Chissà se le famiglie felici – quelle che Tolstoj immagina tutte uguali fra loro – esistono davvero o se siamo noi, e non solo il grande scrittore russo, a fantasticarne l’esistenza. Giusto per riuscire poi a sentirci esclusi, esiliati o comunque non partecipi di una felicità toccata, invece, ad altri. Questo dubbio mi assale mentre guardo mia madre distesa nel suo letto d’ospedale.
È in coma. Attaccata a delle macchine che controllano tutto. Mi riesce difficile riconoscere, in quel corpo, mia madre. È impossibile collocarla: non è viva e non è morta. Non saprei dire dov’è. E intanto, ogni volta che varco la soglia della stanza dove si trova, i pensieri ritornano indietro, cercano di tracciare la famiglia che siamo stati: lei, mio padre, mio fratello e io. Una delle tante famiglie infelici. Adesso che il tempo sembra aver deciso che non c’è più tempo, non potrò più farle domande. Non potrò più chiederle se anche lei condivide questa percezione di infelicità, un’infelicità che ci ha avvolti come una bolla e di cui non siamo mai riusciti a parlare fra noi.
Vado due volte al giorno in ospedale e mi irrita trovare altre persone. È stata una donna ricca di fascino ed è ovvio che siano in molti a farle visita. Ma, forse, vengono soprattutto per noi; per me, mio padre e mio fratello. Mia madre è ormai lontana, lontana da ogni possibilità di relazione e contatto. Cosa vogliono da lei queste persone? Il suo silenzio assoluto, la sua immobilità disumana innalzano un muro invalicabile. Così parlano con noi: cercano di consolarci o di sostenerci. Con parole sempre uguali.
Ieri, mentre rientravo a casa, ho pensato che il dolore assottiglia il campo delle cose che è possibile dire. È una morsa che ti costringe alla banalità. E allora le frasi che sento ripetere da almeno una settimana non mi sono più sembrate così insopportabili. Anch’io non so dare voce al dolore che provo. Allo stesso modo in cui ho pietà di me per questa crudele incapacità, devo imparare ad avere pietà per coloro che insistono a dire «fatti coraggio», «la vita è così» o altre frasi che non sono affatto di circostanza.
L’unico ad apparire animato da iniziative ed enfasi è mio fratello. Anche in ospedale parla con voce decisa, stentorea. Ci dà ordini, pianifica le nostre giornate. Si comporta come uno stratega la cui presenza è indispensabile per la buona organizzazione dell’assistenza a nostra madre. Mi dà fastidio. Forse non l’ho mai veramente amato, neppure quando eravamo piccoli. C’è una foto in una cornice d’argento nel salotto dei nostri genitori, una foto di noi due bambini. Sergio ha circa cinque anni e io due, due e mezzo al massimo. Lui è un bel bambino biondo, in primo piano. Per darsi contegno ha assunto un atteggiamento un po’ forzato, con un braccio ad arco e la mano poggiata al punto vita. Quasi un piccolo duce. Io in un lieve secondo piano, seduta su un prato. Bionda anch’io. Più bionda di lui.
Forse il segreto del dissidio fra me e Sergio è che da subito ha visto che ero più bionda di lui. Che gli portavo via qualcosa. Non me l’ha mai perdonato. Da sempre si rivolge a me soprattutto per sottolineare le mie mancanze. L’altro giorno, con un tono di palese sprezzatura, mi ha fatto notare che avevo una calza smagliata. In ospedale, davanti al corpo morente di nostra madre, era quasi contento di mettere in evidenza – ancora una volta – la mia inadeguatezza. Ho cominciato a toccare, avanti e indietro, il binario che correva lungo la calza sinistra. Non gli ho risposto.
Anche nostra madre ha contribuito a fare di Sergio un uomo infelice e aggressivo. Con un candore che invocava clemenza, ha sempre ammesso di avermi amata di «un amore particolare». Se tutti gli altri hanno cercato di comprendere quella dichiarata predilezione nei miei confronti, il figlio maschio non ha saputo e potuto farlo. Il suo rancore non si è, però, rivolto contro di lei. Da sempre Sergio ha scaraventato disprezzo, odio e astio verso la mia persona.
