L'amazzone di Alessandro Magno
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L'amazzone di Alessandro Magno

  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amazzone di Alessandro Magno

Informazioni su questo libro

Mìrtale è una bambina diversa dalle altre, una trovatella allevata per l'interessamento di Alessandro Magno, il capo supremo della spedizione che marcia alla conquista dell'Asia. C'è un mistero nel suo passato, che solo il re e i suoi amici più stretti conoscono. E l'educazione che le viene impartita, con grande scandalo del filosofo Callìstene e di tutte le persone sensate, è identica a quella dei ragazzi maschi di nobile famiglia. Poi c'è il fatto davvero straordinario che Bucèfalo, che non si lascia toccare da nessuno se non da Alessandro, non solo accetta le carezze di Mìrtale, ma persino che la bambina gli monti in groppa. La carovana intanto attraversa l'Asia e si dirige verso l'India misteriosa, dove Mìrtale troverà la risposta a tutte le sue domande.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804525370
eBook ISBN
9788852024153

VIII

NÉ ODIO, NÉ AVIDITÀ,
NÉ ILLUSIONE



Taxila, anno 327 a.C.

1

Passato un mese, l’esercito si trasferì sull’altra sponda e si incamminò verso Taxila attraversando una regione fertilissima, dove la primavera appena iniziata faceva esplodere la vegetazione in un quadro ricchissimo di forme e di colori. I botanici della carovana erano impazziti dall’entusiasmo. I paggi avevano l’incarico di raccogliere e mettere a seccare foglie e fiori di ogni nuova pianta che veniva scoperta.
Sapevano che il rajah li aspettava come ospiti graditi. Ma quando furono in vista delle porte della città, queste si aprirono e ne uscì un’enorme schiera di persone che marciavano in ordine come un esercito. File e file di uomini e di elefanti, ancora lontani sulla grande strada polverosa, silenziosi come una apparizione.
— Tutti ai posti di combattimento! — ordinò allarmato Alessandro.
Che le promesse di amicizia degli Indiani fossero menzognere? Che l’invito a Taxila fosse un tranello per attirarli impreparati alla battaglia?
In un attimo i suoi soldati, addestrati alla perfezione, furono pronti.
Ma allora dalle file degli Indiani si staccò a galoppo un drappello di cinque cavalieri che velocissimi raggiunsero il fronte dello schieramento macedone.
Uno dei cavalieri era il rajah Taxile, che si era staccato dal gruppo con quattro suoi dignitari. Fermò il cavallo davanti ad Alessandro e alzò la mano nuda in segno di pace.
— Il mio schieramento era per renderti onore — spiegò. — Volevo mostrarti di quanta forza potrei disporre, ma non la voglio usare contro di te. Che bisogno c’è di farci la guerra, Alessandro, visto che non sei venuto a toglierci l’acqua e il cibo, uniche cose per cui è ragionevole che l’uomo combatta? Per quanto riguarda le ricchezze e i beni superflui, se ne ho più di te, te ne farò dono. Se ne ho di meno, ti sarò grato di quello che mi donerai.
Alessandro era rimasto senza parole. Possibile che quella gente fosse così indifferente al possesso dei beni materiali? Per lui anche la conoscenza era una conquista, un “possedere” la verità delle cose.
Per questi incomprensibili Indiani, invece, sembrava che “conoscere” volesse dire superare, andare oltre, lasciare lungo la strada i pesi terreni, cercare una verità unicamente spirituale.
Dopo un attimo di perplessità tese una mano a Taxile e rispose: — Dopo parole tanto cortesi non puoi pensare che il nostro incontro si concluda senza un duello.
“È impazzito?” pensò Mìrtale che cavalcava al suo fianco. “Vuole aggredire quest’uomo così leale e pacifico che ci sta invitando con tutti gli onori a casa sua? Eppure è stato lui a insegnarmi che l’ospitalità è sacra.”
Ma si tranquillizzò sentendo Alessandro concludere il suo discorso con queste parole: — Non sopporto di essere vinto da te. E poiché mi hai dimostrato che non è saggio combattere con le armi, vedrò di vincerti in una gara di generosità e gentilezze.
Fu una battaglia a suon di complimenti, di doni, di cortesie, nella quale nessuno dei due riuscì a superare l’altro.
I vecchi soldati e gli ufficiali greci e macedoni già seguaci di Callìstene non riuscivano a trattenere l’invidia e l’indignazione. Loro non avevano mai ricevuto tante attenzioni.
— Però — osservò Diomede — loro non si sono mai dimostrati tanto disinteressati.
Gli Indiani invece ammirarono molto Alessandro e lo scortarono con grandi festeggiamenti dentro le mura della città, gettando sotto gli zoccoli del suo cavallo rami fioriti di melograno, gelsomini e fiori di loto.

