JERRY SPINELLI
PER SEMPRE STARGIRL
Traduzione di Angela Ragusa
Stargirl è un libro dai molti colori. Un grazie di cuore a: Donna Jo Napoli, Will Marinell, Jim Nechas, Patty Gauch, Kathleen Lindop, Rosemary Cappello, Molly Thompson, Ellyn Martin, Anthony Cappello, Pat Strawn, Tom Reeves, Kathy James, Katie Carmichael, Joan Donaldson, Sean James; a mia cugina Patty Maud per la sua consulenza medica; ad Alvina Ling, per avermi prestato il suo nome; alla mia editor, Joan Slattery, per avermi prestato il suo tempo sottraendolo ad Anna e Grace; e a mia moglie Eileen, per avermi prestato la sua vita.
Al momento abbiamo sedici nipotini.
Questo libro è dedicato a ciascuno di loro:
Amanda
Will
Jill
Ashley
Dan
Ryan
Zachary
Courtney
Rachel
Natalie
Michael
Sarah
Kathy
Leah
Angel
Lana
1° Gennaio
Caro Leo,
adoro gli inizi. Se toccasse a me organizzare i calendari, sarebbe sempre il 1° gennaio.
E quale modo migliore per festeggiare il primo giorno dell’anno nuovo che scrivere una lettera al mio (ex?) ragazzo?
Oggi ho trovato qualcosa. Un posto speciale. Il bello è che l’ho avuto davanti agli occhi fin da quando ci siamo trasferiti qui, l’anno scorso, ma oggi l’ho visto veramente per la prima volta. Un campo. Un banale campo desolato. Senza una casa in vista, a parte un villino bianco sulla destra. Si trova a un chilometro e mezzo dalla città, a un minuto di bici da casa mia, su una collina dalla cima piatta che sembra una padella capovolta. Un tempo ci coltivavano fragole biologiche che potevi cogliere da solo, ma ormai ci crescono solo erbacce.
Il campo si trova sull’altro lato della Route 113, esattamente dove finisce la mia strada (Rapps Dam Road). Ci sarò passata davanti in bici centinaia di volte, ma oggi mi sono fermata e l’ho guardato. Sono scesa dalla bici e mi sono inoltrata fra le erbacce dell’inverno, arruffate e schiacciate come i miei capelli quando mi alzo la mattina. Le zolle di terreno ghiacciato erano dure come la pietra. Il cielo era grigio. Ho raggiunto il centro del campo e mi sono fermata.
E sono rimasta lì.
Come posso spiegarlo? Sola, in cima a quella collina, nel mezzo di quel campo “vuoto” (Ah!… segnati questa, Leo: niente è vuoto), avevo l’impressione che l’universo s’irradiasse da me, come se sotto i miei piedi ci fosse la X che segna il centro del cosmo. Fino a quel momento, per la mia meditazione quotidiana avevo scelto molti luoghi diversi, in città e nei dintorni, però mai quel campo. Fino ad allora.
Mi sono seduta, senza quasi fare caso al terreno gelato, e ho posato le mani sulle ginocchia con il palmo rivolto al cielo. Ho chiuso gli occhi e cancellato me stessa. “Lavare la mente”, lo chiamo ora.
Un tocco dorato mi ha sfiorato le palpebre e ho schiuso gli occhi. A occidente, il sole si era aperto un varco fra le nuvole mentre tramontava dietro le cime degli alberi. Ho chiuso di nuovo gli occhi e mi sono lasciata sommergere dalla sua luce dorata.
Quando mi sono rialzata, era ormai sera. Mentre tornavo verso la bici, sentivo di avere trovato un luogo magico.
3 Gennaio
Oh, Leo, sono così triste. Sto piangendo. Da piccola piangevo tantissimo. Mi bastava calpestare un insetto per scoppiare in lacrime. In effetti, ero così occupata a piangere per qualcos’altro che non piangevo mai per me stessa. Ora invece piango per me.
