Gli amanti fiamminghi
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Gli amanti fiamminghi

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Gli amanti fiamminghi

Informazioni su questo libro

Due amici di mezz'età partono insieme alle rispettive mogli per un viaggio in auto verso la Catalogna. Il piccolo gruppo sembra consolidato ma, appena dietro quell'illusoria armonia, stagna un fondo di sentimenti inespressi e parole taciute. Perché il protagonista si trova più volte a fantasticare di uccidere l'amico? E sua moglie Manola, così eterea e sfuggente, lo ha mai davvero amato? Non è invece innamorata di Jacopo? La tappa iniziale del viaggio, un incantevole paesino della Costa Azzurra, sarà anche l'ultima. I due uomini intraprendono infatti un'escursione da cui Jacopo non tornerà vivo. Impossibile ricostruire cosa sia successo in quelle ore. I ricordi del protagonista sono confusi, la mente annebbiata. La sua sola certezza, il suo segreto, è di essere riuscito a trarre in salvo il misterioso manoscritto a cui Jacopo stava lavorando, Gli amanti fiamminghi, la storia di una passione disperata e autentica. Quella storia d'amore che lui, autore di successo senza più ispirazione, non è mai stato capace di scrivere. E che ora, in solitudine, legge furiosamente...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804595809
eBook ISBN
9788852051296
PAOLO MAURENSIG

GLI AMANTI
FIAMMINGHI

Mondadori

GLI AMANTI FIAMMINGHI

Questi amanti fiamminghi
sono in fiore. Non per molto.
SYLVIA PLATH

Non avevo mai sognato prima il mio amico e nel vederlo mi è parso strano che fosse ancora vivo. Aveva l’aspetto di sempre, fuorché per quell’orbita vuota. Ma non sei morto? gli ho chiesto.
Stavo per farlo, mi ha detto, ma a trattenermi è stata la tua voce.
A strapparmi da quel sogno è stato lo squillo del telefono. Mi sono guardato bene dal rispondere. Ho aspettato che si esaurisse, ma la mia pazienza è stata messa a dura prova. Non riuscirò più a prender sonno fino all’alba. E, come sempre a quest’ora della notte, inchiodato sul mio letto dall’insonnia, comincio a ricordare, e il passato preme come un bacino colmo d’acqua su una fragile diga.

Potrei cominciare con la cronaca di un viaggio fatto da quattro amici, o meglio da due amici con le rispettive mogli. Quattro persone di mezza età che, partendo da Milano, decidono di percorrere in automobile tutta la costa meridionale della Francia per andare in Catalogna a trascorrere una vacanza in una casa al mare, affittata per l’occasione. Dietro l’innocua apparenza di un viaggio di piacere, peraltro uno dei tanti viaggi fatti insieme, si svolgerà un percorso parallelo, a ritroso nel tempo o nella profondità dell’essere, per una resa dei conti con la vita. Un itinerario premeditato e deciso da uno di loro, non so dire fino a che punto consapevole delle conseguenze che ne sarebbero derivate per sé e gli altri. Dovrei aggiungere inoltre che la meta non sarà mai raggiunta, e che le esistenze di tutti e quattro ne verranno sconvolte. Non possono però ancora saperlo e si apprestano a partire animati da quell’entusiasmo giovanile che nelle persone di una certa età può portare a qualche eccesso, fino a sfiorare a volte il ridicolo. Basti pensare al loro abbigliamento: abiti di taglio militare, in tessuto cachi con disegni mimetici, calzettoni e anfibi, pantaloni al ginocchio… E l’automobile poi, un fuoristrada color canna di fucile, preso a nolo, con accessori di ogni tipo: navigatore satellitare, barre anti intrusione e fari supplementari, neanche si trattasse di affrontare la Parigi-Dakar. Per non parlare del bagagliaio carico di valigie, bauli, zaini, sacche da golf e persino di una tenda canadese mai usata prima e anche stavolta del tutto inutile dal momento che i quattro hanno deciso di fare delle tappe pernottando in albergo. Se non avessi tra le mani una foto, fatta con l’autoscatto, che li ritrae nei loro costumi da generali anziani delle giovani marmotte, tutti quanti in posa attorno alla jeep, stenterei a credere che uno dei quattro, quello con un piede sul predellino, sia proprio io.