Ho letto da qualche parte che la perdita di un genitore costringe a ripercorrere e riguardare l’intera storia di una famiglia. L’avevo letto e poi dimenticato. Ora mi torna in mente; e mi vedo già avviata verso questo cammino accidentato. Non so cosa scoprirò. Non so se riuscirò a guardare in modo diverso la densa bolla di infelicità in cui abbiamo respirato.
Mio padre intanto rimane quasi sempre muto. È come se l’imminenza della morte della moglie gli avesse tolto la parola. Almeno nei confronti di noi figli. Quando arrivano i parenti o gli amici si rianima e riacquista la sua antica cortesia. Uno dei suoi comandamenti è da sempre stato il rigore. «Non farti vedere debole. Non piangere davanti a nessuno.» Così ci ripeteva, ogni volta che io e Sergio ci lamentavamo per qualche torto subito. Si è sempre aspettato da noi ciò che a lui viene semplice. Disciplina e controllo delle emozioni.
Il garbo verso coloro che arrivano in ospedale è ancora frutto di questo rigore. Non vuole esporsi. Non vuole lasciar trasparire nulla di sé. Solo ai figli può mostrare un dolore tanto duro da ammutolirlo. Con gli altri, invece, usa la maschera dell’affabilità e della gentilezza.
Non so se qualcuno ha fatto degli studi sui discorsi che si fanno in circostanze critiche. In questi giorni, ho aggregato una sorta di catalogo sulle direzioni che lo scambio verbale prende quando un macigno – la morte imminente di una persona cara – si staglia all’orizzonte. E incombe su tutti. C’è chi parla di cibo; chi tende a raccontare le fatiche del viaggio che lo ha portato fin lì; chi rievoca insistentemente episodi di trenta o quarant’anni prima. Vie di fuga o di alleggerimento, perché ciò per cui ci si ritrova non può essere nominato.
L’agonia di mia madre mi sembra eterna. Nei primi giorni, spiavo le espressioni dei medici quando ci parlavano. Cercavo, in un loro sorriso accennato, qualcosa cui aggrapparmi per avere speranza. Poi, quando hanno detto che il coma era irreversibile, ho smesso questa investigazione alla ricerca di un appiglio che andasse oltre le parole. Adesso ho paura che duri troppo poco e ho paura che duri troppo a lungo.
Il comandamento di mio padre rimbomba ancora nella mia testa. Mi imprigiona il cuore e lo stringe in una morsa. Controllare ogni emozione, essere disciplinata, non cedere alla spinta del pianto. Soprattutto in presenza di altri. Ho quasi quarant’anni e mi sembrava di aver combattuto a sufficienza quest’uomo, durante i tempi ribelli dell’adolescenza, e quando, subito dopo l’università, ho deciso di andarmene da casa. Mi sembrava di averlo contrastato e di essere uscita dal cono d’ombra della sua algida strategia educativa. Ma adesso, di fronte all’incapacità di sciogliere il cuore, devo rivedere questo convincimento. Sono ancora, in parte, il soldatino di mio padre. Neppure davanti alla notizia che mia madre non uscirà dal coma, neppure davanti a un dolore che annienta ogni futuro, riesco a piangere.
Ieri, arrivando di corsa perché ero in ritardo di cinque minuti, l’ho visto mentre stringeva la mano di mia madre. L’ho sorpreso in un gesto di manifesta tenerezza. Lui, quando si è accorto della mia presenza, non ha ritirato la mano. Mi ha stupito. Direi che mi ha commosso. Anche in questo caso, però, le lacrime si sono fermate. E non sono stata capace di dirgli che gli ero grata per non aver fatto prevalere il rigore, per avermi ammesso a un gesto così intimo. Siamo stati, e siamo, una famiglia gravata da un’inutile infelicità.
Sergio ha studiato in Italia e poi a Londra. Si occupa di diritto societario. Ha casa a Milano, ma il lavoro lo porta spesso in Svizzera o in Inghilterra. Di fronte alla mia carriera più riservata e modesta, si potrebbe dire che finalmente è lui quello più biondo. Non ha mai avuto una relazione sentimentale che durasse più di un anno. Ragazze o giovani donne molto eleganti, sottili e sempre con calze senza smagliature.
