Al mio amico Paolo Milano
Si racconta, o fausto re, che c’era un grandissimo mercante che aveva ingenti ricchezze, e affari in varie città. Un giorno montò a cavallo per andare a riscuotere somme di denaro in certi luoghi, ed era oppresso dal caldo; allora si sedette sotto un albero e, ponendo mano alle bisacce, ne trasse un tozzo di pane e alcuni datteri secchi e cominciò a rompere il digiuno. Quand’ebbe finito di mangiare i datteri buttò via con forza i noccioli, ed ecco apparire un ifrit di statura colossale che, impugnando una spada sguainata, si accostò al mercante e disse: «Alzati, che io ti possa uccidere come tu hai ucciso mio figlio!». Chiese il mercante: «In che modo ho io ucciso tuo figlio?» e quello rispose: «Quando hai mangiato i datteri e buttato via i noccioli, questi hanno colpito mio figlio in pieno petto mentre passava, tanto che è morto sul colpo».
La storia del mercante e del genio, dalle Mille e una notte
Comunque sia, fu sulle acque ondeggianti dell’oceano che il volto umano prese a rivelarsi; il mare sembrò lastricato di innumerevoli volti, puntati verso il cielo; volti imploranti, irosi, disperati; un mare di volti che si alzavano a migliaia, a miriadi, a generazioni…
De Quincey, Confessioni di un mangiatore d’oppio
Certe sere a New York fa caldo come a Bangkok. Sembra che l’intero continente abbia cambiato posto e sia slittato verso l’equatore, che l’acerbo e grigio Atlantico si sia tinto di un verde tropicale, e che la gente che si accalca nelle strade sia diventata una folla di barbari fellahin tra gli sbalorditivi monumenti del loro mistero, le cui luci, in abbagliante profusione, salgono infinitamente perdendosi nel cielo oppresso dall’afa.
In una sera come questa Asa Leventhal scese frettolosamente da un treno della Terza Avenue. Soprappensiero, aveva quasi saltato la fermata. Quando se n’era accorto era balzato in piedi, urlando al controllore: «Ehi, ferma, un momento!». La nera porta scorrevole della vecchia carrozza si stava già chiudendo; lui la bloccò, la respinse con la spalla e sgusciò fuori. Il treno fuggì, e Leventhal, col fiato grosso, lo seguì con lo sguardo, imprecando; poi si voltò e scese nella strada.
Era irritatissimo. Aveva passato il pomeriggio con la cognata, la moglie di suo fratello, a Staten Island. O meglio, sua cognata glielo aveva rovinato, il pomeriggio. Appena dopo pranzo gli aveva telefonato in ufficio – era redattore di una rivistina di categoria nella parte bassa di Manhattan – e subito, alzando la voce, lo aveva implorato di correre, correre immediatamente da lei. Uno dei bambini stava male.
«Elena,» disse lui appena riuscì a farsi sentire «sono occupato. Adesso controllati e dimmi: è proprio grave?»
«Vieni subito! Asa, per piacere! Subito!»
Leventhal si premette il lobo dell’orecchio come per difendersi dalla sua voce stridula e borbottò qualcosa sull’emotività degli italiani. Poi la comunicazione si interruppe. Riattaccò, pensando che Elena avrebbe richiamato, ma il telefono rimase muto. Non sapeva in che modo raggiungerla: suo fratello non figurava nell’elenco telefonico di Staten Island. Lei stava chiamando o da un negozio o dalla casa di un vicino. Per molto tempo Leventhal aveva avuto pochissimi contatti con suo fratello e la sua famiglia. Solo qualche settimana prima aveva ricevuto da lui una cartolina col timbro di Galveston. Lavorava in un cantiere navale. In quell’occasione Leventhal aveva detto a sua moglie: «Prima Norfolk, adesso il Texas. Qualunque posto è meglio che a casa sua». Era sempre la stessa storia: Max si era sposato presto e ora sentiva il bisogno di novità e di avventure. A Brooklyn e nel New Jersey c’erano tutti i cantieri navali e tutti i posti di lavoro che voleva. E intanto Elena doveva accollarsi per intero il peso dei bambini.
