Perché essere felice quando puoi essere normale?
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Perché essere felice quando puoi essere normale?

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Perché essere felice quando puoi essere normale?

Informazioni su questo libro

Nell'autunno del 1975 la sedicenne Jeanette Winterson deve prendere una decisione: rimanere al 200 di Water Street assieme ai genitori adottivi o continuare a vedere la ragazza di cui è innamorata e vivere in una Mini presa in prestito. Sceglie la seconda strada, perché tutto quello che vuole è essere felice. Tenta di spiegarlo alla madre, che però le chiede: "Perché essere felice quando puoi essere normale?". Da questa frase inizia il racconto intimo e personale di un'infanzia trascorsa fra un padre indifferente e una madre che passa le notti sveglia ad ascoltare il Vangelo alla radio, impastando torte e lavorando a maglia. La sua è fin dall'inizio la storia di una lotta per sopravvivere alle prepotenze di questa madre, che trova normale lasciare la figlia fuori dalla porta tutta la notte e sottoporla a esorcismi liberatori. Una lotta per affermare se stessa, la propria omosessualità e l'amore per i libri.
Perché questa è anche la storia di un amore infinito per la letteratura, nato per proteggersi e per cercare quell'affetto stabile che in casa sembra mancare irrimediabilmente, un amore che resiste anche quando la madre scopre i libri che Jeanette nasconde sotto il materasso e li dà alle fiamme.
Con generosità e onestà intellettuale, Jeanette Winterson scava nei propri pensieri e sentimenti di bambina, adolescente e donna, ripercorrendo nel contempo la sua dolorosa ricerca della famiglia naturale. Ne esce un racconto intenso, a tratti tragico ma anche allegro, come sa essere la sua cristallina scrittura, un viaggio che le farà ammettere: "Da bambina amavo Dio, naturalmente, e lui mi amava. Era già qualcosa. E amavo gli animali e la natura. E la poesia. Il mio problema erano gli esseri umani. Come si fa ad amare un'altra persona? Come possiamo fidarci del suo amore?".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804615002
eBook ISBN
9788852023422

1

La culla sbagliata

Quando mia madre era arrabbiata con me, cosa che succedeva spesso, diceva: «Il Diavolo ci ha condotto alla culla sbagliata».
L’idea del Diavolo che nel 1960 si prendeva una vacanza dalla Guerra Fredda e dal Maccartismo per fare un salto a Manchester – scopo della visita: imbrogliare Mrs Winterson – sembrava uscita da un copione teatrale. E mia madre era una depressa istrionica, una donna che teneva una pistola nel cassetto degli stracci e le pallottole in un barattolo di cera per mobili. Una donna che stava alzata tutta la notte a fare torte per non dormire nello stesso letto di mio padre. Una donna con un prolasso uterino, una disfunzione tiroidea, il cuore ingrossato, un’ulcera varicosa e due dentiere, una opaca per tutti i giorni e una perlata “per le feste”.
Non so perché non ha avuto/non ha potuto avere bambini. So che mi ha adottata perché voleva un’amica (non ne aveva) e perché ero come un razzo lanciato nel mondo, un segnale per dire che lei c’era, un punto rosso sulla cartina.
Detestava essere una nullità e io, come tutti i bambini, adottati o no, ho dovuto vivere un po’ della sua vita non vissuta. È quel che facciamo per i nostri genitori: in realtà non abbiamo altra scelta.
Era ancora viva quando fu pubblicato il mio primo romanzo, Non ci sono solo le arance, nel 1985. È parzialmente autobiografico, dal momento che racconta la storia di una ragazzina adottata da genitori di fede pentecostale che vogliono farne una missionaria. Invece lei si innamora di una donna. Sciagura! Se ne va di casa, viene ammessa a Oxford, e quando torna scopre che sua madre ha costruito una radio con cui dispensa il Vangelo ai pagani. Ha uno pseudonimo: si fa chiamare “Luce Benevola”.
Il romanzo comincia così: Come quasi tutti, ho vissuto a lungo con mio padre e mia madre. A mio padre piaceva guardare la lotta, a mia madre farla.
Per gran parte della mia vita ho lottato a mani nude. Vince chi picchia più forte. Da bambina mi picchiavano e ho imparato presto a non piangere mai. Quando venivo chiusa fuori di casa, di notte, mi sedevo sui gradini, aspettavo che arrivasse il lattaio con le due bottiglie da mezzo litro, me le scolavo, lasciavo lì i vuoti per far dispetto a mia madre e m’incamminavo verso la scuola.
