ordina il ministro. Parla con voce sommessa, come di consueto. Mi indica una sedia dorata. «L’accosti. Si tolga il cappotto e ci racconti tutto.»
Si siede composto sul bordo della poltrona, ansioso, il corpo proteso in avanti, le mani intrecciate, gli avambracci sulle ginocchia. Il protocollo gli ha impedito di presenziare allo spettacolo di questa mattina. È come un impresario che si è perso il suo stesso show. Smania di conoscere i particolari: opinioni, osservazioni, atmosfera.
«Tanto per cominciare, che clima si respirava per le strade?»
«Direi... di grande aspettativa.»
Comincio dal momento in cui sono uscito di casa, prima dell’alba, quando era ancora buio, per recarmi all’École Militaire; le strade, almeno all’inizio, erano insolitamente tranquille, per un sabato... «Il sabato ebraico» mi interrompe Mercier, con un sorriso appena accennato, gelido. In realtà, anche se non ne faccio cenno, mentre percorrevo il lugubre lastricato di rue Boissière e di avenue du Trocadéro avevo cominciato a chiedermi se la grande rappresentazione allestita dal ministro potesse rivelarsi un fiasco. Ma una volta arrivato al pont de l’Alma, e dopo aver visto la folla indistinta che si riversava sopra le acque scure della Senna, mi ero reso conto che Mercier sapeva bene che il desiderio di assistere all’umiliazione inflitta a un altro essere umano è sempre un adeguato rimedio anche contro il freddo più intenso.
Mi ero accodato alla moltitudine che sciamava verso sud, attraversando il fiume e percorrendo avenue Bosquet: una calca che straripava dai marciapiedi. Mi ricordava l’ippodromo, si percepiva la stessa sensazione di aspettativa, la comune ricerca del godimento che travalica qualsiasi barriera di classe. Gli strilloni fendevano la ressa avanti e indietro con le edizioni del mattino. L’aroma di caldarroste si spandeva dai bracieri ai bordi della strada.
In fondo al viale mi ero allontanato e avevo attraversato la strada per recarmi all’École Militaire, dove fino all’anno scorso insegnavo topografia. La fiumana continuava a scorrere alla volta del luogo convenuto in place de Fontenoy. Cominciava ad albeggiare. Nell’École risuonavano tamburi e trombe, scalpitio di zoccoli e imprecazioni, ordini urlati e trepestio di stivali. Ai nove reggimenti di fanteria acquartierati a Parigi era stato ordinato di inviare due compagnie per assistere alla cerimonia, una composta di veterani, l’altra di nuove reclute la cui fibra morale, riteneva Mercier, avrebbe tratto beneficio da quell’esempio. Mentre attraversavo gli ampi saloni ed entravo nel cour Morland, si stavano già radunando a migliaia sul fango ghiacciato.
Non avevo mai presenziato a una pubblica esecuzione, né assaporato quella particolare atmosfera, ma immaginavo fosse simile al clima che si respirava all’École quella mattina. Il cour Morland, nella sua vastità, forniva lo scenario adeguato a un grande spettacolo. In lontananza, oltre le ringhiere, nell’emiciclo di place de Fontenoy, una sterminata e mormorante marea di facce rosa si agitava dietro uno schieramento di gendarmi in uniforme nera. Non sarebbe entrato uno spillo. C’era gente in piedi sulle panchine, sui tetti delle carrozze e degli omnibus; alcuni erano appollaiati sui rami degli alberi; un uomo era addirittura riuscito ad arrampicarsi in cima al monumento che commemora la guerra del 1870.
Mercier, che sta ascoltando avidamente, mi chiede: «Secondo lei in quanti erano?».
«La prefettura mi ha assicurato che erano presenti ventimila persone.»
«Davvero?» Il ministro sembra meno colpito di quanto mi aspettassi. «Lo sa che in un primo momento avevo pensato di far svolgere la cerimonia a Longchamps? L’ippodromo ne può contenere cinquantamila.»
Boisdeffre interloquisce in tono adulatorio: «E credo proprio che lo avrebbe riempito, signor ministro».
«Certo che lo avremmo riempito! Ma al ministero degli Interni temevano dei disordini. Io invece sostengo che più gente c’è, più dura è la lezione.»