Leventhal le aveva detto la verità. Era occupato. Una pila di bozze da correggere giaceva davanti a lui. Dopo un’attesa di qualche minuto, allontanò il telefono e, con un borbottio gutturale d’impazienza, prese in mano una bozza. Il bambino stava male di sicuro, forse molto male, altrimenti Elena non avrebbe fatto tante storie. E, poiché suo fratello era via, aveva quasi il dovere di andare. Ci sarebbe andato quella sera. Non poteva essere così urgente. Parlare con calma di qualcosa esulava dalle capacità di Elena. Se lo ripeté parecchie volte; nondimeno le sue grida continuarono a echeggiargli nelle orecchie insieme all’alitante ronzio dei ventilatori elettrici a stelo e al ticchettio delle macchine da scrivere. E se fosse stato veramente grave? E all’improvviso, impulsivamente, mentre si criticava per quello che faceva, si alzò, prese la giacca dalla spalliera della sedia, andò dalla ragazza al centralino e disse: «Devo vedere Beard. Glielo dici, per favore?».
Con le mani nelle tasche posteriori, appoggiato alla scrivania del suo capo, piegandosi un po’ verso di lui, Leventhal annunciò sommessamente che doveva uscire.
La faccia del signor Beard, una faccia resa più larga dalla calvizie, con un grande naso ossuto e la fronte segnata dalle vene, prese un’espressione incredula e pungente.
«Con un numero da preparare?»
«È un’emergenza, un problema di famiglia» disse Leventhal.
«Non può aspettare qualche ora?»
«Non andrei, se non fosse il caso.»
Al che la reazione del signor Beard fu secca e spiacevole. Prese il tipometro e lo sbatté sulle pagine del libro dei caratteri. «Veda lei» disse. Non c’era altro da aggiungere, ma davanti alla scrivania Leventhal si trattenne sperando in qualcosa di più. Il signor Beard si coprì la fronte macchiata con una mano tremante e in silenzio prese a studiare un articolo.
“Maledetto!” disse Leventhal tra sé.
Quando arrivò alla porta d’ingresso era cominciato un acquazzone. Per qualche minuto rimase a guardare. Tutt’a un tratto l’aria si era fatta blu come il vetro di un sifone da selz. Il muro cieco laterale del magazzino all’angolo era striato di nero, e il selciato lavato dalla pioggia e le righe di catrame fra le lastre di pietra luccicavano nella curva della strada. Leventhal tornò indietro a prendere l’impermeabile, e mentre camminava lungo il corridoio sentì che Beard, con quella sua voce irritante da pubblico ministero, diceva: «Pianta tutto a metà e va via. Quando siamo con l’acqua alla gola. E tutti gli altri oberati di lavoro».
Un’altra voce che identificò come quella del signor Fay, il direttore commerciale, rispose: «È strano che se ne vada così, su due piedi. Ci sarà qualcosa sotto».
«Se ne approfitta» riprese Beard. «Come i suoi confratelli. Non ne ho mai conosciuto uno che non lo facesse. Prima il piacere, sempre. Perché non si è offerto di tornare più tardi, almeno?»
Il signor Fay non disse nulla.
Impassibile, Leventhal si mise l’impermeabile. Un braccio gli s’impigliò nella manica, e lui spinse con forza per farlo passare. Uscì dall’ufficio con la sua pachidermica andatura, fermandosi nell’anticamera a bere un sorso d’acqua dal frigorifero. Mentre aspettava l’ascensore, si accorse di avere ancora in mano il bicchiere di carta. Lo schiacciò e con un largo gesto lo fece volare tra le sbarre, dentro al pozzo dell’ascensore.