Quando ha ristrutturato l’appartamento sui Navigli ha chiesto all’architetto di prevedere due cucine: una specie di bugigattolo dove cucina e accumula i piatti sporchi in attesa che la domestica vada a lavarli, e una seconda cucina più grande e arredata seguendo i comandamenti del minimalismo. Acciaio e legno chiaro in un lindore perfetto e scoraggiante. Quando ha visto la casa ultimata, nostra madre si è chiesta – senza trovare risposta – perché Sergio avesse sacrificato lo spazio di un possibile ripostiglio al desiderio di avere due cucine. «Che strano, proprio lui che vive da solo!» così ripeteva a se stessa e a me.
Io avevo una risposta, ma non gliel’ho comunicata. Quelle due cucine lo rappresentano, sono il suo emblema. Uno che vuole apparire perfetto e fa in modo che altri si occupino del suo disordine. È convinto di aver dato dei punti a tutti noi: carriera, prestigio, padronanza del mondo. Guarda gli altri, e soprattutto me, con lo sguardo di chi è un gradino più in alto. Credo non riesca a collegare la penombra infantile, in cui in parte lo ha costretto nostra madre quando sono nata io, all’attuale necessità di supremazia. Agisce e basta.
Lilla, la mia amica del cuore, anni fa aveva formulato una specie di predizione. «Quando tua madre non ci sarà più, lui ti farà pagare tutto.»
«Più di quanto ho già dovuto pagare?» ho chiesto io con qualche smarrimento.
La sentenza di Lilla è stata inesorabile. «Preparati, perché il suo rancore è in attesa di un vero e proprio regolamento di conti.»
Questa rapida conversazione mi torna in mente, adesso che osservo Sergio in ospedale, tronfio e in una posizione di assoluto primo piano. Quando si scaglia contro di me, nostro padre non reagisce. Rimane muto. Inizio a pensare che Lilla avesse proprio ragione, e che il peggio debba ancora venire.
Chi ho accanto in questo passaggio così straziante? Mia madre sta morendo. Sono arrivate le sue due sorelle. Non si sono mai sposate e vivono insieme nella casa dei nonni, nel paese più grande della costiera amalfitana. Zia Pina e zia Loretta. Le ultime due, ultime in tutti i sensi. Quando io e Sergio eravamo piccoli, passavano, a turno, lunghi mesi con noi, per dare una mano alla mamma. C’era questo via vai dalla casa amalfitana alla nostra casa di Padova. Zia Pina e zia Loretta hanno da sempre subito il fascino di Marina, la sorella maggiore: la adoravano e facevano ogni sforzo per non farla troppo affaticare.
Le osservo ora, sedute sulle sedie scheletriche della sala d’attesa del reparto dove Marina vive e non vive, e mi sembrano due uccellini sperduti. Con l’età si sono rimpicciolite. La voce stentorea di Sergio le intimorisce. Il silenzio rigoroso di mio padre le inquieta. Con lo sguardo mi chiedono aiuto. Allo stesso modo hanno da sempre guardato la sorella maggiore. Adesso sono io che avrei bisogno di loro, sono io che avrei bisogno di appoggiarmi. So già, però, che dovrò provare a non deluderle, e dovrò fare in modo di dare loro un poco di forza. Anche se non le somiglio, dovrò cercare di prendere il posto di mia madre.
No, non somiglio a Marina. Lei imperiosa, accentratrice, direttiva. Io incerta, sempre sul punto di scivolare, dubbiosa. Non è bastato «l’amore particolare» di cui mi ha colmata, non è bastato a rendermi simile a lei. Che abbia subito anch’io il suo potere seduttivo, com’è successo alle zie? Non lo so, ma vederla così immobile e così lontana mi dà un senso di insopportabile sospensione.
Lilla dice che quando è morta sua madre ha avvertito una solitudine infinita e pietrificante. In me, per il momento, prevale la colpa. Mi sento colpevole per non aver usato bene il nostro tempo, per essere fuggita da lei invece di cercare di avvicinarla e comprendere. Sento di non averla conosciuta abbastanza. E adesso che lei muore, a me rimangono molte domande senza risposta. Il dolore mi ributta in faccia l’idea di aver sprecato occasioni, occasioni per andarle vicino e mettere meglio a fuoco la persona che è stata.