Comunque sia, a me ventimila persone sembravano molte. Il brusio della folla era attenuato ma minaccioso, come il respiro di una bestia possente, al momento tranquilla ma che all’improvviso poteva diventare pericolosa. Poco prima delle otto era comparso un drappello di cavalleggeri che aveva sfilato al trotto davanti alla folla, e d’un tratto la bestia aveva cominciato ad agitarsi intravedendo un carro nero per il trasporto di detenuti trainato da quattro cavalli. Un’ondata di scherno era serpeggiata tra la folla e aveva investito il carro. Il corteo aveva rallentato, si era aperto un cancello e il veicolo e la sua scorta avevano fatto il loro ingresso sull’acciottolato dell’École.
Mentre lo osservavo sparire in un cortile interno, un uomo accanto a me mi aveva detto: “Guardi, maggiore Picquart. I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È un progresso, suppongo”.
Era avvolto in un pastrano col bavero alzato e portava al collo una pesante sciarpa grigia e il cappello calcato sugli occhi. Lo avevo riconosciuto prima dalla voce, poi dal tremito incontrollato del corpo.
Lo avevo salutato. “Colonnello Sandherr.”
“Da dove assisterà allo spettacolo?”
“Non ci ho ancora pensato.”
“Avrei piacere che si unisse a me e ai miei uomini.”
“Sarebbe un onore, ma prima devo verificare che tutto proceda secondo le istruzioni del ministro.”
“Quando avrà assolto i suoi doveri ci troverà laggiù.” Mi aveva indicato con mano tremante il cour Morland. “Da lì godrà di un’ottima visuale.”
I miei doveri! Adesso mi chiedo se quelle parole non fossero venate di sarcasmo. Mi ero avviato verso il presidio, dove il prigioniero era sotto la custodia del capitano Lebrun-Renault della Guardia repubblicana. Non avevo alcuna voglia di rivedere il condannato. Solo due anni prima era stato mio studente in quello stesso edificio. Non avevo nulla da dirgli, mi era indifferente; avrei voluto che non fosse mai nato, che sparisse: da Parigi, dalla Francia, dall’Europa. Avevo incaricato un soldato di mandarmi Lebrun-Renault. Il capitano era un giovane corpulento dalla faccia rubizza e il fisico cavallino, sembrava un poliziotto. Avvicinatosi a me mi aveva riferito: “Il traditore è nervoso ma calmo. Non credo darà problemi. Gli sono state allentate le cuciture dell’uniforme e la sciabola è stata incisa a metà in modo che si spezzi facilmente. Nulla è stato lasciato al caso. Se proverà a parlare, a un segnale del generale Darras la banda attaccherà a suonare per coprire la voce”.
«Mi chiedo quale motivo si potrebbe suonare per coprire la voce di un uomo» mormora Mercier.
«Un canto di marinai al lavoro, signor ministro?» suggerisce Boisdeffre.
«Certo» approva Mercier con aria assennata. Ma non sorride; lo fa di rado. Si rivolge di nuovo a me. «Quindi, lei ha assistito all’evento con Sandherr e i suoi uomini. Che ne pensa di loro?»
Incerto su cosa rispondere – dopo tutto Sandherr è un colonnello –, scelgo la prudenza: «Un gruppo di ferventi patrioti che svolgono un lavoro prezioso senza riconoscimenti o quasi».
È una buona risposta. Talmente buona che probabilmente ha condizionato la mia vita, e la storia che mi accingo a raccontare. In ogni caso Mercier, o l’uomo dietro la maschera di Mercier, mi fissa con sguardo penetrante, come per sincerarsi se sono davvero convinto di quello che ho detto, quindi annuisce con aria di approvazione. «Ha proprio ragione, Picquart. La Francia deve molto a quegli uomini.»
Quella mattina, per assistere al compimento della loro opera, erano presenti tutti e sei quei militari esemplari: i componenti di quella che viene eufemisticamente chiamata la “Sezione di statistica” dello stato maggiore. Dopo aver parlato con Lebrun-Renault ero andato a cercarli. Erano discosti dagli altri, nell’angolo sudovest della piazza d’armi, a ridosso di uno dei bassi edifici circostanti. Sandherr se ne stava con le mani in tasca e il capo chino, con aria del tutto assente...