Fino al traghetto c’era poca strada, e nella sotterranea Leventhal non si tolse l’impermeabile di gomma. C’era un caldo umido e afoso; gli si bagnò la faccia di sudore. Nella tetra luce gialla le pale del ventilatore roteavano così piano che se ne potevano contare i giri. Quando fu di nuovo in strada l’acquazzone era cessato, e quando il battello si staccò dalla banchina sulle onde lunghe e regolari, tornò a spuntare il sole. Leventhal rimase sul ponte, con l’impermeabile buttato su una spalla e tenuto stretto con la mano. Gli scafi variopinti e arrugginiti si alzavano e si abbassavano lentamente sulle acque del porto. La pioggia era arrivata all’orizzonte, una striscia scura che andava ben oltre gli incerti punti di riferimento della costa. Sull’acqua l’aria era più fresca, ma dalla parte di Staten Island le grandi e fosche tettoie verdi erano oppresse da una cappa di afa e l’ampia distesa di cemento mostrava larghe macchie di sole. La folla che sbarcava vi si riversò, dirigendosi verso la colonna degli autobus che aspettavano lungo il marciapiede col motore acceso, in un barbaglio di fumi di scarico.
Max abitava in un grosso condominio. Il suo appartamento, come quello di Leventhal in Irving Place, era a un piano alto e non c’era l’ascensore. Alcuni bambini correvano rumorosamente nell’androne; i muri erano coperti di scritte infantili. Il portiere negro con un berretto militare che stava lavando le scale guardò con una certa irritazione le orme lasciate da Leventhal. Nel cortile il bucato dondolava, giallo e irrigidito sotto il sole cocente; le carrucole cigolavano. Elena non aveva risposto allo squillo del campanello di Leventhal. Quando bussò, venne ad aprire la porta il più grande dei suoi nipoti. Il ragazzo non lo conosceva. Naturale, pensò Leventhal, come potrebbe? Il ragazzo alzò lo sguardo allo sconosciuto, riparandosi gli occhi con un braccio nel corridoio bianco e desolato coperto di polvere e battuto dal sole. Alle sue spalle l’appartamento era buio; le tapparelle erano abbassate e una lampada era accesa tra gli oggetti in disordine sul tavolo della sala da pranzo.
«Dov’è tua madre?»
«È in casa. Lei chi è?»
«Tuo zio» disse Leventhal. Entrando, spinse inevitabilmente il ragazzo da una parte.
La cognata uscì dalla cucina e si diresse frettolosamente verso di lui. Era cambiata: era ingrassata rispetto all’ultima volta che l’aveva vista.
«Dunque, Elena?»
«Oh, Asa, sei qui.» Gli prese la mano.
«Certo che sono qui. Mi hai chiesto tu di venire, no?»
«Ho provato a richiamarti, ma mi hanno detto che eri uscito.»
«Perché mi hai richiamato?»
«Phillie, prendi l’impermeabile dello zio» disse Elena.
«Il campanello non funziona?»
«L’abbiamo staccato per via del bambino.»
Leventhal mise l’impermeabile tra le braccia del ragazzo e la seguì nella sala da pranzo, dove lei si affrettò a sgombrargli una sedia.
«Oh, guarda che casa» disse. «Non ho avuto il tempo di mettere in ordine. Non so più dove ho la testa. Sono già tre settimane che ho tolto le tende, e non le ho ancora rimesse. E guarda in che stato sono.» Depose la roba che aveva tolto dalla sedia e si girò verso di lui spalancando le braccia. I capelli neri erano spettinati, sotto il vestito di cotone indossava una camicia da notte e i piedi erano scalzi. Sorrise tristemente. Leventhal, impassibile come sempre, rispose con un semplice cenno del capo. Notò che gli occhi della cognata erano ansiosi, troppo accesi e insieme troppo liquidi; nei suoi movimenti c’era un eccesso di energia, un pizzico d’inquietudine, o forse addirittura di follia arginata a malapena. Ma Leventhal era troppo sensibile a queste impressioni. Se ne rendeva conto, e si esortò a non essere precipitoso. La guardò ancora. Il suo viso, un tempo florido e bruno, era più molle, più pieno e più pallido, giallastro. Un’idea di com’era Elena una volta poteva farsela guardando suo nipote. Le somigliava moltissimo. Solo il naso curvo e prominente era quello dei Leventhal.
«Allora, dimmi, Elena, che c’è?»
«Oh, Mickey è malato, terribilmente malato» disse Elena.
«Che cos’ha?»