2

Come al solito, anche a Taxila era Arianna che – di ritorno dalla fontana – portava a casa le prime notizie del mattino. Aveva tredici anni, ormai, ed era diventata alta come la madre.
— Non dovrebbe più uscire da sola! — sospirò Melissa. — È in età da marito e dovrebbe essere sempre accompagnata da un’ancella.
Ma benché Alessandro avesse regalato più volte delle schiave alla famiglia del filosofo, ogni volta Diomede si era affrettato a liberarle.
— Non è degno di un uomo — sosteneva — esercitare il suo potere su un altro essere umano. Una ragazza non è un oggetto che possa appartenere a una padrona.
— Ma sono prigioniere di guerra! — protestava Melissa, che nella sua casa di Atene, da bambina, aveva posseduto molti schiavi ed era abituata a essere servita.
— Li abbiamo sconfitti, va bene. Il nostro re governa questo paese al posto del loro. Ma chi ci ha dato il diritto di privarli della libertà personale?
— E a te, vecchio stravagante, chi ha dato il diritto di privarmi di un aiuto per i lavori più pesanti? Solo perché sono la moglie di un cinico che non ammette la schiavitù mi tocca fare da sola il bucato, macinare il grano, pulire, tutte cose da servi, e tua figlia deve andarsene da sola come una schiava a prendere l’acqua alla sorgente…
Ma Arianna era sempre stata ben lieta di quell’incarico, e ancora di più lo era a Taxila perché lo spettacolo mattutino della città valeva bene una gita alla sorgente.
— Ho visto — ansimò Arianna con le guance rosse per l’emozione — ho visto un uomo che sembrava una statua. E che statua! Era vecchio, magrissimo, completamente nudo, con i capelli bianchi che gli arrivavano alle ginocchia… Teneva una mano chiusa a pugno e le unghie gli attraversavano il palmo perforandolo e uscivano dall’altra parte. Erano lunghissime. Non le taglierà da almeno cinque anni… Dentro al pugno stringeva un poco di terra… È da tanto tempo che sta in quella posizione che nella terra è cresciuta una piantina. Sta immobile, accanto a un tempio, dritto su una sola gamba, e gli uccelli gli si posano addosso senza paura…
— Deve essere un brahmano — disse più tardi Mìrtale, ricordando che a Nisa aveva sentito parlare di queste prove di resistenza al dolore e alla fatica.
— E ce n’era un altro che sedeva tranquillo su un cuscino di chiodi acuminati. E un altro che camminava su dei carboni ardenti…
— È il loro modo di pregare e di meditare — spiegò Diomede.
Al contrario della moglie, che era convinta di essere arrivata in un paese di folli, il filosofo era pieno di ammirazione per gli abitanti di Taxila. Costoro vivevano nel modo più giusto e pacifico che si fosse mai sentito riferire, perfino nei racconti relativi alla mitica età dell’oro.
Nonostante avessero a disposizione grande abbondanza di cibo d’ogni tipo, gli Indiani mangiavano pochissimo, non si abbandonavano, come i Greci e i Macedoni e anche i Persiani, a gozzoviglie né a ubriachezze che avrebbero potuto renderli irresponsabili.
