I sotterranei
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I sotterranei

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I sotterranei

Informazioni su questo libro

Alla radice di questo romanzo, pubblicato nel 1958 e subito processato per oscenità, c'è una vicenda reale, la storia d'amore vissuta dall'autore con una ragazza di colore, che in queste pagine rivive come in una confessione tanto difficile quanto liberatoria. Al centro, la figura di Mardou, sensuale, fascinosa, una creatura della notte attorno alla quale gira vorticosamente, ossessivamente, la vita dell'amante, e la città stessa (New York nella realtà, San Francisco nella finzione letteraria): una città onirica, cupa, frenetica, piena di alcol, di droghe, di sesso, di arte e di vita. Ma soprattutto, ciò che emerge dalla lettura dei Sotterranei, è la rivoluzionaria lingua di Kerouac, che così descriveva la propria scrittura: "Ho inventato una nuova prosa, la Prosa Moderna, ondate spontanee e prive di revisioni, rapide, mozzafiato, come il jazz".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804615415
eBook ISBN
9788852022838

I sotterranei

Uno

Una volta ero giovane e avevo le idee molto più chiare e sapevo parlare di tutto con intelligenza nervosa e con lucidità e senza bisogno di tanti preamboli letterari come questo; in altre parole questa è la storia di un uomo insicuro di sé, al tempo stesso di un egomaniaco, naturalmente, non sto affatto scherzando – tanto per cominciare dal principio e lasciare che la verità venga a galla, ecco quello che farò –. Cominciò una calda sera d’estate – ah, lei era seduta su un parafango con Julien Alexander che è… fatemi cominciare dalla storia dei sotterranei di San Francisco…
Julien Alexander è l’angelo dei sotterranei, i sotterranei è un nome inventato da Adam Moorad poeta e amico mio che diceva: «Sono hip ma non se la tirano, intelligenti ma non pallosi, intellettuali marci che sanno tutto di Pound senza fare i saccenti o parlarsi addosso, tranquilli e pacifici come tanti gesucristi». Julien è un vero gesucristo. Scendevo giù per la via con Larry O’Hara vecchia spugna fradicia amico mio inseparabile di tutte le volte che a San Francisco nelle mie lunghe e frenetiche e pazze scorribande mi sbronzavo e in effetti andavo a scrocco dagli amici con tale “paracula” metodicità che nessuno si prendeva più la briga di notare o dichiarare che sto o stavo sviluppando, nella mia giovinezza, pessime abitudini da scroccone anche se naturalmente lo notavano ma mi volevano bene e come diceva Sam «Vengono tutti a far benzina da te amico, devi avere in corpo un bel distributore» o cose del genere – vecchio Larry O’Hara sempre carino con me, giovane pazzo imprenditore irlandese di San Francisco con una libreria che aveva un retrobottega balzacchiano dove si fumava erba e si parlava dei tempi andati della grande band di Basie o dei tempi del grande Chu Berry – su cui tornerò fra poco dal momento che lei s’era fatta pure lui come doveva farsi anche gli altri perché sapeva che sono un tipo nervoso e a tanti strati e niente affatto tutto d’un pezzo – non un briciolo del mio dolore – o sofferenza – è ancora affiorato – pazientate Angeli – la pagina non la guardo neanche, guardo dritto di fronte a me il triste riflesso della parete della mia stanza e uno show di Sarah Vaughan e Gerry Mulligan a Radio KROW sulla scrivania a forma di radio, insomma, se ne stavano seduti sul parafango di una macchina davanti al Black Mask sulla Montgomery Street, Julien Alexander il gesucristo dalla barba non fatta magro giovane tranquillo strano che voi o Adam definireste un angelo dell’apocalisse o un santo dei sotterranei, un vero divo (adesso), e lei, Mardou Fox, la cui faccia la prima volta che la vidi al bar Dante dietro l’angolo mi fece pensare “Per Dio, quel tipino me lo devo fare” e forse anche perché era negra. E poi aveva la faccia di Rita Savage un’amica d’infanzia di mia sorella, che ai tempi mi sognavo fra l’altro inginocchiata fra