Così, all’alba di quel giorno di fine giugno, siamo già on the road. Ci siamo accordati che per primo a guidare sarò io finché mi sentirò di farlo, dopo di che qualcuno mi darà il cambio. Ho accettato ben sapendo che nessuno dei tre mi sostituirà. Non Jacopo, con la scusa che soffre ancora dei postumi di una otite non guarita del tutto, la quale gli procura delle improvvise vertigini, quantomai fastidiose. E neppure a Emma, sua moglie, affiderei la guida di questo mastodontico fuoristrada. Quanto a mia moglie, so bene che non ama guidare. Ma il viaggio non si prospetta lungo, e a me piace stare al volante. Se tutto andrà bene varcheremo la frontiera francese all’ora di pranzo, e poi ci resterà tutto il pomeriggio per visitare il Principato di Monaco e Nizza. Jacopo ha già tracciato un itinerario dettagliato che prevede anche di fermarci per qualche giorno in Provenza, dalle parti di Saint-Paul de Vence, dove arriveremo in tempo per la cena.
Per più di un’ora di strada mi ha accompagnato il cicaleccio continuo delle nostre consorti, relegate sui sedili posteriori. Ma dopo un po’, vuoi per la levataccia, vuoi per il rollio costante della macchina, le due donne hanno ceduto al sonno. Sporgendomi un po’ verso lo specchietto retrovisore posso vedere mia moglie che, rannicchiata sul sedile, si abbraccia le ginocchia stringendole al petto, come è solita fare anche sul divano di casa nostra. Emma, invece, colta alla sprovvista dal sonno, è rimasta in una posizione instabile, con la testa che ciondola in avanti come se annuisse in continuazione. Jacopo, dal canto suo, ha reclinato all’indietro il sedile e sta dormendo da un pezzo. Nella luce del sole nascente i suoi tratti mi appaiono grossolani, con quel naso dalla punta bilobata, bucherellato da una miriade di pori dilatati, le sopracciglia setolose, la mascella appesantita dal sonno. Il cereo labirinto del padiglione auricolare è sigillato da un batuffolo di ovatta, per proteggersi, a sentire lui, dagli spifferi; protezione che lo rende del tutto sordo da quell’orecchio, soprattutto con un motore di grossa cilindrata in azione. Per quanto la nostra amicizia sia di lunga data, a volte mi sorprendo a pensare a lui con un’antipatia che rasenta l’odio. Anche stavolta Jacopo si è addormentato senza allacciarsi la cintura di sicurezza. Sembra che quando viaggiamo assieme lo faccia apposta. E così non posso fare a meno di pensare a quello che succederebbe se fossi costretto a una brusca frenata.
È strano accorgersi di quanto siano tortuosi e malevoli i nostri pensieri, soprattutto durante un’attività che non ci impegna la mente, come può esserlo la guida di un’automobile. Nel corso di una giornata tutti noi pensiamo alla morte molto più di quanto siamo disposti ad ammettere, e non parlo solo della nostra morte, ma fantastichiamo anche su quella degli altri, soprattutto su quella delle persone che ci circondano, che vivono con noi, dei nostri cari, delle persone che amiamo, per non parlare poi di quelli che siamo costretti a odiare. Pensiamo alla loro morte semplicemente quale ipotesi di cambiamento radicale della nostra vita. Come se in una partita a scacchi sacrificassimo dei pezzi per alleggerire il gioco. Non desideriamo che soffrano, questo no, ma a volte vorremmo che sparissero, e la morte è il modo più rapido e definitivo. Tuttavia, se fosse possibile metterli tutti su un’astronave e spedirli su un altro pianeta sul quale vivranno felici e contenti, questo ci taciterebbe la coscienza. Penso, ad esempio, che potrei cedere al sonno, immagino la macchina che va fuori strada e precipita in mare. Mi vedo, unico superstite, piangere sulle loro tombe, e poi, per qualche tempo chiuso nel mio dolore, inconsolabile, finché ecco che dopo qualche anno di esilio interiore un raggio di sole potrebbe irrompere nel buio della mia vita: un sorriso femminile, un altro amore, una nuova possibilità di redenzione.