Erano talmente rispettosi gli uni degli altri da non aver bisogno di tribunali. Non avevano schiavi né soldati, perché consideravano un atto ingiusto aggredire altri popoli, così come non si erano difesi dall’invasione di Alessandro. Né si preoccupavano troppo della minaccia del rajah Poro che premeva ai confini.
Non uccidevano animali per sacrificarli agli dèi. I Greci, come massimo omaggio alla divinità, uccidevano nelle ecatombi cento tori in una volta. Qui una sola vacca era considerata un animale sacro e trattata con amore e rispetto.
Gli indigeni erano esperti in mille arti, ma fra le scienze si dedicavano soprattutto alla medicina, per compassione dei dolori altrui che cercavano in ogni modo di alleviare.
E la maggior parte del tempo la passavano a pregare e a meditare.
— A cosa serve tutto questo? — chiedeva sconcertato Pollùce. — Che vantaggio ne traggono?
— Chissà — rispondeva Diomede. — Forse solo il dominio totale di quel frammento di materia che è il loro corpo. E ti sembra poco?
Alessandro da parte sua aveva sperimentato personalmente che i seguaci delle religioni locali non solo avevano imparato a dominare il loro corpo, ma erano anche impassibili nell’animo davanti alle minacce e ai pericoli.
Era successo infatti che, appena arrivato e data un’occhiata in giro, il re si era incuriosito di un gruppo di questi santi uomini e ne aveva invitato qualcuno ad aggregarsi al suo seguito. Ma attraverso l’interprete quelli avevano opposto un cortese rifiuto.
Alessandro non era abituato a rinunciare ai suoi desideri. Aveva insistito, promettendo loro doni, onori, ricchezze, e quelli, sorridendo mitemente, avevano ancora rifiutato. Allora il re si era arrabbiato, era passato alle minacce: li avrebbe costretti, li avrebbe fatti prigionieri, li avrebbe fatti uccidere…
Imperturbabile, il più vecchio del gruppo aveva fatto spiegare dall’interprete: — Non abbiamo alcun bisogno di quello che costui può darci, né alcun timore di perdere quello che ha il potere di toglierci.
Alessandro non sapeva se arrabbiarsi per tanta mancanza di rispetto – chiamarlo «costui», LUI, che era il conquistatore dell’Asia, il nuovo Re dei Re! – oppure se ammirare quel disprezzo del pericolo che gli sembrava eroico. Era talmente dispiaciuto del loro rifiuto ad andare con lui, che uno alla fine si lasciò impietosire. Si chiamava Sfine. Lasciò i compagni e andò a stare nei padiglioni dei sacerdoti, fra gli indovini greci, i Magi persiani e tutti gli altri seguaci di religioni orientali che nel corso del tempo si erano aggiunti alla carovana. Poiché, col poco greco che sapeva, si rivolgeva a tutti chiamandoli kalòs, cioè “bello, caro”, i soldati di Alessandro gli cambiarono il nome e lo ribattezzarono Calano.