Camminavamo sempre. Non avevamo la macchina, e neanche i soldi per l’autobus. Io facevo in media cinque miglia al giorno: due miglia per andare e tornare da scuola e tre miglia per andare e tornare dalla chiesa.
In chiesa ci andavamo tutte le sere tranne il giovedì.
Ho narrato alcune di queste vicende in Non ci sono solo le arance e appena il libro uscì mia madre mi mandò un biglietto furioso nel suo perfetto corsivo inglese, intimandomi di telefonarle.
Erano parecchi anni che non ci vedevamo. Mi ero laureata a Oxford, cercavo di sbarcare il lunario, ed ero giovane quando scrissi e pubblicai Non ci sono solo le arance: avevo venticinque anni.
Andai in una cabina telefonica: non avevo il telefono. Lei andò in una cabina telefonica: non aveva il telefono.
Seguendo le sue istruzioni, composi il prefisso di Accrington e il numero, ed eccola lì: a che serve Skype? La vedevo attraverso la sua voce, la sua forma si solidificava davanti a me mentre parlava.
Era una donna alta, robusta, che pesava più di cento chili. Calze elastiche, sandali bassi, un vestito di poliestere e un foulard di nylon. Si era data la cipria (bisogna tenersi in ordine) ma non il rossetto (troppo libertino).
Riempiva tutta la cabina telefonica. Era fuori misura, sproporzionata. Era come il personaggio di una fiaba, dove le misure sono approssimative e variabili. Incombeva in tutta la sua mole, si espandeva. Solo più tardi, molto più tardi, compresi quanto si sentisse piccola. La bambina che nessuno aveva voluto. La bambina mai nata ancora dentro di lei.
Ma quel giorno si ergeva sulle spalle del proprio sdegno. Disse: «È la prima volta che ho dovuto ordinare un libro sotto falso nome».
Cercai di spiegarle qual era stato il mio intento. Sono una scrittrice ambiziosa: non ha senso fare una cosa, qualsiasi cosa, se non si ha l’ambizione necessaria per farla. Il 1985 non era l’epoca giusta per i mémoire e in ogni caso io non volevo scrivere quel genere di libro. Stavo cercando di svincolarmi dallo stereotipo secondo cui le donne scrivono sempre “dell’esperienza” – la bussola di ciò che conoscono – mentre gli uomini scrivono di cose più grandi e più audaci, dipingono affreschi, sperimentano con la forma. Henry James ha sbagliato quando ha detto che Jane Austen scriveva su un pezzetto di avorio largo quattro pollici, ovvero che scriveva solo dei dettagli minuti che osservava. È stato detto più o meno lo stesso di Emily Dickinson e di Virginia Woolf. Simili affermazioni mi facevano arrabbiare. Perché non potevano coesistere l’esperienza e l’esperimento? Perché non ci potevano essere la cosa osservata e quella immaginata? Perché a una donna bisogna imporre dei limiti? Perché una scrittrice non deve coltivare l’ambizione? Perché una donna non deve essere ambiziosa?
Mrs Winterson non si lasciava convincere. Sapeva bene che gli scrittori sono dei bohémien con la fissa del sesso, che non rispettano le regole e non vanno a lavorare. A casa nostra i libri erano stati banditi – il perché lo spiegherò in seguito – e dunque il fatto che io ne avessi scritto uno, che fosse stato pubblicato, e che avesse vinto un premio… e che io fossi lì in una cabina telefonica a darle una lezione di letteratura, a farle una tirata femminista…
Bip bipaltre monete nella fessura – e io penso, mentre la sua voce va e viene come la marea: “Perché non sei orgogliosa di me?”.
Bip bipaltre monete nella fessura – e sono di nuovo chiusa fuori di casa. Fa molto freddo e mi sono messa un giornale sotto le chiappe e mi stringo nel mio montgomery.
Passa di lì una signora che conosco. Mi dà un cartoccio di patatine. Sa com’è fatta mia madre.
In casa nostra la luce è accesa. Mio padre fa il turno di notte, così lei può andare a letto, anche se non dormirà. Leggerà la Bibbia fino all’alba e, quando lui tornerà, mi farà entrare e non dirà niente e lei non dirà niente e faremo finta che sia normale lasciare tua figlia fuori dalla porta tutta la notte, e normale non andare mai a letto con il proprio marito. E che sia normale avere due dentiere, e una pistola nel cassetto degli stracci…
Siamo ancora al telefono nelle nostre rispettive cabine. Mi dice che il mio successo è opera del Diavolo, il custode delle culle sbagliate. Mi mette di fronte al fatto che ho usato il mio nome nel romanzo: se è una storia inventata, perché la protagonista si chiama Jeanette?
Perché?