«Il dottore dice che non sa cosa sia. Non può fargli niente. Ha sempre la febbre alta. È cominciata un paio di settimane fa. Io gli do da mangiare e lui non tiene giù niente. Ho provato di tutto. Non so più che fare. E oggi mi sono veramente spaventata. Sono entrata nella stanza e non lo sentivo respirare.»
«Ma no, che vuoi dire?» disse Leventhal.
«Proprio quello che ti sto dicendo. Non lo sentivo respirare» disse con fervore. «Non respirava più. Ho messo la testa sul cuscino accanto alla sua. Non si sentiva niente. Gli ho messo la mano sopra il naso. Non si sentiva niente. Mi si è gelato il sangue. Ho creduto di morire anch’io. Sono corsa fuori a chiamare il dottore. Non sono riuscita a trovarlo. Gli ho telefonato in ambulatorio e dappertutto. Non riuscivo a trovarlo. Così ho telefonato a te. Quando sono tornata indietro, respirava. Stava bene. Allora ho cercato di telefonarti.»
Aveva una mano sul petto: le dita lunghe e affusolate erano sporche; sotto, la pelle era bianca e morbidissima.
Dunque, il dramma era questo. Avrebbe dovuto immaginarlo, che si trattava di qualcosa del genere.
«Non ha mai smesso di respirare» disse Leventhal con una certa asprezza. «Come poteva smettere e poi ricominciare?»
«No, no» insistette lei. «Non respirava più.»
La calma di Leventhal non era perfetta; era venata di paura. Distogliendo lo sguardo da Elena per puntarlo verso un angolo del soffitto, pensò: “Superstizioni! Proprio come nel vecchio continente. I morti che tornano in vita, immagino, e tutto il resto”.
«Perché non gli hai auscultato il cuore?» le disse.
«Avrei dovuto, probabilmente…»
«Certo che avresti dovuto.»
«Tu eri occupato, vero?»
«Be’, sicuro, avevo del lavoro…»
Al che Elena mostrò una tale contrizione che lui si impose di essere più gentile. Perché no? Era lì, il danno era fatto. Per tranquillizzarla le disse che si era preso un pomeriggio di libertà. Era da sei anni con quella ditta, e se dopo sei anni non poteva prendersi qualche ora per occuparsi di un problema personale, tanto valeva mollare tutto. Avrebbe potuto stare a casa ogni pomeriggio per un mese senza avvicinarsi al numero delle ore di straordinario non pagate che aveva fatto. Quando ebbe finito di parlare, la sua mente continuò a battere sullo stesso tasto. Per gli impiegati statali era diverso. Loro avevano il congedo per malattia e andavano a casa per un mal di testa. E il posto era sicuro… Ma non aveva voglia di rimuginarci sopra. Si alzò dalla sedia e la girò, come per cambiare, cambiando posizione, il corso dei suoi pensieri.
«Dovresti alzare le tapparelle» disse a Elena. «Perché le tieni abbassate?»
«Rinfresca un po’ la stanza.»
«Si soffoca… E devi tenere la luce accesa. Che emana calore.»
Lei aveva spostato la roba dalla sedia al tavolo, respingendo piatti, pane, cartoni di latte, riviste. Lui sospettava che Elena abbassasse le tapparelle per nascondere la propria sciatteria ai vicini di là dal cortile. Si guardò intorno con disapprovazione. E Max intanto si spostava da Norfolk a Galveston e a Dio sa dove. Forse preferiva vivere in alberghi e pensioni.
Elena diede un dollaro a Philip e lo mandò a comprare della birra. Prese i soldi dalla tasca del vestito, che era piena di spiccioli. Uscito il ragazzo, Leventhal chiese di vedere Mickey.
Coricato nella stanza chiusa, calda e semibuia di Elena, Mickey sonnecchiava nel lettone contro la parete, col lenzuolo tirato giù fino alla vita. I corti capelli neri sembravano umidi; la bocca era aperta. Indossava una canottiera. Leventhal gli accostò delicatamente il dorso della mano alla guancia; scottava. Nel ritrarre la mano urtò con l’anello contro la colonna del letto a baldacchino. L’occhiata scoccatagli da Elena lo fece trasalire. Si sorprese ad alzare la stessa mano in segno di scusa e si sentì arrossire. Lei, però, non lo stava più g...