Con le zie tutto era più facile. Fin da bambina, ho passato lunghi periodi con loro. D’inverno, quando a turno venivano a Padova. E d’estate, quando a metà di giugno andavamo noi da loro. Pina e Loretta – neppure io riesco a parlare di ciascuna di loro separandole: sono comunque una coppia indissolubile – mi sono più familiari. Le conosco bene; e anche loro mi conoscono perché non è mai stato difficile mostrare loro le mie debolezze, chiedere, sia pure in modo indiretto, il loro aiuto. Con le zie il comandamento paterno, il modello del rigore e del controllo, si sgretolava.
Mia madre, invece, ha sempre avuto per me un prevalente carattere di mistero. O forse sono io che ho costruito e tenuto in piedi quest’aura di inavvicinabilità, perché mi ha sempre fatto un po’ paura questa donna spiritosa, tagliente e capace di trovare soluzioni per ogni difficoltà. Ieri sera, mentre in taxi tornavo a casa dall’ospedale, sono stata colpita da un pensiero. Forse, l’ho invidiata. Ho invidiato la forza di Marina, la sua determinazione, la sua brillantezza. È stato come mettere altro sale su una ferita: questo pensiero mi ha scossa. Adesso che muore, io scopro di essere rimasta davanti a lei come una bambina, una ragazzina in eterna rivalità con la madre.
Lilla chiama o viene ogni sera. Dice di non volermi lasciare sola nei momenti più difficili. Dice che la sera è il momento peggiore, «perché uno si mette a letto e i pensieri vagano e finiscono sempre lì, a soffrire questa nuova, terribile solitudine». Lilla sa trovare le parole, le sa trovare perché ha già patito la morte della madre.
Ci siamo conosciute al liceo, e da allora non ci siamo mai allontanate. Un’amicizia forte e intensa, ma mai invasiva. Lilla piaceva a mia madre. «È l’unica amica sensata che hai» così mi ha sempre ripetuto. A me non sfuggiva che nella frase c’era un apprezzamento per Lilla e, allo stesso tempo, una sentenza nei miei confronti. Non so quanto mia madre mi abbia giudicata. Certo non è mai stata un pubblico ministero inesausto, come Sergio. Ma credo di esserle piaciuta troppo da bambina, e assai poco da adulta.
Perché Marina ha sposato mio padre? La domanda è così semplice e, allo stesso modo, così temibile da provocarmi un nuovo pugno nello stomaco. Non lo so. Non so nulla della vita sentimentale di mia madre; non so nulla delle sue fantasie da ragazza; non so nulla delle sue eventuali infelicità. Ieri sera Lilla l’ha ricordata in una scena estiva, quando la mia amica ci raggiungeva nella casa di Amalfi e passava con noi quasi tutto il mese di agosto. Eravamo al liceo e mia madre aveva poco più di quarant’anni. Lei la ricorda in un magnifico vestito a fiori gialli. «Abbronzata, bionda e con una risata da ragazza felice.» Mentre Lilla parla, a me salgono le lacrime agli occhi. Non sono mai riuscita a vedere mia madre così. La sua spensieratezza da «ragazza felice» a me è sempre sfuggita.
In genere sono così stanca che quando Lilla se ne va o termina la telefonata serale piombo in un sonno privo di sogni. Anche questo mi fa sentire in colpa. Mia madre muore, e io riesco a dormire. L’altro pomeriggio ho preso coraggio e ho telefonato al mio vecchio dottore. L’ho chiamato per chiedergli se era normale che dormissi ogni notte, mentre mia madre permane nella solitudine siderale del coma. Mi ha rassicurata: «Non si faccia trascinare dalla tentazione a essere un’eterna imputata in cerca di espiazione. Questo è un dolore che richiede forza». Gli sono grata perché, anche a distanza di anni, mi dà sostegno sapere che c’è qualcuno che sa andare al cuore delle mie ferite immediatamente, senza troppi giri di valzer.
Chissà se Sergio o mio padre ricordano il vestito a fiori gialli di Marina o la sua «risata da ragazza». Potrei chiederglielo. Ma escludo subito questa possibilità. Per fare una domanda del genere, bisogna esser stati o essere una famiglia felice, ammesso che ne esistano. Mi sento in colpa anche per aver cancellato questa immagine di mia madre. Forse mi sono inventata una madre affascinante ma irraggiungibile. E adesso che lei è di una lontananza impensabile, so che non ho più tempo per avvicinarla, per ritessere in modo diverso i fili del nostro legame.