Ho sempre costruito le mie storie in opposizione alle sue. È stato il mio modo per sopravvivere, fin dall’inizio. I bambini adottati inventano se stessi perché non hanno altra scelta; c’è un’assenza, un vuoto, un punto di domanda all’origine delle nostre vite. Una parte fondamentale della nostra storia è scomparsa, con violenza, come se una bomba avesse squarciato l’utero.
Il bambino viene scaraventato in un mondo sconosciuto che è conoscibile solo attraverso una storia; questo vale per tutti, è la narrazione delle nostre vite, ma l’adozione ti precipita dentro la storia dopo che è già cominciata. È come leggere un libro a cui mancano le prime pagine. È come arrivare quando il sipario si è già alzato. La sensazione che qualcosa manca non ti abbandona mai, e non può che essere così, perché qualcosa manca davvero.
Non che questo sia di per sé negativo. La parte mancante, il passato mancante, può rappresentare un’apertura, non un vuoto. Può essere un’entrata come pure un’uscita. È la documentazione fossile, l’impronta di un’altra vita, e anche se non potrai mai viverla, le tue dita tracciano i contorni dello spazio dove avrebbe potuto essere, e imparano un alfabeto Braille.
Qui ci sono dei segni, in rilievo come piaghe. Leggili. Leggi la ferita. Riscrivili. Riscrivi la ferita.
È questo il motivo per cui sono una scrittrice e non dico che “ho deciso” di esserlo, o che lo sono “diventata”. Non è stato un atto di volontà e nemmeno una scelta consapevole. Per sfuggire alle maglie fitte della storia di Mrs Winterson ho dovuto raccontare la mia. In parte realtà, in parte finzione: così è la vita. Ed è sempre una storia di copertura. La scrittura è stata la mia via di fuga.
Mi dice: «Ma non è la verità…».
La verità? Stiamo parlando di una donna convinta che il tramestio dei topi in cucina fosse la materializzazione di un ectoplasma.
C’era una casa a schiera ad Accrington, nel Lancashire. Case come quelle le chiamavamo due-su e due-giù, cioè due stanze al pianterreno e due stanze al piano di sopra. Noi tre abbiamo vissuto in una casa così per sedici anni. Ho raccontato la mia versione, fedele e inventata, precisa e alterata dal ricordo, spostata nel tempo. Mi sono ritagliata il ruolo dell’eroe, come in ogni storia di naufragio che si rispetti. E c’era stato un naufragio; mi avevano scagliato sul litorale del genere umano, dove non ho trovato nulla di umano, e quasi nessuno del mio stesso genere.
E la cosa più triste per me, se penso alla versione di copertura di Non ci sono solo le arance, è che ho scritto una storia con cui potevo convivere. L’altra era troppo dolorosa. Non avrei potuto sopravviverle.
Mi chiedono spesso, come se dovessi barrare una casella, cosa è “vero” e cosa è “falso” in quel romanzo. Ho lavorato in un’impresa di pompe funebri? Ho guidato un furgone di gelati? Avevamo una Tenda del Vangelo? Mrs Winterson si era costruita una radio ricetrasmittente? Tramortiva davvero i gatti con la fionda?
Non posso rispondere a queste domande. Posso dire che c’è un personaggio, Elsie la testimone, che si occupa della piccola Jeanette, un muro di gomma che para i colpi della forza distruttiva e distruttrice della Madre.
L’ho messa nel romanzo perché non potevo tollerare di lasciarla fuori. L’ho messa perché avrei voluto che fosse andata così. I bambini solitari si inventano amici immaginari.
Non c’era nessuna Elsie. Non c’era nessuno come Elsie. Era una solitudine molto più profonda, la mia.
A scuola, durante la ricreazione, me ne stavo sempre seduta sul muretto fuori dai cancelli. Non ero una bambina che ispirava simpatia: ero troppo spinosa, troppo arrabbiata, troppo seria, troppo strana. La devozione religiosa non incoraggiava le amicizie a scuola, un ambiente dove l’emarginato viene sempre preso di mira. La scritta L’ESTATE È ARRIVATA E NON SIAMO ANCORA REDENTI, ricamata sulla mia sacca da ginnastica, mi rendeva un facile bersaglio.
Ma anche quando riuscivo ad avere un’amica, mi mettevo d’impegno per rovinare tutto…
Se una mia compagna si affezionava a me, aspettavo che abbassasse la guardia e poi le dicevo che non volevo più essere sua amica. Guardavo la confusione e il dispiacere dipingersi sul suo viso. Le lacrime. Poi scappavo via trionfante, perché sentivo di avere il controllo della situazione, e ben presto la sensazione di trionfo e di controllo si sgretolava e io piangevo a calde lacrime perché ero di nuovo chiusa fuori, di nuovo sui gradini, dove non volevo stare.