«Ricorda come chiamavano Jean Sandherr?» mi interrompe il ministro della Guerra, rivolto a Boisdeffre. «“Il più bell’uomo dell’esercito francese”.»
«Sì, signor ministro» conferma il capo di stato maggiore. «Sembra impossibile, poveraccio.»
Accanto a Sandherr c’era il suo vice, un avvinazzato grassoccio con la faccia color mattone, che beveva frequenti sorsate da una fiaschetta grigio piombo; all’altro lato l’unico membro del suo gruppo che conoscevo di vista: il corpulento Joseph Henry, il quale mi aveva dato un’amichevole pacca sulla spalla e con voce stentorea mi aveva detto che sperava di essere menzionato nel mio rapporto al ministro. Al confronto i due ufficiali di grado inferiore del reparto, entrambi capitani, apparivano esangui. C’era anche un civile, un impiegato magro come un chiodo che dava l’idea di starsene sempre rintanato al chiuso, con un binocolo da teatro. Si erano scostati per farmi spazio e l’avvinazzato mi aveva offerto un sorso del suo pessimo cognac. Poco dopo eravamo stati raggiunti da un paio di persone estranee al reparto: un elegante funzionario del ministero degli Esteri e quel fatuo e molesto colonnello dello stato maggiore, du Paty de Clam, con un monocolo che alla luce del mattino riluceva come un’orbita vuota.
Ormai era quasi ora e si avvertiva la tensione aumentare sotto il minaccioso cielo plumbeo. Per la parata erano stati radunati quasi quattromila soldati, ma non un rumore sfuggiva loro. Persino la folla era silenziosa. Si notava un certo movimento solo ai margini del cour Morland, dove alcuni ospiti accompagnati ai loro posti si affrettavano scusandosi come chi arrivi tardi a un funerale. Una donna esile e minuta, con un cappello bianco di pelliccia, il manicotto e un frivolo ombrellino blu, scortata da un alto tenente dei dragoni, era stata riconosciuta da alcuni spettatori addossati alla cancellata, e dal terreno fangoso si era levato un timido applauso, inframmezzato da grida di “Hurrah!” e “Brava!”.
Sandherr aveva alzato la testa e con un grugnito aveva chiesto: “Chi diavolo è quella?”.
Uno dei capitani aveva preso il binocolo all’impiegato e lo aveva puntato sulla donna impellicciata, che adesso annuiva e mulinava l’ombrellino in gesto cortese per ringraziare la folla.
“Che io sia dannato se non è la divina Sarah!” Il capitano aveva messo a fuoco e aveva aggiunto: “E quello insieme a lei mi sembra Rochebouet del 28°, fortunato che non è altro!”.
Mercier si appoggia allo schienale e si liscia i baffi bianchi. Sarah Bernhardt che interviene alla sua rappresentazione! È questo che il ministro vuole da me: il tocco artistico, il pettegolezzo mondano. Eppure, si finge contrariato. «Non capisco chi possa aver invitato un’attrice...»
Quando mancavano dieci minuti alle nove il comandante della parata, il generale Darras, aveva fatto il suo ingresso sull’acciottolato e si era diretto al centro della piazza d’armi. La sua cavalcatura sbuffava e abbassava la testa mentre lui cercava di tenerla in posizione; nel vedere quella vasta moltitudine, l’animale aveva iniziato a muoversi in circolo, irrequieto, scalpitando sul selciato, per poi immobilizzarsi.
Quando l’orologio aveva cominciato a battere le nove era echeggiato un ordine: “Compagnie, at-tenti!”. Gli stivali di quattromila uomini erano scattati all’unisono in un rombo fragoroso. Nello stesso istante, all’angolo opposto della piazza d’armi, erano comparse cinque figure che avevano preso ad avanzare verso il generale. A mano a mano che si avvicin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. L'UFFICIALE E LA SPIA
  5. NOTA DELL'AUTORE
  6. PERSONAGGI
  7. PARTE PRIMA
  8. SECONDA PARTE
  9. Epilogo. GIOVEDÌ 29 NOVEMBRE 1906
  10. RINGRAZIAMENTI