Ma siamo sicuri che le Playstation o i vari giochi elettronici manovrati con stupefacente abilità dai bambini contemporanei siano superiori ai giochi che praticavano i ragazzi di una volta, giochi, ahimè, scomparsi e lasciati in un passato non tanto, poi, così remoto?
Mi hanno regalato, qualche tempo fa, dietro mia richiesta (vi immaginate?! Dietro MIA richiesta!), un aggeggio complicato e, credo, costosissimo; in un momento di follia o megalomania credevo di poterlo domare, in qualche modo, e adoperarlo tranquillamente traendone rilassamento e diletto.
Già i primi dubbi sono arrivati nel collegare lo stesso aggeggio al televisore. «Basta inserire il cavo A nella presa B» andava dicendo il garrulo dimostratore, «e muovere il tasto F nella BRUFF, hai presente la BRUFF, no?, fino a far accendere la spia R, eccola accesa», e già sentivi dentro di te l’impossibilità non solo di giocare, ma di vedere mai montato tutto l’accrocco. Che fu però montato, e si incominciò a giocare. Credo fosse la battaglia di Stalingrado, o battaglia equipollente. Belli i colori, il suono, tutto, bella l’azione, le figure: era come entrare da protagonista in un film, e il mio eroe (o meglio il SUO eroe, quello del garrulo dimostratore che lo muoveva) avanzava impavido sparando, uccidendo nemici, insomma era una cosa divertente.
Ma quando fu il mio turno, be’, allora, con una mano devo muovere questo tasto, con l’altra quest’altro, e con l’altra mano ancora il tasto per sparare – un momento, io ho solo DUE mani –, e finì che il MIO eroe (quella volta era proprio il mio) fu ucciso almeno dieci volte da non so quale cecchino nei primi due minuti e il gioco fu staccato (com’è più facile smontare che montare), riposto e per sempre del tutto dimenticato.
Problema di sicuro generazionale. Ma anche noi, da ragazzi, giocavamo, e non smettevamo mai: senza elettricità e con niente inventavamo strumenti ludici, e ogni tanto mi prende un desiderio strano, la voglia di radunare qualche coetaneo e, in segreto, di nascosto, da qualche parte, rifare almeno uno dei vecchi giochi che, senza bisogno di attaccare una spina, resero felice la nostra infanzia.
Naturalmente non parlerò di tutti i giochi di allora, che erano centinaia, tipo palla avvelenata, palla prigioniera o i quattro cantoni, un due tre fante cavallo e re (detto anche “un due tre stella”), nascondino o l’ambiguo ed eccitante gioco del dottore, né delle frasi di rito, delle ferree regole che li governavano, comprese le “conte”, di origine misteriosa e lontana nel tempo, che ogni generazione di ragazzini trasmetteva alla successiva (basterà citare questa, modenese, degli anni Quaranta, di sapore vagamente francese: “Am be tre, calamit e rè, la betis anfan, la meren gutan, la betise bona man. Martan”). Non parlerò nemmeno dei giochi femminili, come la settimana, detta anche “luna”, o cose tipo “oh quante belle figlie, Madama Dorè” o “passa e ripassa la bella pecorina quando cammina la fa bee bee”, guardati allora con sospetto e disprezzo da maschio e adesso tralasciati per mia ignoranza delle regole. Questi di seguito, invece, sono in piccola parte i giochi virili che una volta andavano per la maggiore.
Il chioccaballe
Ovviamente questo è un nome locale, perché la fantasia infantile ha dato mille nomi ai giochi e agli strumenti ludici. A Bologna, per esempio, veniva chiamato s’ciupatt, “schioppetto”.