Essere adottati significa rimanere fuori. Tu riproduci la sensazione di non appartenere a nessuno. E la riproduci cercando di fare agli altri quello che è stato fatto a te. Non riesci a credere che qualcuno ti ami per quello che sei.
Non ho mai creduto che i miei genitori mi amassero. Ho cercato di amarli, e non ha funzionato. Mi ci è voluto molto tempo per imparare ad amare: a dare amore e a riceverlo. Ho scritto dell’amore in modo ossessivo, forense, e lo riconosco/lo riconoscevo come il valore supremo.
Da bambina amavo Dio, naturalmente, e lui mi amava. Era già qualcosa. E amavo gli animali e la natura. E la poesia. Il mio problema erano gli esseri umani. Come si fa ad amare un’altra persona? Come possiamo fidarci del suo amore?
Non ne avevo idea.
Pensavo che l’amore fosse la perdita.
Perché è la perdita la misura dell’amore?
È la frase iniziale di un mio romanzo, Scritto sul corpo (1992). Davo la caccia all’amore, intrappolavo l’amore, perdevo l’amore, agognavo l’amore…
La verità è molto complessa per tutti. Per uno scrittore, le omissioni rivelano tanto quanto le cose dette. Che cosa si cela oltre il margine del testo? Il fotografo inquadra la scena: gli scrittori inquadrano il mondo.
Mrs Winterson confutava ciò che avevo rivelato, eppure a me sembrava che il non detto fosse il gemello silenzioso della storia. Sono tante le cose che non possiamo dire perché sono troppo dolorose. Ci auguriamo che le cose che riusciamo a dire attenuino la sofferenza del non detto o in qualche modo la plachino. Le storie sono una forma di compensazione. Il mondo è ingiusto, iniquo, inconoscibile, incontrollabile.
Nel raccontare una storia esercitiamo il controllo ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. È una versione possibile, non è mai quella definitiva. E forse speriamo che i silenzi vengano ascoltati da qualcun altro, e che la storia possa continuare, possa essere riraccontata.
Quando scriviamo offriamo una storia e un silenzio. Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa.
Mrs Winterson avrebbe preferito che io avessi scelto il silenzio.
Ricordate la storia di Filomela, che viene stuprata e a cui tagliano la lingua perché non riveli l’accaduto?
Credo nei racconti e nel potere delle storie perché ci permettono di parlare una lingua sconosciuta. Non veniamo ridotti al silenzio. Tutti noi, quando subiamo un trauma, ci ritroviamo a esitare, a balbettare; ci sono lunghe pause nel nostro discorso. Ci è impossibile esprimere quel che abbiamo dentro. E possiamo reimpossessarci della nostra lingua solo attraverso la lingua degli altri. Possiamo rivolgerci alla poesia. Possiamo aprire il libro. Qualcuno è stato lì per noi e ha scandagliato le parole.
Io avevo bisogno delle parole perché le famiglie infelici sono cospirazioni di silenzio. Chi rompe il silenzio non viene mai perdonato. Lui/lei deve imparare a perdonarsi.
Dio è perdono, così dice qualcuno, ma in casa nostra c’era solo il Dio del Vecchio Testamento e non c’era perdono senza grandi dosi di sacrificio. Mrs Winterson era infelice e noi dovevamo essere infelici con lei. Lei viveva in attesa dell’Apocalisse.
Il suo inno preferito era Dio li ha cancellati, con un ovvio riferimento ai peccati: in realtà lei si riferiva a tutti quelli che le davano fastidio, cioè al mondo intero. Il fatto è che non amava nessuno e non amava la vita. La vita era un peso che bisognava portare fino alla tomba, e poi scaricare. La vita era una Valle di Lacrime. La vita era un’esperienza di pre morte.
Tutti i giorni Mrs Winterson pregava: «Signore, fammi morire». Era dur...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Perché essere felice quando puoi essere normale?
  3. 1. La culla sbagliata
  4. 2. Il mio consiglio a chiunque mi ascolti: nasci
  5. 3. In principio era il Verbo
  6. 4. Il guaio di un libro è che…
  7. 5. Casa
  8. 6. Chiesa
  9. 7. Accrington
  10. 8. L’Apocalisse
  11. 9. Narrativa inglese A - Z
  12. 10. Questa è la strada
  13. 11. Arte e menzogne
  14. Intermezzo
  15. 12. La traversata notturna
  16. 13. Questo appuntamento ha luogo nel passato
  17. 14. Uno strano incontro
  18. 15. La ferita
  19. Appendice
  20. Dello stesso autore
  21. Copyright