le mie gambe sulle mattonelle del cesso, e io seduto sulla tazza, con quelle sue labbra fantastiche e speciali e gli zigomi alti duri morbidi da indiana – stessa faccia, ma scura, dolce, occhi piccoli onesti scintillanti e intensi e lei Mardou era protesa a dire qualcosa di estremamente serio a Ross Wallenstein (amico di Julien) tutta protesa sul tavolo – “Me la devo fare” – cercai di lanciarle l’occhiata malandrina l’occhiata di sesso lei nemmeno si sognava di alzare gli occhi o di guardare – devo spiegare, ero appena sbarcato a New York, liquidato prima ancora del viaggio a Kobe in Giappone per via di uno scazzo con il dispensiere e la mia incapacità di essere gentile e di fatto umano e come una persona normale nel mio lavoro di cameriere in sala da pranzo (adesso ammetterete che mi sto attenendo ai fatti), cosa tipica mia, trattavo il primo macchinista e gli altri ufficiali con cortesia esagerata, cosa che alla fine li faceva infuriare, volevano che dicessi qualcosa, magari di brusco, alla mattina, mentre gli servivo il caffè e invece zitto zitto e in punta di piedi mi precipitavo al loro minimo cenno senza mai l’ombra di un sorriso o se capitava era un sorriso perverso, di superiorità, e tutto questo aveva a che fare con quell’angelo della solitudine appollaiato sulla mia spalla mentre quella sera scendevo per la calda Montgomery Street e vidi Mardou sul parafango con Julien, e mi ricordai “Oh è lei la ragazza che mi devo fare, chissà se sta con qualcuno di questi ragazzi” – scura, la distinguevi appena nella via poco illuminata – i sandali che fasciavano quei suoi piedi di una sessualità così fantastica che volevo baciarla, baciarli – pur non sapendo niente di niente.
I sotterranei se ne stavano lì davanti al Mask nella notte calda, Julien sul parafango, Ross Wallenstein in piedi, Roger Beloit il grande sassofonista, Walt Fitzpatrick che era figlio di un famoso regista ed era cresciuto a Hollywood in un’atmosfera tipo party a casa di Greta Garbo all’alba con Chaplin che a un certo punto ti crolla ubriaco davanti alla porta, e parecchie altre ragazze, Harriet la ex moglie di Ross Wallenstein una specie di bionda con morbidi lineamenti inespressivi e un vestitino di cotone quasi del genere casalinga-in-cucina ma mollemente fighetta da guardare – e questa è un’altra confessione che va fatta e ve ne farò un bel po’ prima di lasciar scadere il tempo a nostra disposizione – sono un maschio rozzo e sensuale e non posso farci niente e ho tendenze lascive più o meno come devono averle tutti i miei lettori maschi – una confessione tira l’altra. Io vengo dal Canada francese, fino ai cinque o sei anni non parlavo inglese, a sedici lo parlavo con un forte accento e a scuola ero un bambinone triste nonostante poi la squadra di basket al college, non fosse stato per quello nessuno avrebbe mai pensato che ero capace di venire a patti col mondo (sottostima di sé) e mi avrebbero sbattuto in manicomio perché non riuscivo a inserirmi –
Ma adesso lasciatemi parlare di Mardou (difficile confessare davvero quello che è successo quando sei un tale egomaniaco che tutto quello che sai fare è dilungarti in paragrafi zeppi di dettagli insignificanti che ti riguardano mentre i dettagli sulle anime grandi degli altri restano lì in attesa) – in ogni caso, quindi, c’era anche Fritz Nicholas, leader riconosciuto dei sotterranei, al quale dissi (dopo averlo incontrato l’ultimo dell’anno in un appartamento di lusso a Nob Hill seduto su un pesante tappeto a gambe incrociate come un indiano peote con addosso una specie di camicia alla russa bianca e pulita e appoggiata alla spalla una ragazza fuori di testa un’Isadora Duncan con lunghi capelli blu, occupato a farsi una canna e a parlare di Pound e del peote) (magro anche lui anche lui un gesucristo con uno sguardo da fauno, giovane e serio che sembrava il padre del gruppo, come si diceva, e te lo ritrovi qui al Black Mask seduto con la testa rovesciata all’indietro occhi piccoli e scuri che guardano tutti con lento e improvviso stupore e «Eccoci qua bambini e qual è il problema, cari?»; ma anche un vero strafatto, pronto a farsi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento purché picchi forte e duro) gli dissi: «Conosci quella ragazza? Quella scura». – «Mardou?» – «Si chiama così? Sta con qualcuno?» – «Con nessuno in particolare, un tempo questo era un gruppo incestuoso», mi disse questa cosa davvero strana, mentre andavamo verso la sua vecchia e sgangherata Chevy 36 senza sedili posteriori parcheggiata di fronte al bar dall’altra parte della strada a prendere un po’ di erba da sfumazzare in compagnia, perché avevo detto a Larry «Ci facciamo una canna, amico?» – «Con tutta questa gente? E perché?» – «Voglio studiarli come gruppo», e questo l’ho pure detto davanti a Nicholas così magari lui apprezzava la mia sensibilità, io un estraneo al gruppo ma già capace di capire al volo, e così via, quel che valevano – fatti, fatti, dolce filosofia che mi ha abbandonato col nettare di anni volati via – incestuoso – c’era un’altra figura rilevante del gruppo che però quell’estate non era lì ma a Parigi, Jack Steen, un tipetto molto interessante una specie di Leslie Howard con un’andatura (Mardou in seguito mi fece l’imitazione) da filosofo viennese con le braccia molli oscillanti fluide lungo i fianchi e lunghi lenti passi fluidi, e da fermo certe pose di molle autorevolezza – anche lui aveva avuto una storia con Mardou e una storia davvero strana, come seppi poi – ma ora la mia prima briciola di informazioni a proposito della ragazza che stavo CERCANDO di rimorchiare come se non avessi già tanti guai o altre vecchie storie del genere non mi avessero insegnato quel messaggio di dolore: chiedi, continua a chiedere, chiedi disperatamente –
Fuori dal bar si riversava gente interessante, e la notte mi sembrava promettere grandi cose, un tizio alla Marlon Brando capelli scuri da Truman Capote con una topa o tipa strabiliante in pantaloni da maschio occhi stellati e fianchi apparentemente così morbidi che quando si metteva le mani in tasca vedevo la differenza – e gambe scure e sottili dai pantaloni giù fino ai piedi piccoli, e quella faccia, e con loro un ragazzo con un’altra bella bambola, il nome del ragazzo è Rob e lui è una specie di avventuroso soldato israeliano dall’accento britannico, del tipo che immagineresti di trovare in qualche bar della Riviera1 alle cinque del mattino a bere tutti gli alcolici sugli scaffali in ordine alfabetico in compagnia di un gruppetto di amici internazionali gente interessante e folle in fregola da festa – Larry O’Hara che mi presenta Roger Beloit (non ci volevo credere che quel giovane dalla faccia anonima davanti a me fosse il grande poeta che avevo venerato nella mia giovinezza, la mia giovinezza, cioè il 1948, e io continuo a dire la mia giovinezza) – «Lui è Roger Beloit?» – «Io sono Bennet Fitzpatrick» (padre di Walt) e questo fece affiorare un sorriso sulla faccia di Roger Beloit – intanto anche Adam Moorad era emerso dalla notte e stava con noi e la notte cominciava –
Così andammo tutti da Larry e Julien si sedette sul pavimento davanti a un giornale aperto con sopra l’erba (LA di pessima qualità ma poteva andare) e rollava, o “torceva” canne, proprio come mi aveva detto l’anno prima a Capodanno Jack Steen, l’assente, e poiché quello era il mio primo contatto coi sotterranei, aveva chiesto di rollare una canna per me e io avevo detto con grande freddezza: «Perché? Me la rollo da solo» e subito sulla sua faccina sensibile era passata un’ombra e via dicendo e mi aveva odiato – e perciò per tutta la notte a ogni minima occasione mi aveva snobbato – ma ora c’era Julien sul pavimento, a gambe incrociate, e rollava lui per tutto il gruppo, e tutti facevano discorsi monotoni che non starò qui a riferire, se non che erano sul genere: «Sto guardando quel libro di Percepied – ma chi è questo Percepied, l’hanno già sbattuto dentro?» e discorsi superficiali di quel tipo, oppure, mentre si ascolta Stan Kenton parlare della musica del futuro e si sta a sentire un nuovo giovane saxtenore emergente, Ricci Comucca,2 Roger Beloit dice, stirando sottili labbra espressive violacee: «E questa sarebbe la musica del futuro?» e Larry O’Hara che snocciola il solito interminabile repertorio di aneddoti. Per strada sulla Chevy 36, Julien, seduto al mio fianco sul fondo della macchina, mi aveva teso la mano: «Sono Julien Alexander, ho qualcosa, ho conquistato l’Egitto», e allora Mardou aveva teso la mano a Adam Moorad e s’era presentata dicendo «Mardou Fox», ma non s’era sognata di farlo anche con me, e questo avrebbe dovuto essere per me un primo accenno della profezia di quello che stava per succedere, perciò dovetti essere io a tenderle la mano e dire: «Mi chiamo Leo Percepied» e stringere la sua – ah, ti piacciono sempre quelle che proprio non ti vogliono – lei voleva Adam Moorad, era stata appena respinta freddamente e sotterraneamente da Julien – era attratta dagli esili, ascetici intellettuali stravaganti di San Francisco e di Berkeley e non dai corpulenti vagabondi paranoici di navi e ferrovie e romanzi e pieni di tutta quell’odiosità che in me stesso mi è così evidente e agli altri pure – benché e poiché di dieci anni più giovane non vedeva le mie virtù del resto ormai sepolte sotto anni di droghe e desiderio di morte e di mollare, mollare tutto e dimenticare tutto, morire nella stella scura – fui io a tendere la mano, non lei – ah, il tempo.
Però sbirciando le sue minute grazie la primissima idea che mi venne fu semplicemente quella di immergere il mio essere solitario («Un omone triste solitario»: ecco cosa mi disse soltanto la notte dopo, quando all’improvviso mi notò su una sedia) nel caldo bagno salvifico delle sue cosce – le effusioni di giovani amanti a letto, eccitati, occhi negli occhi, petto sul petto nudo, organo nell’organo, ginocchio contro ginocchio tremante con la pelle d’oca, intenti a scambiarsi gesti esistenziali e d’amore per provare a farlo – «farlo»: suona grandioso detto da lei, vedo i dentini sporgere fra le piccole labbra rosse mentre la guardo dire «farlo» – la chiave del dolore – seduta in un angolo, vicino alla finestra, “separata” o “in disparte” o “pronta a estraniarsi dal gruppo” per qualche sua buona ragione. – Andai nel suo angolo, non posai la testa su di lei ma l’appoggiai al muro e tentai una comunicazione silenziosa, poi parole pacate (adatte a un party) parole da North Beach: «Cosa leggi?» e per la prima volta lei aprì la bocca e mi parlò comunicandomi un pensiero compiuto e non ebbi proprio un tuffo al cuore ma mi chiesi quando e dove avevo sentito quella buffa cadenza intellettuale in parte North Beach, in parte I. modello Magnin:3 in parte Berkeley, in parte alta borghesia negra, una cosa così, un misto di langue e stile nel parlare e uso di parole che non avevo mai sentito prima se non da certe rare ragazze, naturalmente bianche, e così stravagante che persino Adam lo notò subito e commentò la cosa con me quella notte – ma certo, proprio il modo di parlare della nuova generazione bop: non dicono sei, dicono seeéi oppure séééi e trascinano le vocali, e ogni due per tre ci mettono dentro certi modi “effemminati” che quando li senti in bocca a un uomo all’inizio hanno un suono sgradevole e quando li senti da una donna sono affascinanti ma davvero troppo strani, e un accento particolare che avevo già sentito distinto e strabiliante nella voce dei nuovi cantanti bop tipo Jerry Winters specialmente nella band di Kenton nel pezzo Yes Daddy Yes e mi sa pure in Jeri Southern – invece ebbi un tuffo al cuore perché quelli della Beach mi hanno sempre odiato, escluso, disprezzato, trattato come una merda dall’inizio del 1943 in poi – perché sapete, a vedermi per strada io sembro un po’ un teppista e poi quando la gente si accorge che non sono un teppista ma una specie di santo schizzato non gli va per niente e in più gli viene la strizza che il teppista che è in me salti fuori senza preavviso e li