Da quanto ci conosciamo, Jacopo e io? Da più di quarant’anni. La nostra amicizia è nata sui banchi di scuola, al tempo in cui frequentavamo il liceo. Abbiamo condiviso la passione per le arti, la letteratura e lo sport. Abbiamo frequentato gli stessi campi da tennis, intrapreso perigliose escursioni sulle Alpi Svizzere e, prima che un incidente in motocicletta gli mettesse fuori uso la spalla destra, i cieli delle quattro stagioni ci hanno visto, in pantaloni a scacchi, scarpe chiodate e una faretra di ferri lucenti a tracolla, percorrere i verdeggianti declivi di mezza Europa. Abbiamo condiviso anche la passione per la stessa donna, ma in questo caso ebbe lui la meglio, anche se mal gliene incolse. Fui testimone del suo primo matrimonio, e testimone, mio malgrado, anche del suo burrascoso divorzio. E così, dopo di lui, toccò a me percorrere la sciagurata trafila. Ci perdemmo di vista, e quando lo rividi dopo parecchi anni stava per convolare a seconde nozze con Emma, donna non bellissima ma colta, ricca, e brillante conversatrice. Inglese di nascita, Emma conosce perfettamente l’italiano e spesso confonde le due lingue creando straordinari giochi di parole: abilità – a sentire lei – ereditata dal padre toscano e dalla madre londinese, autentica cockney.
Dopo il matrimonio Jacopo si ritrovò suo malgrado a occuparsi di antiquariato: cominciò a gestire due eleganti negozi a Milano e uno a Firenze. In realtà erano intestati a sua moglie, e gran parte dei pezzi esposti proveniva dall’arredamento di una villa della famiglia di lei, che era stata venduta. Jacopo in precedenza non si era mai occupato di anticaglie, se non marginalmente per quel settore legato alla sua specializzazione, che era la pittura. Di suo, infatti, Jacopo ha gestito per anni una galleria d’arte contemporanea dalle parti di Brera, una galleria fondata da lui stesso nel seminterrato che un tempo era stato l’atelier fotografico di suo padre. Per quanto piccola, in passato aveva ospitato nomi prestigiosi e aveva anche lanciato nuovi talenti.
Con le dovute eccezioni, Jacopo non ha mai nutrito grande interesse per l’arte moderna; resta convinto che in massima parte la pittura contemporanea sia solo una colossale mistificazione. A volte espone di malavoglia opere di pittori che non stima, giustificandosi con il fatto che quello è il mestiere che gli ha permesso finora di vivere. Sostiene che purtroppo la grande arte pittorica è ormai estinta ed è racchiusa tutta nei musei. Musei che lui non manca di visitare periodicamente, per non perdere del tutto il proprio senso critico, e per ritemprare quello estetico. Sulle pareti di casa sua c’è qualche quadro di pregio: un Miró, un Degas, alcuni disegni a pastello di Dalí. Autentici? Lui sostiene di sì, ma da quando una decina d’anni prima fu coinvolto in uno scandalo riguardante dei falsi sequestrati nella sua galleria, questa affermazione suona ambigua, lascia intendere che neppure l’autenticazione dell’autore possa fornire un’assoluta certezza. È proprio questo inestinguibile dubbio – a parer suo – a rendere interessante l’arte del nostro tempo, di là dal valore estetico delle opere. E su questa teoria peregrina si era basata a quel tempo anche la sua difesa in appello, che lo scagionò infine per mancanza di prove.

