Dame, mercanti e cavalieri
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Dame, mercanti e cavalieri

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Scelte tra le cento novelle del Decamerone, queste storie ispirate alla letteratura cortese "esaltano la grandezza d'animo, il senso dell'onore, della lealtà, della fedeltà ai propri ideali". Ma a dame e cavalieri Boccaccio affiancò i mercanti, lasciando che ognuno dei suoi personaggi vincesse o perdesse opponendo il suo Ingegno alla Natura e alla Sorte. Scritte quando la lingua italiana era ancora molto giovane, arrivano ai lettori tradotte da Bianca Pitzorno, nella loro integrità, nell'italiano di oggi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804607724
eBook ISBN
9788852024160

IL CONTE STALLIERE


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Il re di Francia e suo figlio dovevano partire per fare la guerra ai tedeschi. Avevano radunato un grandissimo esercito ed erano accompagnati dai più nobili e valorosi cavalieri del regno.
Prima di partire, perché durante la loro assenza il paese non restasse senza governo, nominarono vicario generale il conte Gualtieri d’Anversa. Costui era noto non solo come espertissimo uomo d’armi, ma soprattutto come persona savia, accorta e di nobili sentimenti, devoto alla famiglia reale e suo fedele servitore. Ritenendo dunque che il conte si sarebbe reso più utile nelle sottigliezze del governo piuttosto che nelle fatiche della guerra, il re e suo figlio gli affidarono l’amministrazione del governo e se ne partirono.
Gualtieri cominciò a esercitare il compito affidatogli con ordine e con saggezza, e benché il potere fosse stato lasciato esclusivamente nelle sue mani, per delicatezza d’animo si consultava su ogni questione con la regina e con la principessa sua nuora. Trattava queste dame con grande rispetto, volendo dimostrar loro che non si era inorgoglito per la nuova carica e che non si riteneva un loro pari, ma che era anzi rimasto come prima un loro fedele servitore.
Questo Gualtieri aveva circa quarant’anni e, oltre a essere un bellissimo uomo, era affabile, cortese, sensibile, istruito, di educazione raffinata, elegante nel vestire e nei modi più di qualsiasi altro cavaliere del regno.
Ora avvenne che, durante l’assenza del re e di suo figlio, la contessa d’Anversa morì, lasciando il conte Gualtieri vedovo e con due figli, un maschio e una femmina, in tenera età.
Quando la principessa nuora del re lo venne a sapere, cominciò a guardarlo con occhi diversi. Il suo sposo era ormai assente da molto tempo e la principessa si sentiva sola. Le pareva di sprecare, in questa attesa solitaria, la sua gioventù e la sua bellezza. E poiché per gli affari del governo vedeva tutti i giorni il conte d’Anversa e aveva modo di apprezzarne sia l’aspetto che il carattere, finì per innamorarsene. Si trovavano entrambi nella stessa condizione, pensava la principessa: lei senza un uomo e lui senza una donna. Perché, a patto che nessuno lo venisse a sapere, non consolare a vicenda le rispettive solitudini?
Mandò a chiamare il conte e tra mille rossori, esitazioni e lacrime gli confessò il proprio amore e, gettandogli le braccia al collo, lo supplicò di ricambiarla. Se la loro relazione restava segreta, diceva la principessa, era come se non ci fosse adulterio né tradimento, e nessuno avrebbe potuto biasimarli.
Il conte era andato all’appuntamento senza nessun sospetto. A quelle parole inorridì, si strappò dalle braccia della donna e la rimproverò per la sua follia. Protestò la propria lealtà nei confronti del principe: mai ne avrebbe tradito la fiducia o macchiato l’onore. Né, per tutti i santi, avrebbe permesso che altri lo facesse!
Davanti a questa reazione inaspettata, la principessa scordò in un attimo tutto l’amore che aveva nutrito per il conte e fu assalita da una rabbia furibonda. L’umiliazione di essersi dichiarata per prima e di essere stata respinta, l’idea che il conte potesse disprezzarla e trattarla con scherno la facevano impazzire. Ora il suo unico pensiero era quello di vendicarsi.