Dicono che bisogna parlare alle persone in coma. Zia Pina e zia Loretta ci riescono. Io no. Quando mi avvicino al suo letto, non riesco a dirle una sola parola. Tutto resta dentro di me: i pensieri, le fantasie, le domande, lo strazio e le invocazioni. Neppure Sergio ci riesce. In questo siamo drammaticamente simili. E soli. Mio fratello non ha accanto la fidanzata di turno, che è rimasta a Milano. Lui stesso l’ha scoraggiata dal venire. «È un momento nostro. La sua presenza mi metterebbe a disagio.» Così diceva ieri a papà. Anch’io sono sola. Dopo una relazione nefasta – quella che mi ha portato a chiedere l’aiuto del dottore – ho avuto altri uomini. Presenze oscillanti, uomini in cui ho voluto credere forzando ogni evidenza. Anche adesso c’è una persona accanto a me. Eppure, allo stesso modo di Sergio, non voglio che partecipi a questo strazio.
Mi spaventa notare che un filo sottile mi lega a mio fratello. Mi spaventa pensare che le famiglie infelici si arroccano. Che anch’io, come lui, difendo la nostra intimità come una fortezza. Non sappiamo parlare fra noi, non sappiamo sostenerci. Eppure vogliamo restare soli, in un dolore di cui siamo quasi gelosi; e in una disperazione che non ammette intrusi.
La mia vita sentimentale ha impensierito nostra madre. Non ha mai compreso le mie facili esaltazioni e i momenti di inconsolabile patimento. Lei, che si era sposata a venticinque anni e da allora si era sistemata nell’amore tenace del marito, non era adatta a capire le amare vicissitudini di una figlia tanto distante dal suo percorso dritto e sicuro. Mi piace l’espressione «educazione sentimentale». La mia è stata – e forse è ancora – un’educazione sentimentale segnata da inciampi e forsennati tentativi di riscatto.
Quella di Marina sembra essersi esaurita nell’incontro con mio padre. Ma forse dico così perché mia madre muore e io so poco di lei. Non ricordo neppure il suo vestito a fiori gialli. Mi è sfuggita l’allegria della sua «risata da ragazza». L’altra notte mi sono svegliata all’improvviso con questo pensiero e, finalmente, ho pianto. Mia madre mi sta abbandonando e non potrò più chiederle se e quando è stata felice.
Vivo in questa casa da circa dieci anni. Un piccolo appartamento di un lontano parente di mio padre. Quando morì, gli eredi lo misero in vendita. A un prezzo molto buono perché le condizioni della casa erano pessime. Mio padre mi suggerì di comprarlo. Mi regalò la sua quota e mi consigliò di fare un mutuo per coprire il resto. Sergio, la prima volta che lo ha visto, ha detto: «Solo degli zingari sarebbero disposti ad abitarci. Ma vedrete che lei ci si adatterà!». Sono sicura di essere rappresentata nel mondo di mio fratello come un individuo perduto: una marginale la cui «vita sospetta e indecorosa» fa ombra alla sua luccicante brillantezza. L’altro pomeriggio è passato a prendermi per andare in ospedale. Ha citofonato, ma si è rifiutato di salire. In macchina mi ha detto: «Lo sai che non sopporto i cani». Da tre anni vivo con Pinca, una bastardina che mi ha adottata. È vero che Sergio non ama i cani, ma la sua era una scusa.
Le zie, invece, sono molto contente della mia casa. Non venivano a Padova da prima che io facessi i lavori di ristrutturazione. Hanno stentato perfino a riconoscere i mobili che mi avevano spedito dalla vecchia casa di Amalfi. Da loro mi sento riconosciuta e approvata. Mia madre mi ha molto amata, soprattutto da bambina. Eppure, sono Pina e Loretta le due donne che mi fanno sentire a mio agio. Due estroverse, sempre disposte a vedere il lato comico delle cose. Mio padre ha sempre cercato di correggere le origini campane della moglie. Non solo l’accento, ma anche quella propensione all’allegrezza che sulla costiera appartiene a molte donne, e non solo a quelle della mia famiglia.
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