Fu proprio nella sua galleria, in occasione di un vernissage, che conobbi Manola, la mia attuale moglie. Giunta da Buenos Aires, dove godeva di una certa notorietà, in Italia era pressoché sconosciuta. La sua pittura rispecchiava un animo femminile, sognante: dipingeva soprattutto luoghi aperti, marine dai colori pastello, brughiere tappezzate di fiori, pampas che si perdevano a vista d’occhio congiungendosi al cielo. Rare le figure umane, qualche gaucho in lontananza, profili ritagliati nel bagliore del tramonto, o alla luce del fuoco di un bivacco… Per lo più ombre indistinte, lontane. Era la prima volta che esponeva in Italia. Piccola, di ossatura minuta, con i lunghi capelli corvini impreziositi da qualche filo d’argento, non dimostrava i suoi quarant’anni. Aveva un sorriso incantevole, e altrettanto incantevole era il suo idioma italocastigliano. Mi conquistò subito dicendomi che il mio nome era molto apprezzato in Sudamerica, e che lei stessa aveva letto proprio di recente la mia ultima fatica. A quel tempo, infatti, avevo raggiunto una certa notorietà con un romanzo che era stato tradotto in parecchie lingue. Per quanto Jacopo abbia sempre giurato il contrario, non mi sono ancora liberato dal sospetto che il suggerimento di leggerlo e di parlarmene glielo avesse dato proprio lui. Ricordo ancora quella sua mano minuta, come un fastello di ossi di scricciolo, e quell’accenno trattenuto a una smorfia di dolore per avergliela stretta con troppo vigore. Lei mi accompagnò a illustrarmi i suoi quadri. Si soffermò a lungo davanti a uno in particolare, che rappresentava un uomo avvolto in un mantello e con un cappello nero dall’ampia tesa. Stava in cima a una collina e proiettava davanti a sé una lunghissima ombra che si allargava fino a fondersi con il chiaroscuro della vegetazione sottostante. Disse che quel quadro rappresentava un suo antenato indio che era stato un brujo, una specie di stregone guaritore. Mi confidò anche che questo suo avo le aveva trasmesso in parte il suo potere, ma al momento non volle precisarmene la natura. Sarebbero dovuti passare degli anni prima di scoprirlo. Non diedi importanza alle sue parole. Quella sera, quella prima volta che le parlai, dovetti farmi forza per contenere il palpitante desiderio di averla per me, un sentimento subito guastato dall’angoscia di non poterlo fare, perché sicuramente era già sposata, con prole numerosa, e di lì a poco sarebbe ripartita per non tornare più. E invece no, con mia grande sorpresa era libera, senza figli, e aveva deciso di stabilirsi in Italia. Quella sera stessa andammo a cena tutti e quattro. Per tutta la serata Emma e Jacopo giocarono a mio vantaggio il ruolo dei paraninfi. Preoccupato di mostrarmi all’altezza di quello smaccato panegirico, mi sentivo invece goffo e impacciato come un adolescente al suo primo appuntamento. Nel corso della serata provocai qualche disastro: rovesciai il vino sulla tovaglia, macchiandole il vestito, e poi nel tentativo di rimediare ruppi anche un bicchiere. I sintomi di una passione imminente c’erano tutti. Sulla strada del ritorno, lei mi prese sotto braccio con molta naturalezza, e questo suo gesto placò la mia agitazione. Tre mesi dopo eravamo sposati, e Manola entrò nella mia vita portando con sé colori, tele e pennelli, e il suo candido cacatua di nome Pablito.
Così tra Jacopo e me si pareggiavano i conti: entrambi divorziati, e risposati, entrambi apparentemente appagati dalla vita, ma in realtà terrorizzati dalla vecchiaia e votati all’infelicità. Sono passati ormai dieci anni da quel giorno, dieci anni che ci frequentiamo regolarmente, e se un tempo l’incompatibilità di carattere delle nostre prime consorti, unita alla gelosia di entrambe, aveva finito per guastare la nostra amicizia fino ad allontanarci, questa volta le cose sono andate per il meglio: le nostre mogli non si detestano, anzi provano simpatia reciproca e apparentemente sono diventate ottime amiche. Questo insperato successo è sicuramente dovuto al carattere dolce e remissivo di mia moglie, che Emma sente in qualche modo di poter dominare, anche se a fin di bene, con l’innocuo pretesto di insegnarle qualcosa. Emma, in gioventù, aveva tentato la carriera concertistica; le possibilità economiche della sua famiglia le avevano permesso di frequentare i migliori maestri, fu allieva di Gulda e di Horowitz, ma qualcosa non funzionò e, dopo aver dato qualche concerto pubblico, fu stroncata dalla critica e si ritirò. Da allora il pianoforte è diventato la sua materia di insegnamento. Si dice che sia severa, persino spietata con i propri allievi. Venuta a sapere che anche Manola da bambina aveva studiato pianoforte, ha tentato per lungo tempo di convincerla a riprendere le lezioni sotto la sua guida, pur essendo al corrente che mia moglie è afflitta da un problema alle mani, strette nella morsa inesorabile di un’artrite che le sta deformando le dita, al punto che a volte le riesce difficile persino reggere i pennelli (ma anche Renoir soffriva della stessa malattia, e questo la rincuora).
Nonostante io detesti la campagna, per lei ho preso in affitto una casa appena fuori città, ricavando, in quello che un tempo era il granaio, un luminoso atelier. Ci passiamo gran parte dell’estate. In questa grande casa di pietra, bisognosa ancora di ristrutturazioni, viviamo due vite appartate. I nostri orari, infatti, differiscono: quando siamo liberi da impegni mondani lei, con regolarità astronomica, va a dormire subito dopo il tramonto e si sveglia con il sorgere del sole; io invece mi alzo tardi e per il resto del giorno sonnecchio. In compenso sto sveglio fino a notte inoltrata. In fondo finiamo per dividere il letto quelle poche ore che precedono l’alba, e a volte neppure quelle, perché spesso, quando mi corico, di lei resta solo una nicchia di calore tra le lenzuola. Se all’inizio ero infuocato dalla passione, con l’andare del tempo questa si è affievolita. Forse perché l’atto d’amore tra noi non è mai stato del tutto spontaneo. Per lei doveva essere un rito al quale accostarsi con devozione. In quella casa, però, dove restiamo fino alle prime piogge autunnali, Manola si sente felice. Credo di non aver mai conosciuto una persona capace, come lei, di vivere totalmente fuori dalla vita reale. Nel vederla tanto rapita dalla sua arte non posso che ammirarla, anche se al contempo quella sua vitalità creativa mi deprime. Due artisti (ma io posso considerarmi tale?) non dovrebbero dividere lo stesso spazio. Se mai esiste un genio ispiratore, questi finisce sempre per prediligere il più meritevole, a danno dell’altro. Dalla mattina alla sera, finché c’è luce a sufficienza, lei continua a dipingere. E canta anche, delle melodie sconosciute, retaggio della sua terra natia. E mentre nel mio studio al pianterreno, chiuso nel mio enfer sto imprecando con le parole, al piano di sopra lei canta come un angelo. Se non fosse per Emma, nessuno riuscirebbe a sottrarla al suo splendido isolamento. È lei a telefonarle con le scuse più banali, per proporle una ricetta o consigliarle di vedere un programma alla televisione (che non abbiamo), per portarla con sé a fare acquisti o a visitare mostre, e a volte, la sera, riesce persino a convincerla a trasgredire alle sue abitudini salutiste per andare a teatro. Spesso arriva senza preavviso, gui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gli amanti fiamminghi
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