Per te.
Per noi.
Però mi viene anche da sorridere fra le lacrime. Ricordi la prima volta che ti ho visto, nella mensa della scuola? Venivo verso di te, verso il tuo tavolo. I tuoi occhi… mi costrinsero a fermarmi! Mi colpì la loro espressione sbigottita. Non solo per il mio aspetto, credo… per l’abito lungo da pioniera, per l’ukulele che spuntava dalla sacca con il girasole. No, c’era anche qualcos’altro. Terrore. Sapevi cosa stava per succedere. Sapevi che avrei fatto la serenata a qualcuno, ed eri atterrito all’idea che toccasse a te. Distogliesti rapido lo sguardo e io passai oltre e mi fermai davanti ad Alan Ferko e gli cantai Tanti auguri a te. Però mi sentii i tuoi occhi addosso per tutto il tempo, Leo. Oh, sì! Ogni secondo. E mentre cantavo per Alan Ferko pensavo: “Un giorno canterò per quel ragazzo con l’espressione terrorizzata.” Invece no, Leo: non ho mai cantato per te. Proprio per te, fra tutta la gente. È il mio rimpianto più grande…
Ecco, vedi? Ora sono di nuovo triste.
10 Gennaio
Come ho scritto la scorsa settimana, vado a “lavare” la mia mente un po’ qua e un po’ là. Se lo scopo – l’ideale – è riuscire a cancellare me stessa dal tempo e dallo spazio, penso che non sia giusto legarsi troppo a un posto preciso – neppure alla Collina Incantata, come la chiamo ora – e nemmeno a una particolare ora del giorno o della notte.
Perciò stamattina ho infilato Cannella in tasca e sono partita in bici alla ricerca di un posto nuovo per meditare. Mentre passavo davanti al cimitero, la mia attenzione è stata attirata da una chiazza di colore: un uomo seduto su una sedia davanti a una lapide. Almeno penso che fosse un uomo… era così infagottato per proteggersi dal freddo. La chiazza di colore era la sciarpa rossa e gialla che teneva annodata intorno al collo. Mi è sembrato che parlasse da solo.
Dopo un po’ mi sono fermata vicino casa mia, in un parco chiamato Bemus. Mi sono appollaiata su un tavolo da picnic e ho assunto la mia posizione per meditare. Ok, dobbiamo fare un passo indietro: ho ripreso a studiare a casa. Chissà perché! Il mio esperimento al liceo di Mica era andato così bene! Ah ah. Comunque, mi tocca rispettare il programma ministeriale, giusto? Matematica, letteratura e le altre materie. E va bene. Però non mi fermo qui. Seguo anche altri corsi. Corsi non ufficiali. Tipo: Principi dell’Estasi; Vita Sotto le Rocce; Fischio per Principianti; Elfi. Mamma e io lo chiamiamo il nostro programma-ombra. (Per favore, non informare lo Stato del… oops, mi stava quasi per sfuggire il nome dello Stato in cui ci siamo trasferiti.) Il mio corso-ombra preferito è Elementi del Nulla. È qui che entra in gioco il mio lavaggio della mente. La svuoto del tutto. Mi cancello. (Ricordi la lezione che hai imparato con me nel deserto?) Anche se, a pensarci bene, in realtà non raggiungo il nulla. Anzi, quando mi riesce, quando arrivo a cancellarmi totalmente, divento l’opposto del nulla: sono ogni cosa. Tutto, tranne me stessa. Mi dissolvo nell’universo come vapore. Non sono più Stargirl. Sono albero. Vento. Terra.
Perdonami la digressione (e l’eccesso di parentesi). Dunque ero lì, seduta a gambe incrociate sul tavolo, gli occhi chiusi, a lavare la mente (mi serve anche per ottenere crediti scolastici!), quando sentii qualcosa su una palpebra. “Sarà un insetto” pensai, e allontanai subito il pensiero, così il qualcosa sulla palpebra diventò semplicemente parte del tutto. Ma poi il qualcosa si mosse. Sulla palpebra e sul naso e attorno alle labbra.