Richiedeva una certa abilità nel fabbricarlo, e non tutti ne erano capaci. Si prendeva un ramo dritto di sambuco (va da sé che era possibile farlo solo là dove fiorivano, i sambuchi), di un dieci-dodici centimetri di lunghezza per due centimetri circa di spessore. Con apposito attrezzo puntuto si eliminava quindi tutto il midollo, che nel sambuco è tenero e facilmente perforabile. Si otteneva così una specie di cerbottana con l’anima del diametro poco più grande di una sigaretta. Si masticava poi della stoppa fino a ottenere una pallina, che veniva introdotta nella canna e spinta a una delle estremità con un bastoncino, uno stantuffo di solito di castagno stagionato, lungo un po’ meno della cerbottana (i più raffinati facevano anche l’impugnatura, al bastoncino). Si masticava indi dell’altra stoppa e si inseriva nella seconda estremità. Spingendo con forza il bastoncino, spesso tenendo il chioccaballe con due mani e premendolo contro la pancia, con un colpo secco, per effetto dell’aria compressa, la prima pallina partiva a mo’ di proiettile producendo anche un simpatico schiocco, quasi fosse il rumore (in piccolo!) di un fucile, facendo anche uno sbuffo di vapore acqueo che sembrava fumo, e la seconda pallina rimaneva a chiudere, diciamo, la bocca di fuoco, pronta per un’altra volta e all’introduzione di una nuova pallina.
Mio padre, che era un perfezionista, invece della stoppa (faceva un po’ senso masticarla) mi aveva confezionato un piccolo numero di tappini di sughero, perfetti come dimensioni (come calibro?) e oliati per facilitarne l’uso. Il fatto è che la pallina (o il tappino) sparata raramente si ritrovava. Alla mia domanda di fabbricarmi altri tappini, mio padre brontolò qualcosa come “la gioventù moderna dove ha la testa, non è mai contenta, io ai miei tempi…” e “cercati i tuoi tappini che io insomma ho altro da fare”. Dovetti tornare a masticare la canapa per sparacchiare in giro con il mio chioccaballe.
I coperchini
Anche qui il nome è locale. Sono i tappi a corona delle bibite, detti anche tappini o tollini a Milano, grette a Genova, fino a un misterioso sinàlcol a Parma, ma chissà in quanti altri modi li avranno chiamati i ragazzi italiani.
Li reclutavamo a scatoloni, rompendo le tasche a chiunque vendesse bibite, frugando addirittura nel rusco (o pattume che dir si voglia). In mancanza dolorosa ma evidente di veri soldatini, in possesso solo a ragazzi ricchissimi che ne erano estremamente gelosi, i coperchini furono il loro surrogato per molti di noi.
I più comuni costituivano la fanteria, la plebe, il grosso della truppa (quelli, comunissimi, della bolognese birra Ronzani), mentre i più rari, colorati o variegati in modo particolare, erano i principi, i conducator, i generalissimi. Tra questi, ricordo bene un Recoaro coi colori dell’iride e un Pack Soda, se non sbaglio recante una volpe in campo verde, che tappava la bottiglietta di una misteriosa essenza.
Mi scatenavo in battaglie campali, soprattutto fra i filari di fagioli (era, la terra dei filari di fagioli, estremamente malleabile, atta a scavare trincee, ridotte o a innalzare castelli medievali presi d’assalto), mentre i sacchi di grano ammucchiati l’uno sull’altro nel mulino dei nonni si trasformavano in Rocky Mountains o Black Hills pronte a ospitare ostili indiani Apache (pronunciati allora così come scritto, divenuti poi Apasc e infine, a dimostrare vasta conoscenza di lingua yankee, Apaci), e intanto, sul pavimento di tavole di legno, ignare carovane di cowboy portavano mandrie a Laredo o andavano a civilizzare l’Ovest Selvaggio.
Ma il trionfo del coperchino era il Giro d’Italia. Lì ne bastava uno solo, e ne veniva scelto uno qualunque, ma abilmente trasformato. Perché doveva essere appesantito, in modo che, colpito con un possente “cricco” (altrimenti non so definire il colpo dato dal dito medio trattenuto dal pollice e poi improvvisamente liberato a dispiegare tutta la sua forza), non volasse per aria ma corresse veloce sul marciapiedi sul quale doveva gareggiare.
