Lo stavano pedinando da giorni, ma lui non se ne accorgeva, continuava a camminare svelto, la testa bassa, lo sguardo corrucciato. Cosa cercava sulla collina? Ogni tanto si fermava, prendeva un taccuino dalla tasca della giacca e scriveva appoggiato al tronco di un ulivo. Poi spostava le lenti sulla punta del naso, alzava gli occhi spioni e forestieri dalla pagina e si faceva ombra con la mano aperta per vedere meglio in lontananza.
La collina aveva la forma allungata e sinuosa di una barca capovolta davanti al mare. Il colore dominante era il rosso porpora dei fiori di sulla. Tutt’intorno, alberi da frutto, cespugli di lentisco, alloro, ginestra, rosmarino e sambuco, una vigna, ulivi secolari e isolotti di fichi d’India sparsi qua e là, e un bosco di lecci che copriva il versante più nascosto come una mezza corona sbilenca.
Più che un’immagine reale doveva sembrargli un paesaggio mediterraneo incorniciato in un quadro di luce abbagliante, se non fosse stato per il profumo che liberava nell’aria. L’uomo lo annusava con voluttà, si capiva che gli piaceva, usciva dalla pelle e dal ventre della collina, gli pizzicava gradevolmente le narici come la fragranza del pane appena sfornato. Sorrise, la prima volta dopo giorni di camminate solitarie. E con quel sorriso sulle labbra si diresse verso il ciglio dirimpetto al mar Jonio.
Attraversò il campo di grano sfiorando con le mani le spighe verdi. Era un gesto da bambino, quasi una carezza, che contrastava con il portamento altero, la ruga profonda sulla fronte, il pizzetto brizzolato da uomo maturo. Non sospettava di essere osservato e fino all’ulivo gigante continuò a non accorgersi di nulla.
Fu a quel punto che il suo sorriso si spense in un baleno. Da un cespuglio di lentisco era comparso un uomo con il fucile spianato che gli intimava di fermarsi: «Stoppatevi, mo’ mo’. Se fate un altro passo vi sparo. È da tre giorni che girijàte quattorno. Perché? Non è tempo né di lumache né di funghi».
Il forestiero gli rispose fissando il fucile come se volesse renderlo innocuo: «Non ho soldi con me». Forse pensava di avere di fronte l’ultimo dei briganti che ancora spadroneggiava nelle campagne.
L’altro lo derise con disprezzo, lo sguardo velato dall’ombra di un cappellaccio floscio. Aveva la faccia scura di sole e grigia di barba, i denti ingialliti, un fisico robusto da contadino ben nutrito. «Non sono brigante e nemmanco delinquente. Sono il padrone di questa terra, con un nome rispettato da tutti: Arcuri Alberto. E voi chi siete?» urlò.
«Mi chiamo Paolo Orsi. Sono un archeologo e vengo dal Trentino.»
«E ch’è un arcologo?»
«Faccio scavi e con il materiale che trovo ricostruisco la storia di antiche civiltà» rispose calmo il forestiero.
«Cosa cercate quassù?»
«Cerco l’antica cittadina di Krimisa e il suo famoso santuario di Apollo Aleo, entrambi sepolti da millenni in una di queste colline dinanzi a Punta Alice.»
«Ah» fece Alberto con un residuo di diffidenza nella voce. Non aveva capito bene le parole di Paolo Orsi, comunque abbassò il fucile e, cambiando atteggiamento, lo invitò a seguirlo.
Si fermarono davanti alla cosiddetta casella, un ampio locale in pietra adibito a stallaggio, dispensa, riparo dalla pioggia e dormitorio, in particolare nel periodo della mietitura e della vendemmia.
«Entrate» disse Alberto all’ospite aprendo la porta. Lo fece accomodare su uno sgabello di legno e gli offrì da bere del vino da una piccola anfora che chiamò “gancella”. Poi gli rivelò: «Vi stanno pedinando le guardie da diversi giorni. Circola la voce che siete una spia degli austriaci».
Paolo Orsi scoppiò in una risata di incredulità.
«Non c’è niente da ridere» aggiunse Alberto. «Se vi trovano ancora in giro senza motivo, vi arrestano di sicuro.»
«Io un motivo ce l’ho, validissimo, non ho nulla da temere. E, proprio poco fa, credo di aver trovato dove scavare: il sito che le mappe antiche chiamano Piloru, sul declivio di questa collina in faccia al promontorio di Punta Alice.» Parlava gridando, e al suo interlocutore dava l’impressione di essere un po’ sordo, visto che arrabbiato non sembrava, anzi sorrideva, complice il vino corposo che aveva bevuto.
Paolo Orsi disse che l’archeologia era la sua vita da quarant’anni, i collaboratori lo chiamavano, alle spalle, “cane da tartufo”, difficilmente si sbagliava. E poi raccontò le straordinarie scoperte che aveva fatto in Sicilia e in Calabria, partendo da una pietra, da un pugno di terra, da un’intuizione. Si infervorava con l’entusiasmo di un bambino urlando parole sconosciute come fibule, necropoli, pinakes votivi, e nomi di luoghi misteriosi, Hipponion, Medma, Kaulonia, Taureana, Rhegion, Temesa, Terina, Locri Epizeferi, dove aveva scavato in quegli ultimi anni o dove voleva organizzare altre campagne di scavi, concluse, essendo pure soprintendente alle Antichità della Calabria. Non c’era vanteria nella sua voce, ma passione ossessiva.
Un uomo così non aveva di certo una famiglia, pensò Alberto Arcuri, e gli chiese: «Avete figli?».
«No, non sono sposato e mai mi sposerò. Una moglie sarebbe d’impiccio al mio mestiere. I bambini mi piacciono, ma non avrei un minuto di tempo da dedicare a loro. E voi?»
«Tre mascoli: Michele, Arturo e Angelo. Purtroppo tutt’e tre soldati, il figlio grande doveva congedarsi in questi giorni ma me l’hanno bloccato. Il piccolo è partito per il militare da una settimana. Speriamo che mi ritornano sanizzi e salvi come sono partiti. Secondo voi che leggete i giornali, è vero che l’Italia entrerà in guerra a giorni?»
Era la primavera del 1915. Il forestiero si fece serio e rispose con una previsione rassicurante, più che altro una speranza: «Non credo. E se entra sarà una guerra destinata a durare poco, almeno così si dice. I suoi figli torneranno presto». Erano le parole esatte che voleva sentire quel padre preoccupato.
«Che Cristo vi arrubasse le parole dalla bocca» disse Alberto. E raccontò i sacrifici fatti per crescere i figli, per il loro futuro. Fin da giovane aveva lavorato da cottimista nella miniera di zolfo tra Strongoli e San Nicola dell’Alto; anche lui scavava, ma sottoterra, a volte usciva dalla galleria con la schiena rotta, il veleno dentro la panza, i polmoni, il cannarozzo, e andava a lavorare in campagna. Quindici anni così, con una fissazione nella testa: risalire dal buio e dalle puzze della miniera alla luce e al profumo della collina, acquistandola fondo dopo fondo. Le prime due quote, da cinque tomolate ciascuna, le aveva avute in eredità dalle buonanime del padre e di uno zio materno che non aveva figli: erano pietrose e infertili come gli altri terreni ottenuti dai contadini in seguito alla quotizzazione del demanio nel 1892. Le quote del Rossarco, essendo troppo lontane da Spillace e incolte da secoli, erano state vendute alla famiglia Arcuri da paesani che le avevano abbandonate per emigrare nella Merica al più presto.
Non sapeva nemmanco lui com’era riuscito a impossessarsi del Rossarco. Era stato un misto di fortuna e sacrifici, di culo e crozza, e soprattutto una forza di volontà più dura del terreno pietroso che lui avrebbe domato del tutto grazie all’aiuto dei figli. Anche per questo non vedeva l’ora che tornassero.
«Avete mai trovato qualche oggetto antico, per esempio monete o pezzi di terracotta, mentre zappavate?» chiese Paolo Orsi, riportando il discorso sul motivo della sua perlustrazione.
«Macàri! Sì, forse qualche coccio di gancella, ma niente di prezioso. Conosco la collina palmo a palmo, a parte lo zoccolo di terra nuda attorno al Piloru, che non ci appartiene, e il burrone di Timpalea, roba da capre e non da cristiani.» Fece una pausa per riprendere fiato, si sforzò di sorridere in anticipo. «Se chiedete al mio paese vi dicono invece che abbiamo trovato una poccia di monete d’oro e con la vendita abbiamo preso il Rossarco. Quando una famiglia come la nostra fa progresso, la gente imbidiosa usa la fantasticheria al posto della crozza.»
«Sull’invidia e la cattiveria qui in Calabria, ne so qualcosa pure io... ma ditemi, signor Arcuri, avete conservato quei frammenti di anfore?»
«No, le abbiamo buttate alla fiumara assieme al pietrame!»
«Peccato» commentò Paolo Orsi, e poi gli diede un consiglio che a causa della voce burbera parve un ordine perentorio: «Se vi capitano altri frammenti tra le mani, soprattutto colorati di nero o con qualche decorazione, conservateli. Magari tra cento pezzi ce ne è uno interessante per le nostre ricerche».
«Sì, va bene» disse Alberto con un sorriso furbo sulle labbra. E bevve un lungo sorso di vino a suggellare la promessa.
Quando uscirono dalla casella il sole era tramontato dietro i monti della Sila, i colori superbi della collina parevano ricoperti da un velo di luce soffusa, e il vento odorava di mare.
Prima di accomiatarsi, Paolo Orsi disegnò con lo sguardo un semicerchio che includeva tutta la collina e il paesaggio circostante, fino a Spillace. Fu in quel momento che vide un piccolo uccello bianco che sfrecciava e garriva solitario sulla casella.
«È una rindinella janca» affermò Alberto con sicurezza. «È da due giorni che vola su e giù nel cielo sopra noi. Cerca i suoi compagni, li trova, sta un poco con loro, poi scappa via e non sa dove andare: vola e vola con il beccuccio aperto fino alla sera, mi fa una testa tanta dal gridare e non capisco se è grido di cuntentizza o di dolore, finché sparisce nelle ciaramìde della casella, dove ha il nido.»
«Incredibile! È da quando ero ragazzo in Trentino che mi aggiro sotto cieli di rondini. Eppure non avevo mai visto una rondine albina, e bella come questa.» Poi, sull’onda dell’entusiasmo, pronunciò una frase che Alberto Arcuri avrebbe ripetuto ai familiari come se fosse un suo pensiero; e anche mio padre, molti anni dopo, l’avrebbe condivisa e, amaramente, fatta sua: «Questi luoghi sono ricchi fuori e dentro. Solo chi è capace di amarli sa capirli e apprezzarne la bellezza e i tesori nascosti. Gli altri sono ciechi e ignoranti. O disonesti e malandrini che pensano solo alle loro tasche».
Infine Paolo Orsi scese a passi lunghi e veloci, quasi temesse di arrivare in ritardo a un appuntamento.
Al bivio, oltre la fiumara, c’erano due uomini in uniforme. Lo aspettavano per arrestarlo.