3

— Non schiacciarlo! Magari era un tuo antenato, in una vita precedente.
Mìrtale si fermò con il piede sospeso a mezz’aria e Ambhi raccolse con precauzione il verme da terra e lo depose delicatamente sulla foglia di un cespuglio vicino.
Ambhi era il più giovane dei rajahputra, ossia il figlio minore del rajah di Taxila. Il suffisso putra nella antica lingua dell’India, il sanscrito, indica chi è il padre di una persona, o anche di una cosa. Il grande fiume Brahmaputra per esempio ha questo nome perché viene considerato figlio del dio Brahma.
Ambhi aveva pressappoco la stessa età di Mìrtale e aveva fatto subito amicizia con lei, Arianna e Pollùce. A vederlo non si sarebbe detto un principe di sangue reale e Melissa ancora rifiutava di crederci.
Era magro e abbronzato e se ne andava in giro scalzo e mezzo nudo, con solo un panno bianco annodato attorno alle reni.
— Ma tuo padre non paga un precettore perché ti istruisca? — chiese Pollùce incredulo. — I principi, da voi, non vengono addestrati al mestiere delle armi? Non devi seguire un orario, una disciplina per le tue lezioni?
Ambhi era completamente padrone del suo tempo, come i figli dei poveri, e se ne andava in giro nei quartieri più miserabili della città in mezzo agli ammalati e ai mendicanti, in mezzo a quegli strani fachiri emaciati e deformi che riempivano i nuovi arrivati di un misto di meraviglia e di ripugnanza. Non aveva al seguito una scorta di guardie o di precettori come tutti gli altri principi che i due ragazzi avevano conosciuto fino ad allora. Attaccava discorso con tutti, ma specialmente con i pellegrini che venivano dall’interno del paese.
— C’è un grande fiume laggiù, che chiamano Gange — raccontò ai nuovi amici. — Un fiume sacro dove bisogna immergersi almeno una volta nella vita… Appena sarò più grande partirò e andrò anch’io a bagnarmi nelle sue acque…
— Sei proprio come Alessandro — osservò Mìrtale. — Anche lui non può sentir nominare un luogo sconosciuto senza dire subito: «Ci voglio andare.» Sai che appena ha sentito parlare del vostro fiume sacro, ha subito deciso di esplorarne il corso?
— Io non capisco — insistette Pollùce — perché tu, che sei figlio di rajah, stai di preferenza dove ci sono dolori e miserie… mentre potresti vivere sempre nella reggia, nei tuoi splendidi giardini, senza vederti mai attorno niente di sgradevole…
— È stato mio padre a mandarmi nei quartieri più poveri, fin da quando ero un bambino. Ormai non mi impressiono più di niente, anche se cerco di aiutare come posso la gente che soffre. Tutto è passeggero su questa Terra, anche la sofferenza…
— Ma perché tuo padre ha voluto che conoscessi così presto il dolore, la miseria, la morte?
— Perché — spiegò il giovane rajahputra con un bel sorriso — non vuole ripetere con me l’errore che fece con suo figlio il re Suddhodana.
— Chi era questo Suddhodana e che errore fece? — chiese Mìrtale, sempre curiosa di nuove storie.
— Suddhodana era il re della città di Kapilavattu. Sua moglie aspettava un bambino e una profezia rivelò che da grande questo figlio sarebbe diventato una grande luce per il mondo. Difatti il giorno in cui il bambino nacque, il paese si riempì di uno splendore abbagliante. Il padre lo chiamò Gautama o Siddharta e lo fece allevare nelle stanze più interne del palazzo, circondandolo di un grande lusso, di attenzioni e di tenerezza, e tenendo lontano da lui ogni dolore della esistenza. Un giorno però Gautama, cresciuto, volle uscire sul cocchio reale e durante la passeggiata incontrò un vecchio, un ammalato, un asceta e il funerale di un morto. Si meravigliò molto davanti a questi fenomeni che non conosceva, e quando il cocchiere gli spiegò di cosa si trattava, ne fu così sconvolto che fuggì di nascosto dal palazzo paterno. Gettò via gli abiti principeschi e indossò gli stracci di un mendicante. Pellegrinò per sette anni, chiedendo l’elemosina, pregando e meditando. Finché un giorno che meditava seduto sotto un albero di fico, ricevette dalla divinità la rivelazione della legge universale. Fu come una illuminazione, noi diciamo un satori. Da allora il suo nome cambiò in quello di Budda, cioè l’“illuminato”, il “risvegliato”. Cominciò così a girare per il paese predicando “la buona legge”…
— Tu lo hai mai incontrato? — chiese Pollùce.
— No — rise Ambhi. — Tutto questo è successo circa duecento anni fa.
— Quando Dario e Serse invadevano la Grecia — ragionò Mìrtale pensierosa.
— Ognuno di noi — proseguì Ambhi — anche se non è re, può essere un Boddhisatva, cioè un futuro Budda, purché si dedichi con una vita ascetica al raggiungimento del nirvana…
— Cos’è questo nirvana? — chiese Mìrtale. Di quante parole nuove le era toccato imparare il significato dai tempi in cui graffiava la cera delle tavolette nella Cancelleria di Eumene!
— La beatitudine, la felicità — spiegò Ambhi — cioè la liberazione dai tre peccati capitali che rendono inquieto il cuore dell’uomo: l’odio, la cupidigia, l’illusione.
Mìrtale avrebbe voluto saperne ancora, ma Ambhi si stancava, anche perché non conosceva ancora perfettamente neppure lui la dottrina del buddismo. E p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'amazzone di Alessandro Magno
  3. Prefazione
  4. I. Caccia al lupo
  5. II. Con la carovana di Alessandro
  6. III. Il dono della principessa
  7. IV. Di meraviglia in meraviglia
  8. V. Cercando le Amazzoni
  9. VI. Tempo di contese, di sogni e di presagi
  10. VII. Tempo di nozze, di congiure e di progetti
  11. VIII. Né odio, né avidità, né illusione
  12. Epilogo
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright