La collina del vento
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La collina del vento

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La collina del vento

Informazioni su questo libro

Impetuoso, lieve, sconvolgente: è il vento che soffia senza requie sulle pendici del Rossarco, leggendaria, enigmatica altura a pochi chilometri dal mar Jonio. Il vento scuote gli olivi secolari e gli arbusti odorosi, ulula nel buio, canta di un antico segreto sepolto e fa danzare le foglie come ricordi dimenticati.
Proprio i ricordi condivisi sulla "collina del vento" costituiscono le radici profonde della famiglia Arcuri, che da generazioni considera il Rossarco non solo luogo sacro delle origini, ma anche simbolo di una terra vitale che non si arrende e tempio all'aria aperta di una dirittura etica forte quanto una fede. Così, quando il celebre archeologo trentino Paolo Orsi sale sulla collina alla ricerca della mitica città di Krimisa e la campagna di scavi si tinge di giallo, gli Arcuri cominciano a scontrarsi con l'invidia violenta degli uomini, la prepotenza del latifondista locale e le intimidazioni mafiose. Testimone fin da bambino di questa straordinaria resistenza ai soprusi è Michelangelo Arcuri, che molti anni dopo diventerà il custode della collina e dei suoi inconfessabili segreti. Ma spetterà a Rino, il più giovane degli Arcuri, di onorare una promessa fatta al padre e ricostruire pezzo per pezzo un secolo di storia familiare che s'intreccia con la grande storia d'Italia, dal primo conflitto mondiale agli anni cupi del fascismo, dalla liberazione alla rinascita di un'intera nazione nel sogno di un benessere illusorio.
Carmine Abate dà vita a un romanzo dal ritmo serrato e dal linguaggio seducente, che parte da Alberto, il tenace patriarca, agli inizi del Novecento, passa per i suoi tre figli soldati nella Grande Guerra e per tutte le sue donne forti e sensuali, e giunge fino a Umberto Zanotti-Bianco, all'affascinante Torinèsia e all'ultimo degli Arcuri, uomo dei nostri giorni che sceglie di andare lontano. La collina del vento è la saga appassionata e coinvolgente, epica ed eroica di una famiglia che nessuna avversità riesce a piegare, che nessun vento potrà mai domare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804608769
eBook ISBN
9788852023057

1

Lo stavano pedinando da giorni, ma lui non se ne accorgeva, continuava a camminare svelto, la testa bassa, lo sguardo corrucciato. Cosa cercava sulla collina? Ogni tanto si fermava, prendeva un taccuino dalla tasca della giacca e scriveva appoggiato al tronco di un ulivo. Poi spostava le lenti sulla punta del naso, alzava gli occhi spioni e forestieri dalla pagina e si faceva ombra con la mano aperta per vedere meglio in lontananza.
La collina aveva la forma allungata e sinuosa di una barca capovolta davanti al mare. Il colore dominante era il rosso porpora dei fiori di sulla. Tutt’intorno, alberi da frutto, cespugli di lentisco, alloro, ginestra, rosmarino e sambuco, una vigna, ulivi secolari e isolotti di fichi d’India sparsi qua e là, e un bosco di lecci che copriva il versante più nascosto come una mezza corona sbilenca.
Più che un’immagine reale doveva sembrargli un paesaggio mediterraneo incorniciato in un quadro di luce abbagliante, se non fosse stato per il profumo che liberava nell’aria. L’uomo lo annusava con voluttà, si capiva che gli piaceva, usciva dalla pelle e dal ventre della collina, gli pizzicava gradevolmente le narici come la fragranza del pane appena sfornato. Sorrise, la prima volta dopo giorni di camminate solitarie. E con quel sorriso sulle labbra si diresse verso il ciglio dirimpetto al mar Jonio.
Attraversò il campo di grano sfiorando con le mani le spighe verdi. Era un gesto da bambino, quasi una carezza, che contrastava con il portamento altero, la ruga profonda sulla fronte, il pizzetto brizzolato da uomo maturo. Non sospettava di essere osservato e fino all’ulivo gigante continuò a non accorgersi di nulla.
Fu a quel punto che il suo sorriso si spense in un baleno. Da un cespuglio di lentisco era comparso un uomo con il fucile spianato che gli intimava di fermarsi: «Stoppatevi, mo’ mo’. Se fate un altro passo vi sparo. È da tre giorni che girijàte quattorno. Perché? Non è tempo né di lumache né di funghi».
Il forestiero gli rispose fissando il fucile come se volesse renderlo innocuo: «Non ho soldi con me». Forse pensava di avere di fronte l’ultimo dei briganti che ancora spadroneggiava nelle campagne.
L’altro lo derise con disprezzo, lo sguardo velato dall’ombra di un cappellaccio floscio. Aveva la faccia scura di sole e grigia di barba, i denti ingialliti, un fisico robusto da contadino ben nutrito. «Non sono brigante e nemmanco delinquente. Sono il padrone di questa terra, con un nome rispettato da tutti: Arcuri Alberto. E voi chi siete?» urlò.
«Mi chiamo Paolo Orsi. Sono un archeologo e vengo dal Trentino.»
«E ch’è un arcologo
«Faccio scavi e con il materiale che trovo ricostruisco la storia di antiche civiltà» rispose calmo il forestiero.
«Cosa cercate quassù?»
«Cerco l’antica cittadina di Krimisa e il suo famoso santuario di Apollo Aleo, entrambi sepolti da millenni in una di queste colline dinanzi a Punta Alice.»
«Ah» fece Alberto con un residuo di diffidenza nella voce. Non aveva capito bene le parole di Paolo Orsi, comunque abbassò il fucile e, cambiando atteggiamento, lo invitò a seguirlo.
Si fermarono davanti alla cosiddetta casella, un ampio locale in pietra adibito a stallaggio, dispensa, riparo dalla pioggia e dormitorio, in particolare nel periodo della mietitura e della vendemmia.
«Entrate» disse Alberto all’ospite aprendo la porta. Lo fece accomodare su uno sgabello di legno e gli offrì da bere del vino da una piccola anfora che chiamò “gancella”. Poi gli rivelò: «Vi stanno pedinando le guardie da diversi giorni. Circola la voce che siete una spia degli austriaci».
Paolo Orsi scoppiò in una risata di incredulità.
«Non c’è niente da ridere» aggiunse Alberto. «Se vi trovano ancora in giro senza motivo, vi arrestano di sicuro.»
«Io un motivo ce l’ho, validissimo, non ho nulla da temere. E, proprio poco fa, credo di aver trovato dove scavare: il sito che le mappe antiche chiamano Piloru, sul declivio di questa collina in faccia al promontorio di Punta Alice.» Parlava gridando, e al suo interlocutore dava l’impressione di essere un po’ sordo, visto che arrabbiato non sembrava, anzi sorrideva, complice il vino corposo che aveva bevuto.
Paolo Orsi disse che l’archeologia era la sua vita da quarant’anni, i collaboratori lo chiamavano, alle spalle, “cane da tartufo”, difficilmente si sbagliava. E poi raccontò le straordinarie scoperte che aveva fatto in Sicilia e in Calabria, partendo da una pietra, da un pugno di terra, da un’intuizione. Si infervorava con l’entusiasmo di un bambino urlando parole sconosciute come fibule, necropoli, pinakes votivi, e nomi di luoghi misteriosi, Hipponion, Medma, Kaulonia, Taureana, Rhegion, Temesa, Terina, Locri Epizeferi, dove aveva scavato in quegli ultimi anni o dove voleva organizzare altre campagne di scavi, concluse, essendo pure soprintendente alle Antichità della Calabria. Non c’era vanteria nella sua voce, ma passione ossessiva.
Un uomo così non aveva di certo una famiglia, pensò Alberto Arcuri, e gli chiese: «Avete figli?».
«No, non sono sposato e mai mi sposerò. Una moglie sarebbe d’impiccio al mio mestiere. I bambini mi piacciono, ma non avrei un minuto di tempo da dedicare a loro. E voi?»
«Tre mascoli: Michele, Arturo e Angelo. Purtroppo tutt’e tre soldati, il figlio grande doveva congedarsi in questi giorni ma me l’hanno bloccato. Il piccolo è partito per il militare da una settimana. Speriamo che mi ritornano sanizzi e salvi come sono partiti. Secondo voi che leggete i giornali, è vero che l’Italia entrerà in guerra a giorni?»
Era la primavera del 1915. Il forestiero si fece serio e rispose con una previsione rassicurante, più che altro una speranza: «Non credo. E se entra sarà una guerra destinata a durare poco, almeno così si dice. I suoi figli torneranno presto». Erano le parole esatte che voleva sentire quel padre preoccupato.
«Che Cristo vi arrubasse le parole dalla bocca» disse Alberto. E raccontò i sacrifici fatti per crescere i figli, per il loro futuro. Fin da giovane aveva lavorato da cottimista nella miniera di zolfo tra Strongoli e San Nicola dell’Alto; anche lui scavava, ma sottoterra, a volte usciva dalla galleria con la schiena rotta, il veleno dentro la panza, i polmoni, il cannarozzo, e andava a lavorare in campagna. Quindici anni così, con una fissazione nella testa: risalire dal buio e dalle puzze della miniera alla luce e al profumo della collina, acquistandola fondo dopo fondo. Le prime due quote, da cinque tomolate ciascuna, le aveva avute in eredità dalle buonanime del padre e di uno zio materno che non aveva figli: erano pietrose e infertili come gli altri terreni ottenuti dai contadini in seguito alla quotizzazione del demanio nel 1892. Le quote del Rossarco, essendo troppo lontane da Spillace e incolte da secoli, erano state vendute alla famiglia Arcuri da paesani che le avevano abbandonate per emigrare nella Merica al più presto.
Non sapeva nemmanco lui com’era riuscito a impossessarsi del Rossarco. Era stato un misto di fortuna e sacrifici, di culo e crozza, e soprattutto una forza di volontà più dura del terreno pietroso che lui avrebbe domato del tutto grazie all’aiuto dei figli. Anche per questo non vedeva l’ora che tornassero.
«Avete mai trovato qualche oggetto antico, per esempio monete o pezzi di terracotta, mentre zappavate?» chiese Paolo Orsi, riportando il discorso sul motivo della sua perlustrazione.
«Macàri! Sì, forse qualche coccio di gancella, ma niente di prezioso. Conosco la collina palmo a palmo, a parte lo zoccolo di terra nuda attorno al Piloru, che non ci appartiene, e il burrone di Timpalea, roba da capre e non da cristiani.» Fece una pausa per riprendere fiato, si sforzò di sorridere in anticipo. «Se chiedete al mio paese vi dicono invece che abbiamo trovato una poccia di monete d’oro e con la vendita abbiamo preso il Rossarco. Quando una famiglia come la nostra fa progresso, la gente imbidiosa usa la fantasticheria al posto della crozza.»
«Sull’invidia e la cattiveria qui in Calabria, ne so qualcosa pure io... ma ditemi, signor Arcuri, avete conservato quei frammenti di anfore?»
«No, le abbiamo buttate alla fiumara assieme al pietrame!»
«Peccato» commentò Paolo Orsi, e poi gli diede un consiglio che a causa della voce burbera parve un ordine perentorio: «Se vi capitano altri frammenti tra le mani, soprattutto colorati di nero o con qualche decorazione, conservateli. Magari tra cento pezzi ce ne è uno interessante per le nostre ricerche».
«Sì, va bene» disse Alberto con un sorriso furbo sulle labbra. E bevve un lungo sorso di vino a suggellare la promessa.
Quando uscirono dalla casella il sole era tramontato dietro i monti della Sila, i colori superbi della collina parevano ricoperti da un velo di luce soffusa, e il vento odorava di mare.
Prima di accomiatarsi, Paolo Orsi disegnò con lo sguardo un semicerchio che includeva tutta la collina e il paesaggio circostante, fino a Spillace. Fu in quel momento che vide un piccolo uccello bianco che sfrecciava e garriva solitario sulla casella.
«È una rindinella janca» affermò Alberto con sicurezza. «È da due giorni che vola su e giù nel cielo sopra noi. Cerca i suoi compagni, li trova, sta un poco con loro, poi scappa via e non sa dove andare: vola e vola con il beccuccio aperto fino alla sera, mi fa una testa tanta dal gridare e non capisco se è grido di cuntentizza o di dolore, finché sparisce nelle ciaramìde della casella, dove ha il nido.»
«Incredibile! È da quando ero ragazzo in Trentino che mi aggiro sotto cieli di rondini. Eppure non avevo mai visto una rondine albina, e bella come questa.» Poi, sull’onda dell’entusiasmo, pronunciò una frase che Alberto Arcuri avrebbe ripetuto ai familiari come se fosse un suo pensiero; e anche mio padre, molti anni dopo, l’avrebbe condivisa e, amaramente, fatta sua: «Questi luoghi sono ricchi fuori e dentro. Solo chi è capace di amarli sa capirli e apprezzarne la bellezza e i tesori nascosti. Gli altri sono ciechi e ignoranti. O disonesti e malandrini che pensano solo alle loro tasche».
Infine Paolo Orsi scese a passi lunghi e veloci, quasi temesse di arrivare in ritardo a un appuntamento.
Al bivio, oltre la fiumara, c’erano due uomini in uniforme. Lo aspettavano per arrestarlo.

2

Rientrato a casa, Alberto Arcuri raccontò alla moglie Sofia la storia dell’incontro nei dettagli, compreso il volo della rondine albina, e anche nelle sere successive continuò a parlare di Paolo Orsi, quasi fosse un vecchio amico e ne conoscesse le aspirazioni più profonde. La sua voce rimbombava nel s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La collina del vento
  4. Promesse
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Profumo
  9. Capitolo 4
  10. Capitolo 5
  11. Capitolo 6
  12. Capitolo 7
  13. Somiglianze
  14. Capitolo 8
  15. Capitolo 9
  16. Capitolo 10
  17. Capitolo 11
  18. Capitolo 12
  19. Vento
  20. Capitolo 13
  21. Capitolo 14
  22. Capitolo 15
  23. Capitolo 16
  24. Capitolo 17
  25. Conferme
  26. Capitolo 18
  27. Capitolo 19
  28. Capitolo 20
  29. Capitolo 21
  30. Sogno
  31. Capitolo 22
  32. Capitolo 23
  33. Capitolo 24
  34. Capitolo 25
  35. Rosso
  36. Capitolo 26
  37. Capitolo 27
  38. Capitolo 28
  39. Capitolo 29
  40. Capitolo 30
  41. Scavi
  42. Capitolo 31
  43. Capitolo 32
  44. Capitolo 33
  45. Capitolo 34
  46. Capitolo 35
  47. Verità
  48. Epilogo
  49. Nota
  50. Copyright