gonfi di botte e spacchi tutto ed è quello che ho pure fatto, quando ero ragazzo sì l’ho proprio fatto, per esempio la volta che giravo per la North Beach con la squadra di basket di Stanford, per la precisione con Red Kelly, la cui moglie (giusto così?) è morta a Redwood City nel 1946, con tutta la squadra al seguito e anche i fratelli Garetta, lui spintonò un violinista frocio fin dentro un portone e io ne spintonai un altro, lui menava il suo, io fissavo truce il mio, avevo diciotto anni, un castigachecche e ancora un ragazzino – ora, vedendo questo passato riflesso nel mio sguardo stralunato e fisso e nel mio cipiglio bieco e orgoglioso mi giravano al largo e perciò lo sapevo bene che Mardou diffidava sinceramente di me e non le piacevo per niente mentre me ne stavo seduto e «tentavo (non di farLO) ma di farmela» – per niente hip, sfrontato, sorridente, lo chiamano il falso sorriso nevrotico “compulsivo” – io hot – loro cool – e per di più avevo anche addosso una camicia orribile per niente da North Beach, comprata sulla Broadway a New York quando pensavo di scendere dalla passerella della nave a Kobe, una delirante camicia hawaiana a motivi fantasia tipo Crosby, io macho e frivolo rispetto alle mille umiltà originarie del mio solito io (sul serio) e con due tirate di erba in corpo mi sentii in dovere di aprire un altro bottone della camicia e così mostrare il mio torace peloso e abbronzato – che deve averla schifata – in ogni caso non mi guardava nemmeno e parlava poco e a bassa voce – tutta concentrata su Julien accovacciato che le voltava la schiena – e ascoltava e rideva sommessamente nella conversazione generale – una conversazione per lo più guidata da O’Hara e Roger Beloit con la sua voce tonante e Rob intelligente avventuroso e io lì, zitto, in ascolto, tutto teso a capire la scena, eppure capace di buttare lì nell’euforia da erba un’osservazione “perfetta” (secondo me), “troppo perfetta” ma agli occhi di Adam Moorad che mi conosceva da tempo un chiaro segno della mia devozione e disponibilità e ascolto riverente del gruppo, e ai loro occhi solo uno nuovo pronto a sparare battute per far sfoggio del suo essere hip – una situazione orribile, e irrimediabile. – Benché all’inizio, prima di fumare, a turno uno dopo l’altro come gli indiani, io avevo avuto la netta sensazione di poter avvicinare Mardou e rimorchiarla e farmela quella notte stessa, cioè di potermela filare con lei anche solo per un caffè ma fumare mi aveva reso assolutamente insicuro senza più controllo di me, e pregavo in segreto che mi fosse restituita la mia sobrietà pre-fumo, cominciai a strafare, ovvio che non le piacevo, detestavo la dura realtà – e questo mi fa venire in mente la notte che conobbi Nicki Peters, amore mio, nel 1948 a casa di Adam Moorad a (allora) Fillmore, in piedi in cucina con aria noncurante a bere birra come sempre (e a casa lavoravo come un pazzo a un immenso romanzo, fuori di me, sfatto, fiducioso, giovane talentoso come non sarei mai più stato) quando lei indicò il mio profilo sul muro verde pallido e disse: «Che bel profilo hai», e la cosa mi sconvolse enormemente e (come l’erba) mi rese insicuro, attento, mentre cercavo di “cominciare a farmela”, comportandomi in quel modo che per quasi ipnotica suggestione di lei ora ci portava dritti alle prime schermaglie, orgoglio contro orgoglio, e bellezza o beatitudine o sensibilità contro il nervosismo stupido e nevrotico del tipo fallico, perennemente conscio del suo fallo, della sua torre, che pensa sempre alle donne come a pozzi – perché la questione vera sta lì, certo, ma l’uomo è squilibrato, senza pace, e ora non siamo più nel 1948 ma nel 1953 e ci sono generazioni cool e io ho cinque anni di più, o di meno, bisogna farlo (o farsi le donne) con uno stile nuovo e mettere da parte il nervosismo – in ogni modo decisi di lasciar perdere Mardou e quella notte mi dedicai all’interpretazione del grande nuovo enigmatico gruppo dei sotterranei scoperto e nominato da Adam sulla Beach.
Ma fin dall’inizio Mardou era proprio autonoma e autonomamente proclamava che non voleva nessuno, non voleva avere niente a che fare con nessuno, e poi finì (dopo di me) allo stesso modo – e ancora la sento nell’aria in questa fredda notte maledetta quella sua dichiarazione, e sento che quei suoi dentini non sono più miei ma probabilmente li slinguazza il mio nemico riservandole il trattamento sadico che probabilmente le piace dato che io non glielo avevo riservato – omicidi nell’aria – e quell’angolo squallido dove brilla una luce, e i venti turbinano, e carta, e nebbia, vedo il faccione scoraggiato, il mio, e il mio cosiddetto amore che s’affloscia nella via, che peccato – come prima s’afflosciava malinconicamente su sedie calde, depresso dalle lune (anche se stanotte è la grande notte della luna del raccolto) – come dove allora, prima, c’era stato il riconoscimento del mio bisogno di tornare a un amore universale, come dovrebbe fare un grande scrittore, un Lutero, o un Wagner, ora questo caldo pensiero di grandezza è solo un grande brivido nel vento – perché anche la grandezza muore – ah e chi ha detto che sono grande – ma se anche fossi un grande scrittore, uno Shakespeare clandestino da intimità notturne? se lo fossi – una poesia di Baudelaire non vale il suo dolore – il suo dolore – (Poi è stata Mardou a dirmi: «Avrei preferito che fosse stato felice invece di lasciarci poesie infelici», il che mi trova d’accordo e io sono Baudelaire, e amo la mia scura amante e anch’io mi sono accostato al suo ventre per ascoltarne il brontolio, dentro) – ma la sua originaria dichiarazione di autonomia avrebbe dovuto palesarmi la sincerità della sua avversione per ogni forma di legame, invece di spingermi a saltarle addosso, come se volessi e di fatto volevo ad ogni costo ferirmi e “lacerarmi” – un’altra lacerazione e tireranno su terra azzurra dalla mia tomba, amico, e ci butteranno la mia cassa – perché ora la morte ripiega le grandi ali sulla mia finestra, la vedo, la sento, la fiuto, la vedo nel floscio penzolare delle mie camicie destinate a non essere indossate, nuove-vecchie, di-moda-fuori-moda, cravatte come serpi pendenti che nemmeno uso più, coperte nuove per pacifici letti autunnali ora brande su cui contorcersi e affannarsi in un mare di suicidio – perdita – odio – paranoia – era nel suo faccino che volevo penetrare, e lo feci –
Quella mattina quando la festa impazzava io ero ancora una volta nella stanza di Larry ad ammirare la luce rossa e a ricordare la notte che c’era Micky con noi, con tutti e tre, io, Adam e Larry e ci siamo fatti di benzedrina e abbiamo fatto sesso alla grande che già solo a parlarne è uno sballo – quando Larry arriva di corsa e dice: «Ehi, amico, te la fai o no stanotte?» – «Certo che ci metterei la firma – Non so –» – «Be’ datti una mossa che non hai molto tempo, che cazzo ti prende, ti portiamo tutta questa gente in casa e gli diamo da fumare e birra ghiacciata da bere, bisogna cavarne fuori qualcosa, datti una mossa –». «E a te lei piace?» – «Se è per questo, a me piacciono tutte, amico – voglio dire, dopotutto.» – Il che mi portò a fare un nuovo breve tentativo senza voglia e senza esito, uno sguardo, un’occhiata, una frase, seduto accanto a lei in un angolo, lasciai perdere e all’alba lei se la filò con gli altri tutti in cerca di caffè e li raggiunsi con Adam per rivederla (seguii il gruppo giù per le scale cinque minuti dopo) e loro c’erano ma lei no, rimuginando ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I sotterranei
  4. Postfazione - di Fernanda Pivano
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. Copyright