Testo apparso nella rivista internazionale di teologia «Concilium», nel fascicolo 5/1984: L’Olocausto come interruzione: un problema per la teologia cristiana, a cura di E. Schüssler-Fiorenza e David Tracy. L’articolo, qui ripubblicato, riesce a esprimere la tensione tra storia cristiana ed ebraismo di fronte alla tremendità evocata da Auschwitz.
È difficile aspettarsi che il cristianesimo, impegnato com’è in un gigantesco lavoro di ridefinizione e ricostruzione, trovi il tempo necessario per riflettere sul rientro degli ebrei e del giudaismo nella storia. Gli ebrei e il giudaismo non hanno goduto di molta attenzione nell’agenda storica del cristianesimo, e questo perché molto tempo fa esso prese la decisione di risolvere la sua antica controversia con il popolo ebraico determinando la sua eliminazione e affermando di esserne il sostituto. L’antigiudaismo della chiesa è stato talmente parte del suo respiro storico, che chiamarla a rendiconto, sottoporre le sue decisioni a una revisione critica, proporre metodi d’analisi che, ripercorrendo la tradizione classica dei vangeli e dei padri della chiesa, individuino il terreno sul quale s’è sviluppato il pensiero e la sensibilità che avrebbe portato, circa due millenni più tardi, all’olocausto, sembra tanto capzioso e irresponsabile quanto lo sarebbe il sostenere che la chiesa deve smettere di respirare. O, per prendere l’argomento di petto, come possono teologi ebrei osservatori della chiesa suggerire che la chiesa vivente ha sbagliato nella storia, se già migliaia di anni fa si era deciso che tali osservatori ebrei erano superati e rinnegati? Come può sopravvivere, per parlare ed esprimere un giudizio, ciò che è stato “invalidato” e dichiarato “falso”? Eppure è proprio questo il caso. Il popolo ebraico, dal punto di vista del cristianesimo tradizionale, è tanto renitente e impenitente quanto, dal punto di vista del giudaismo, la chiesa è la manifestazione primaria della sua inimicizia nel mondo.1
Ma pur avendo detto tutto questo – descrivendo il carattere generale della scena storica che si riferisce alle religioni dell’Occidente classico – non si è ancora affermato nulla che tenga conto della nostra terribile epoca. Si è fatto allusione alle antiche precondizioni, sono state adombrate le deformazioni archetipe, ma tutto questo era vero molto prima dell’avvento del nazionalsocialismo e della sua guerra contro gli ebrei, e dell’Unione Sovietica e della sua guerra contro gli ebrei. Qualcosa di unico è successo al popolo ebraico negli annali della brutalità umana: esso è stato scelto per essere sterminato. Non erano permesse razionalizzazioni modificatrici, esclusioni parziali o classi e professioni preferenziali, o una qualche selettività ideologica. L’intero popolo ebraico doveva essere trucidato: ogni israelita, ognuno che fosse ebreo anche in minima parte.
Questa ideologia dell’“idealismo” estremo – come Adolf Eichmann descrisse la propria missione, a Gerusalemme – non permetteva eccezioni. L’ebreo in quanto tale, in tutte le sue variazioni e parti, doveva essere liquidato. È proprio questo estremismo, questa dimensione di totalità della missione di genocidio, a rendere la sua credibilità così straordinariamente grausam,2 da andare al di là di ogni possibilità di comprensione. La liquidazione del popolo ebraico supera ogni comprensione, ed è proprio questo fatto di andare al di là di ogni possibile comprensione, di esaurire ogni sforzo di credere, di oltrepassare tutti i canoni della ragione storica convenzionale, che mi ha spinto a fare uso del termine tremendum per descrivere il fenomeno.3
È ben noto che il termine tremendum fu usato per la prima volta dal grande fenomenologo della religione tedesco Rudolf Otto (1869-1937) per porre in rilievo l’aspetto della immensità magnificente, con sfumature d’orrore e miniata di fascino, che esprimeva la presenza di Dio all’umanità biblica. Il Dio delle Scritture viveva e prosperava secoli e secoli prima che i decreti della ragione iniziassero a lavorare con la loro logica per legare il Signore con corde di deliberazione e riflessione. Quel Dio – il più antico di tutti gli esseri – era percepito sotto aspetti così multiformi e complessi, così impregnati di mitica tragedia e pathos, così composti con le linee e i contrassegni del potere e dell’enormità aspra e cruda, che poteva essere visto come tremendum, magnifico, mostruoso, grausam, fascinoso, misterioso, orribile, in una parola: santo. Il “santo” in quanto tremendum era proprio quella complessità di potere positivo e negativo che conviene al padrone dell’antico universo.
Com’è possibile dunque definire tremendum l’olocausto degli ebrei in questo secolo – e l’olocausto finale del pianeta prefigurato dall’olocausto degli ebrei –, se con questo termine s’intende alludere all’ineffabile immensità di Dio? Tremendum, dunque, è forse soltanto una metafora, un espediente letterario, un termine il cui potere si basa sulla sua utilità metodologica, più che sulla sua realtà sostanziale? Non penso. Considero il tremendum maligno del nostro secolo come un indice assoluto dei limiti dell’arte e della libertà umana, un’inversione del divino, una “di-scendenza” demoniaca che si contrappone alla trascendenza divina. Se il tremendum divino è commisurato sulla distanza che denuncia l’abisso tra Dio e l’uomo, la realtà di Dio e la teologia dell’uomo, la presenza di Dio e il culto dell’uomo, la dimensione futura di Dio e il presente storico dell’uomo, il tremendum umano è commisurato sulla “di-scendenza” che denuncia l’abisso tra la corruzione dell’uomo e la libertà dell’uomo, le azioni dell’uomo e l’etica dell’uomo, l’ideologia dell’uomo e la fede dell’uomo, l’uomo in quanto opera d’uomo e l’uomo in quanto creato. Il Dio che diede se stesso nella creazione, e interpretò la propria natura nella rivelazione, è fronteggiato da un uomo estremo di un’era ribelle, che ha viaggiato fino ai limiti della sua natura e ha mostrato come la prima creazione possa essere mutilata nell’eccidio del popolo ebraico e, nei alle realtà spirituali, legati a un regime potente e con mire espansionistiche, da sempre intenti a depredare per arricchirsi. E nell’ironia di tale retorica politica, l’antisemitismo del terzo mondo si unisce all’antisemitismo sovietico, ricapitolando la retorica programmatica di semiti prefascisti, i quali fecero degli ebrei i padri sia del capitalismo che del comunismo. Gli ebrei sono sopravvissuti a tale antisemitismo, seppure a mala pena. Non ci sono argomenti validi contro questo veleno e odio. Nessun appello a virtù cristiane, o monito sulle conseguenze storiche di questo insegnamento malevolo, può alcunché.
Propongo piuttosto il ritirarsi nella teologia, come l’unica indagine appropriata e necessaria con la quale si possa trattare un antisemitismo riemergente, un antisemitismo che ora, con vigore sempre più candido e imperturbabile, considera il tremendum di questo secolo come un problema che ha senso solo per la storia occidentale. L’argomento proposto da teologi del terzo mondo – le nazioni emergenti dell’America Latina, alcuni portavoce e interpreti dei bisogni e delle sensibilità dell’Africa nera, teologi cristiani tra le comunità del Medio Oriente cristiano e dell’Asia cristiana – è che i drammi...