Bastava (questo i più rozzi) una buccia d’arancia ben sagomata, ma i veri raffinati disdegnavano questi volgari metodi. Si prendeva allora una candela accesa e si colava la cera fin quasi alla sommità del coperchino, poi vi si adagiava una figurina ritagliata recante l’effigie del corridore preferito (nel mio caso, va da sé, Coppi; ma per altri Bartali, o Magni, o, gli esterofili, Bobet, o Koblet). Di poi si versava l’ultimo leggero strato di cera, così che si potesse intravedere la figurina del ciclista prescelto.
Le tappe del Giro si svolgevano sui marciapiedi delle case nelle quali abitavamo, si intenda marciapiedi dell’immediato dopoguerra, pieni di buche, sconnessi in più punti – il che rendeva tutto più divertente. Il marciapiedi della casa di Marco era di sicuro il più interessante perché aveva, ai due ingressi opposti, quattro gradini semicircolari che fungevano come Gran Premi della Montagna. Quando il coperchino usciva dal marciapiedi, “forava”, e si doveva tornare da dove si era partiti.
Ci si passavano allegramente le giornate. Unico inconveniente, la strana ostilità dei genitori che, adducendo come scusa le pietose condizioni in cui ci si riduceva (non si dimentichi che indossavamo braghe corte e che per sparare il cricco bisognava inginocchiarsi per terra col braccio sinistro appoggiato al suolo e quello destro strisciato sul marciapiedi per dare più slancio), tendevano a non vedere di buon occhio l’affascinante gioco e a far lavare ripetutamente ginocchia e avambracci.
«Ma come, non me li avete già fatti lavare ieri?!»
Le palline
Come per i coperchini, ognuno di noi aveva una discreta dotazione di palline di terracotta, più qualcuna, rara e preziosa, di vetro.
Le palline venivano messe in gioco, nel senso che si potevano vincere o perdere. Il nostro sistema di gioco era il “castellino”, e cioè, stabilito quante palline c’erano in palio, se ne sistemavano tre l’una accanto all’altra e se ne aggiungeva una in cima. Si decideva poi a che distanza tirare un’altra pallina – questa, di solito, di vetro. Se abbattevi il castellino, lo vincevi. In Appennino, con gente più intimamente legata alla terra, con questo sistema potevi giocarti delle noci.
Si tirava a mano e le palline che non avevano colpito nulla rimanevano sul terreno; se qualche castellino restava in piedi, il gioco riprendeva dal giocatore con la pallina andata più lontano.
Per colpire invece un’altra pallina o fare una gara, diciamo, di fondo, il modo di tiro era diverso: potevi tirare da terra con il normale cricco (sistema cittadino), o col complesso sistema appenninico, consistente nell’appoggiare la pallina fra pollice e indice e poi, piantato il mignolo a terra, sparare il colpo. Questo metodo barocco era bello a vedersi ma di difficile realizzazione, oppure richiedeva davvero grande abilità e lunga pratica. Provai a importarlo in città ma venne prestamente rifiutato. Mi si dice invece che a Bologna usavano questo particolare tiro con regole ferree, tipo “palmo”, cioè la distanza dalla quale potevi tirare, e “cicato”, forse il suono della pallina che bocciava contro un’altra. Ma non ho capito bene, cito queste cose solo per evidenziare l’enorme complessità di regole dei giochi di noi ragazzi di allora.
Si giocava anche a una specie di golf: dopo aver scavato una serie di buchette (amici di Bologna mi hanno raccontato che estraevano cubetti di porfido dal manto stradale. Dopo li rimettevano a posto, certo!), si faceva il percorso di buca in buca con una pallina. Ma era un gioco piuttosto statico e lo si praticava abbastanza di rado.
Questo invece il prediletto. Nel dopoguerra fiorivano in ogni dove cantieri di case in costruzione, che avevano, a fianco, deliziosi mucchi di sabbia umida. Quando i muratori, alla sera, smontavano, i mucchi venivano presi d’assalto e piccole operose mani costruivano piste con audaci gallerie e arditi ponti in salita, deliziose curve a gomito e numerosi tourniquet: il tutto in vista di un altro Giro d’Italia, non più con i tappini ma con le palline. Mi dicono che un gioco simile veniva fatto, in anni più recenti, al mare, usando sfere di plastica con l’immagine di un corridore ciclista o automobilista. Mi sembra però si tratti di pallida imitazione del nostro gioco, che aveva una caratteristica di selvaggia improvvisazione in più e anche il piacere del proibito, che comportava l’ingresso di soppiatto nel cantiere dopo essersi assicurati della mancanza del guardiano, e la triste certezza che sicuramente, il giorno dopo, i rudi muratori avrebbero distrutto con nonscialanza il nostro capolavoro di pista, per costruirci banali case.
La fionda
Era detta anche tirino a Bologna, sfrombola (dialetto: sframbla) a Modena e balestra sull’Appennino. Per costruirla bastava un robusto rametto foggiato a forcella. Più difficile trovare gli altri elementi, ma un pezzetto di cuoio e due elastici ricavati spesso da una vecchia camera d’aria di bicicletta, in fondo, si trovavano sempre. Non dimentichiamo che, in quel periodo, non si buttava via niente.
I raffinati cittadini, spesso più danarosi, al posto della camera d’aria usavano speciali elastici detti “quadriletti”. Questi o gli altri più rozzi venivano fissati alla forcella con elastici più piccoli o pezzi di spago.
Si tirava un po’ a tutto, barattoli, vetri di case abbandonate, lampadine di lampioni stradali, privilegiando innocenti lucertole e ignari passeri. C’è da dire che, fortunatamente, non ci si prendeva mai.
La cerbottana
È stata il gioco principe, che coinvolgeva bande di ragazzini a volte anche di strade confinanti, quindi acerrimi nemici, in sfide selvagge. Era da giocarsi, nei mesi più caldi, soprattutto nelle prime ore del pomeriggio, in modo da rovinare il giusto riposo di anziani benpensanti che incomprensibilmente mal reagivano agli schiamazzi dei giocatori e alle tipiche urla “ti ho colpito” e alle immediate repliche “no no, mi è passata di qua”, simulando con la mano la chilometrica distanza dal corpo nella quale sarebbe passata la freccia sparata.
Per la cerbottana ci voleva come prima cosa la cerbottana stessa. Questa si otteneva in vari modi: segando la canna portante di un ombrello e usando il manico, assemblato in qualche modo, come impugnatura; cercando nelle discariche tubi di vecchi lampadari; i più ricchi, andando da un ferramenta e comprando un pezzo di tubo, a volte anche due, per avere una “due colpi”.
Bastava che tutti questi tubi avessero il calibro giusto, grosso modo il diametro di una sigaretta. Un amico utilizzò addirittura un tubo di masonite, piatto sopra e sotto e tondo ai lati, che era servito come custodia portafili in non so quale impresa elettrica – il foro per i fili era del calibro adatto. Montò poi la canna sul calcio di un moschetto Balilla e l’arma così ricavata, di grande lunghezza, bellezza e incredibile precisione, fu invidiata da tutti, anche se, per sparare (cioè soffiare all’inizio del tubo), l’amico doveva ruotarla di novanta gradi perché la bocca malamente arrivava all’inizio del foro. Ma era una gran bella cerbottana.
Le frecce si fabbricavano con striscioline di carta, piegate ad arte e incollate di saliva in punta. Qualcuno ci metteva la colla, ma il grande dispendio di munizioni nel corso di una battaglia faceva sì che non se ne potessero confezionare in precedenza più di tante, che venivano invece frettolosamente approntate nel corso delle ostilità. La faretra per contenerle erano spesso i capelli, nei quali si infilavano le frecce di riserva. Incredibile a dirsi, a quell’età tutti avevano i capelli, meno quei pochi rapati a zero.
Si racconta anche oggi, nei ricordi conviviali di anziani pensionati, di fantastiche battaglie durante le quali si usavano frecce sulla cui punta era assicurato uno spillo. Credo che, al di là di qualche tentativo di arma sperimentale, si tratti di leggende metropolitane o di semplice pseudologia fantastica di qualche adulto che cerca di rendere mitica la propria normale, litigiosa infanzia.
I cariolini
Occorrevano: una piattaforma rettangolare di legno, di varie sebbene modeste dimensioni, e due assi di legno che finivano arrotonda...