Poi una voce di donna, brusca: — Dootsie!
E: — Ciao. Mi chiamo Dootsie. Che stai facendo?
Aprii gli occhi. Una bimbetta era seduta a gambe incrociate davanti a me, e una signora correva verso di noi, farfugliando imbarazzata: — Mi dispiace tanto. Mia figlia ha la brutta abitudine di scappare. Mi dispiace davvero.
— Nessun problema — replicai. Ero un po’ stordita, come quando si viene svegliati di soprassalto.
Guardai la bambina. Dootsie. — Meditavo — dissi. — Mi ero cancellata.
Dootsie aggrottò la fronte mentre il sole le disegnava strisce color ruggine sui riccioli. Poi allungò una mano, mi toccò di nuovo e rise. — Non è vero che sei cancellata. — Mi colpì un ginocchio con un dito. — Io ti vedo.
— Però io mi sentivo cancellata. È difficile da spiegare.
Aggrottò di nuovo la fronte. Di colpo, spalancò occhi e bocca. — Facevi finta!
— Qualcosa del genere.
Mi scrutò a lungo. — Sei una maga?
— No.
Sorrise. — Io invece sì!
— Davvero?
— Sì! Vero, mamma?
— Meglio di Houdini.
Dootsie saltò giù dal tavolo. — So sparire. Guarda.
Strizzò forte gli occhi, bisbigliò qualcosa che non riuscii a capire e, rigida sull’attenti, girò tre volte su se stessa. Bisbigliò ancora e un sorriso ampio illuminò il suo visetto rotondo.
Mi guardai attorno. — Dove sei?
Ridacchiò. — Proprio qui. Mi senti, ma non mi vedi.
Mossi le mani davanti a me. — Ehi… Dootsie?… Dove sei?
Gli occhi di Dootsie ridevano mentre bisbigliava: — Mamma… non può nemmeno sentirmi!
Sua madre mi fece l’occhiolino. — Dootsie… di’ qualcosa a questa simpatica ragazza, così saprà che sei ancora qui.
Ma Dootsie sgranò gli occhi e strillò: — Un topo! — e mi raggiunse con due salti, di nuovo ben visibile. Probabilmente attirato dalle nostre voci, Cannella aveva tirato fuori la testa dalla tasca del mio cappotto e, in un attimo, si ritrovò cullato fra le mani della bambina.
— In realtà non è un topo — le spiegai. — È un ratto.
Dootsie strofinò la guancia contro il pelo color cannella.
— Avvicina il naso al suo — suggerii.
Lei obbedì, e la linguetta di Cannella guizzò a leccarle la punta del naso. Dootsie strillò.
Mentre lei coccolava Cannella, sua madre mi tese la mano. — Laura Pringle.
Gliela strinsi. — Stargirl Caraway.
Dootsie mi guardò a bocca aperta. — Stargirl? È il tuo nome?
— Sì.
— Non sei di queste parti, vero? — chiese sua madre.
— Abbiamo traslocato l’estate scorsa. Abitiamo laggiù. — Indicai la direzione con il dito. — In Rapps Dam Road.
— La casa con le persiane marroni?
— Esatto.
Sorrise e annuì. — Era di mio fratello. Ci abitavano gli zii di Dootsie: zio Fred e zia Claire. Dootsie conosce quella casa meglio della propria.
Dootsie le tese Cannella. — Mammina — piagnucolò — lei ha un ratto e un nome bellissimo e si siede sui tavoli. Voglio essere come lei!
Ripresi Cannella, che cominciava a innervosirsi. — E io che stavo giusto pensando di diventare te. Dootsie è un nome fantastico! E riesci a scomparire. Tu sì che se...