— Io morivo d’amore per voi, e voi, crudele, vi siete rifiutato di aiutarmi a guarire. Vedremo chi di noi due morirà, adesso!
Si arruffò i capelli, si stracciò le vesti e si mise a strillare: — Aiuto! Accorrete! Il conte d’Anversa mi vuol fare violenza!
Preso dal panico, il conte pensò che i cortigiani, invidiosi della sua posizione, avrebbero preferito credere alle malvagie accuse della principessa piuttosto che alla sua innocenza. Così, invece di restare nella stanza per difendersi e scolparsi, fuggì con la maggior velocità possibile dagli appartamenti della principessa e dal palazzo reale.
Andò a casa e senza stare a riflettere oltre, né a chiedere consiglio, prese i suoi due bambini, montò a cavallo ponendoseli in arcione, spronò l’animale e via al galoppo nella notte verso Calais, verso l’imbarco per l’Inghilterra.
Nel palazzo reale intanto, alle grida della principessa, erano accorsi in molti e, vedendola in quello stato, credettero alle sue parole. Anzi, si dissero convinti che tutte le belle maniere del conte d’Anversa non avevano avuto altro scopo se non quello di sedurre la nuora del re.
Pieni di furore, corsero dunque alla casa del conte per arrestarlo e, non trovandolo, si gettarono a saccheggiare l’edificio e, quando ebbero finito, lo rasero al suolo.
La notizia dell’oltraggio fatto alla principessa, arricchita di molti ignobili particolari, raggiunse al fronte il re e suo figlio, i quali ne restarono sconvolti e condannarono il conte d’Anversa e tutti i suoi discendenti all’esilio perpetuo, promettendo inoltre grandissime ricompense a chi l’avesse consegnato vivo o morto.
Gualtieri, disperato, si rese conto allora che, a onta della sua innocenza, fuggendo senza giustificarsi si era riconosciuto colpevole.
Così, raggiunta in incognito la costa, senza che nessuno lo riconoscesse, si imbarcò al più presto con i due bambini per l’Inghilterra.
Qui giunti, dopo aver venduto per necessità il cavallo e i ricchi abiti con cui erano partiti, l’uomo e i due figli, indossate delle povere vesti, si diressero verso Londra.
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Prima di entrare in città il conte parlò a lungo ai due figlioletti, spiegando loro la triste situazione in cui la sfortuna, senza che egli ne avesse colpa, li aveva precipitati. Fuggendo avevano perduto tutte le loro ricchezze e ogni mezzo di sostentamento. Sopportassero dunque con pazienza la povertà e soprattutto, se avevano cara la vita, non rivelassero mai a nessuno il loro nome, né di chi erano figli.
Il bambino, che si chiamava Luigi, aveva circa nove anni e sua sorella Violante sette. Ascoltarono con serietà le parole del padre e, nonostante la tenera età, capirono tutto e ne fecero tesoro, come dimostreranno i fatti più avanti.
Per meglio far perdere le loro tracce, il conte pensò ch’era opportuno cambiare nome ai due bambini: il maschio lo ribattezzò Perotto e la femmina Giannetta.
Vestiti di stracci, i tre arrivarono a Londra e qui, per vivere, dovettero ridursi a chiedere l’elemosina per le strade, così come si vede fare da molti pezzenti e vagabondi francesi.
Il caso volle che una mattina, mentre chiedevano l’elemosina davanti alla porta di una chiesa, ne uscisse la moglie di un maresciallo del re d’Inghilterra. Vedendo il conte con i due bambini, la dama incuriosita si fermò e si mise a interrogarlo. Gli chiese da dove venisse e se i due piccoli fossero suoi figli. Egli rispose che veniva dalla Piccardia, e che era dovuto fuggire insieme ai suoi due bambini a causa di un misfatto compiuto da un altro figlio, il maggiore, che era un ribaldo.
La dama, impietosita, guardò meglio la fanciulla, e le piacque molto, perché Violante-Giannetta era bella, piena di grazia e, pur negli stracci, aveva un portamento nobile e gentile.
— Buon uomo — disse la moglie del maresciallo — se vuoi lasciarmi questa tua figlioletta, la porterò volentieri a casa mia, perché ha un bell’aspetto. La alleverò e quando sarà cresciuta, se sarà una brava ragazza come sembra promettere, la sistemerò in modo che non abbia da lamentarsi trovandole un marito conveniente.
La richiesta piacque molto al conte che conosceva di fama la famiglia del maresciallo Lamiens. Subito rispose di sì, e, pur tra le lacrime e con mille raccomandazioni, affidò la bambina alla dama.
Contento d’aver sistemato la figlia e di sapere dove e con chi l’aveva lasciata, il conte decise di andarsene da Londra. Sempre chiedendo l’elemosina, insieme a Perotto attraversò tutta l’isola, con grande fatica, perché non era abituato a viaggiare a piedi, e finalmente giunse nel Galles.
In questa regione abitava un altro dei marescialli del re d’Inghilterra, il quale era ricco e potente, aveva una grande casa e moltissima servitù. Il conte e Perotto andavano spesso nella sua corte a elemosinare cibo e a ripararsi dalle intemperie.
C’era, nella casa, un gruppo di fanciulli: alcuni figli dello stesso maresciallo, altri figli di nobili e gentiluomini del suo seguito, i quali correvano, saltavano e facevano i soliti giochi movimentati dei ragazzi. Perotto cominciò a frequentarli e a giocare con loro, ed era così abile, forte e coraggioso che in tutte queste prove fanciullesche riusciva sempre meglio degli altri.
Avvenne che per caso il maresciallo assistesse alcune volte alle sue prodezze. I modi del fanciullo sconosciuto gli piacquero assai. Chiese chi fosse. Gli risposero che era il figlio di un mendicante che qualche volta veniva a chiedere l’elemosina. Il maresciallo allora fece chiamare il povero padre e gli offrì di tenere il fanciullo alla sua corte. Il conte, che non osava sperare tanto dal cielo, acconsentì di buon grado, nonostante gli fosse molto doloroso separarsi dal ragazzo.
Avendo dunque sistemato entrambi i figlioli, decise di lasciare l’Inghilterra e, appena gli fu possibile, se ne andò in Irlanda. Arrivato nella contea di Strangford, trovò una sistemazione come garzone di stalla presso un cavaliere del posto e compiva tutte le umili mansioni e faccende che sono affidate ai servi e agli stallieri. Là visse miseramente, tra disagi e fatiche, per molti anni, senza che mai nessuno lo riconoscesse.
Passarono gli anni. A Londra, nella casa della dama sua protettrice, Violante cresceva, conosciuta da tutti col nome di Giannetta. Era alta e ben fatta, bella, gentile e virtuosa, tanto che non solo la dama, ma anche suo marito il maresciallo e tutti quelli che vivevano nella loro casa la ammiravano, la trattavano con rispetto e la stimavano degna di ogni bene.
La dama, che non sapeva di lei altro se non ciò che il padre le aveva raccontato affidandogliela, pensò che fosse arrivato il momento di sistemarla con un matrimonio onorevole, adatto a quella che riteneva la sua umile condizione sociale. Ma Iddio, che conosce i meriti nascosti degli uomini, sapeva che la fanciulla era di nobile origine e che non aveva alcuna colpa della triste situazione in cui era caduta. Dispose quindi diversamente e non permise che la povera Giannetta diventasse la moglie di un servo o di un altro uomo di vile condizione.
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Il maresciallo Lamiens e sua moglie avevano un unico figlio, cui volevano un bene dell’anima, non solo perché gli erano genitori, ma anche perché il giovane, per la sua virtù e le sue doti, lo meritava. Questo Giachetto era bello, assennato, cortese, forte, coraggioso, sincero e beneducato. Aveva circa sei anni più di Giannetta e, vedendola tanto bella e gentile, se ne innamorò così forte che non pensava altro che a lei. Ma poiché la credeva di bassa condizione sociale, non solo non osava chiederla in moglie ai genitori, ma temeva di venire rimproverato se questi si fossero accorti che egli aveva rivolto così in basso i suoi sentimenti, innamorandosi di una fanciulla di condizione servile, figlia di un mendicante. Quindi cercava quanto più poteva di tenere nascosta la sua passione. E più la teneva nascosta, più quella cresceva e lo tormentava, tanto che alla fine il povero Giachetto si ammalò gravemente.
Molti medici furono chiamati al suo capezzale, ma nessuno riuscì a capire, da questo o da quel sintomo, di che malattia si trattasse. E tutti, non potendolo curare e guarire, dissero che era un caso disperato e che presto sarebbe morto.
Il padre e la madre del giovane, addoloratissimi, continuavano a chiedergli cosa avesse, perché fosse così abbattuto, ma per tutta risposta lui si limitava a sospirare oppure diceva che si sentiva consumare tutto.
Giannetta era completamente ignara di aver suscitato tanta passione. Per rispetto verso la sua padrona però serviva l’ammalato con grande sollecitudine. Un giorno capitò che la fanciulla entrasse nella stanza dove il suo innamorato giaceva, mentre un giovane medico gli stava seduto accanto e gli sentiva il polso.
Come Giachetto vide la fanciulla, il cuore gli si infiammò di passione. Non fece un gesto, non disse una parola, ma il polso cominciò a battergli più in fretta. Il medico, ch’era giovane ma gran conoscitore della sua arte, se ne accorse immediatamente e si meravigliò, però non disse nulla, per controllare fino a quando sarebbe durata questa alterazione.
Appena la fanciulla uscì dalla camera, il polso dell’ammalato si calmò e il medico credette di aver capito finalmente la causa della malattia. Per averne la conferma, dopo un po’ di tempo, col pretesto di doverle chiedere qualcosa, fece chiamare nuovamente la Giannetta.
La fanciulla venne sollecita e non aveva varcato la soglia della stanza che il polso del giovane riprese a battere all’impazzata, e quando lei fu di nuovo uscita, si calmò.
Il medico adesso era sicuro della sua scoperta. Si alzò, andò a cercare i genitori del giovane e, presili in disparte, disse loro: — La guarigione e la salvezza di vostro figlio non stanno nelle mani di noi medici, ma in quelle della Giannetta. Alcuni sintomi mi hanno fatto capire senza ombra di dubbio che Giachetto è innamorato alla follia della vostra protetta, anche se lei, a quanto pare, non se ne rende conto. Adesso sapete quello che dovete fare, se vi preme la vita di vostro figlio.
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Il maresciallo e sua moglie furono contenti di sapere che c’era un modo per salvare la vita a Giachetto, anche se la prospettiva di lasciargli sposare la Giannetta, come temevano che egli avrebbe chiesto, era molto sgradevole e difficile da accettare. Per soddisfare l’amore del figlio, evitando allo stesso tempo la vergogna di questo matrimonio, la dama cercò allora di persuadere la fanciulla a diventare l’amante di Giachetto. Ma la Giannetta rispose: — Madama, voi mi avete tolta dalla povertà nella quale io vivevo con mio padre e mi avete allevata come una figlia. È mio dovere dunque eseguire ogni vostro ordine. Alla richiesta che mi fate oggi però non voglio obbedire, e credo di essere nel giusto. Se a voi piacerà di darmi un marito, farò in modo di amarlo. Ma un altro che non sia mio marito, no. I miei antenati non mi hanno lasciato nessun’altra ricchezza che l’onestà, e io intendo conservarla fino a quando avrò vita.
Alla dama da un lato dispiacque questa risposta, perché pensava al figlio in pericolo di morte. Dall’altro lato si vergognava un poco per essersi messa a fare la mezzana e non poté fare a meno, da quella donna savia che era...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dame, mercanti e cavalieri
  3. Prefazione
  4. Il conte stalliere
  5. Landolfo Rufolo e l’alterna fortuna
  6. Il falcone di Federigo degli Alberighi
  7. Madama Berìtola e i suoi figli
  8. Il brigante gentiluomo
  9. Lisa e re Pietro
  10. Nastagio degli Onesti e la bella sdegnosa
  11. Madonna Francesca e i due corteggiatori molesti
  12. Lisabetta da Messina e la pianta di basilico
  13. L’innamorato pazzo
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright