Antonio Monda
L’America non esiste
ROMANZO
A mio padre, che avrebbe amato l’America.
Maria non leggeva i giornali, altrimenti, il giorno dopo, avrebbe letto quanto era stato scritto sull’incidente che aveva reso lei, e il fratello Nicola, orfani. Chissà come avrebbe reagito di fronte alla descrizione, spettacolare e del tutto immaginaria, del ribaltamento della macchina. E chissà cosa avrebbe pensato del commento finale del giornalista, il quale, dopo il racconto della morte dei genitori, citava anche il suo nome e quello di Nicola, per spiegare con occhio lucido ai lettori che due adolescenti erano “rimasti soli al mondo”.
Lei l’incidente non se l’era immaginato affatto. Era stato il fratello a chiedere i dettagli alla polizia, ma non era riuscito a sapere molto. A giudicare dalle impronte sull’asfalto la macchina aveva sbandato, poi doveva essersi capottata almeno due volte prima di prendere fuoco. Avevano trovato i corpi carbonizzati. Quello della donna che si stringeva al braccio del marito.
Nicola si augurò che i genitori fossero morti prima dell’esplosione delle fiamme, poi pianse molto, e la sera del funerale concluse che dal nulla erano tornati al nulla. Se non gli avesse riportato alla mente il fuoco che li aveva consumati, avrebbe detto che erano cenere e in cenere erano tornati, come aveva imparato a scuola dai preti.
Maria no, non aveva pianto. Neanche quando aveva visto le casse che venivano sigillate, e poi, più tardi, in chiesa, l’incenso che ondeggiava sulle bare. Eppure li amava, quei genitori morti giovani che non avrebbe mai più visto. Le avevano dato la vita. Forse era per questo che non piangeva, e anzi sentiva il bisogno di ringraziare per averli avuti accanto diciotto anni.
Nessuno fece molto caso al fatto che rimanesse in silenzio. Gli amici di famiglia c’erano abituati. Lei non se ne accorse e continuò a pensare chi mai dovesse ringraziare.
Il mare era blu come non lo aveva mai visto. Ma anche grigio, quando il cielo diventava scuro. Faceva paura quando si corrucciava e aggrediva con le sue onde la nave sulla quale viaggiavano. Il vento portava gli schizzi sino al ponte, e schiaffeggiava chi voleva sfidarne la potenza, chi si ostinava a dimenticare che siamo un fuscello, che per chissà quale miracolo ha anche sentimenti.
Ma il comandante era un uomo sicuro, che non si sarebbe mai fatto spaventare da quelle onde piene di schiuma bianca. Ne aveva fatte tante, di quelle traversate, e dopo una giornata di onde furiose le fece vedere la meraviglia del mare improvvisamente calmo, e del tramonto rosso di vergogna per quello che la natura aveva tentato di fare a chi era in viaggio. O forse no, non era vergogna, ma commozione per lo spettacolo che lui stesso generava.
Le disse che non c’è nulla di più bello al mondo di quando il mare prende il colore del vino, e le spiegò che un poeta aveva scritto che quella è l’ora in cui ai naviganti il cuore diventa tenero. Era quello che provava anche lei, e che in realtà aveva provato per tutto il viaggio.
Maria sorrise a quell’uomo robusto e barbuto che chissà perché si era affezionato proprio a lei. Pensò che dovesse esistere qualcosa di più grande della natura che uccide con le onde e rallegra con il tramonto. E poi che aveva perso il padre da pochi giorni, ma che aveva già trovato un’altra persona che la faceva sentire bene. Sì, al momento dello sbarco, del comandante avrebbe perso le tracce, ma chissà quante altre persone avrebbe incontrato. Certamente anche donne, spiritose come la madre, che la faceva ridere anche quando dicevano le preghiere prima di andare a letto. Forse la vita significa perdere qualcosa di grande e riaverlo in tante piccole porzioni che ti fanno sentire che in realtà non hai mai perso nulla.
Il comandante le indicò uno spruzzo che usciva dall’acqua e spezzava la calma infinita del mare. Maria rimase incantata a guardare quell’animale grande come la casa che non avrebbe più rivisto. Era azzurro come il cielo del suo paese ad aprile, come le tazze che aveva comprato la mamma per fare colazione tutti insieme.
Vide la coda che si alzava e poi si inabissava nel mare colore del vino. La scomparsa la lasciò per un attimo sgomenta. Pensò che laggiù, in profondità, non doveva esserci più luce. Chissà se quell’essere aveva paura, in quegli abissi. No, doveva esserci abituato. E poi il sole lo aveva visto. Era per questo che spruzzava.
Nicola non aveva fatto amicizia con nessuno, a bordo. E non poteva sopportare il comandante, con quei modi a tutti i costi paterni. Dovevano avergli detto che avevano perso i genitori, ma questo non l’autorizzava a prendersi tante confidenze. E poi i racconti, interminabili, e con quel tono accorato. Sembrava che la vita l’avesse vissuta soltanto lui. La tempesta a largo delle Azzorre, i delfini che saltavano intorno alla nave rispondendo al suo applauso, e l’alba dorata e silenziosa all’arrivo sulle coste americane.
Quella che vide Nicola, quando entrarono nel porto di New York, non era affatto dorata, e la statua di cui parlava sempre il comandante, che conosceva la lingua di tutti gli emigranti, gli sembrò un monumento retorico e pesante: una donna verde con un libro, una torcia, e un’assurda corona in testa.
Non riuscì a capire cosa ci fosse di tanto entusiasmante, né perché tutti i passeggeri si fossero riversati a vederla e a indicarla, come la Madonna delle processioni del suo paese. Anche Maria la guardava incantata, e accanto a lei c’era chi si era messo in ginocchio e si faceva il segno della croce.
Era un’alba piovigginosa, con una nebbia sporca che copriva i palazzi altissimi di cui gli avevano parlato tutti. Il porto era caotico, nonostante l’ora. Nicola notò un gruppo di cinesi che trascinavano la carcassa di un enorme pescecane. Parlavano la loro lingua incomprensibile e sembravano molto fieri dell’animale, che aveva la bocca piena di denti. Erano enormi, aguzzi e insanguinati.
Accanto a loro un gruppo di marinai. Erano tutti biondi e dovevano essere di ritorno da una notte di bevute. Si spingevano e ridevano sguaiatamente con lo sguardo spento.
I cinesi chiesero ai marinai di farli passare e questi acconsentirono continuando a ridere. Uno di loro mise la mano nella bocca dello squalo mentre gli altri applaudivano.
Un nero gigantesco, con le braccia piene di cicatrici e una cassa di frutta sulle spalle, ne approfittò per passare anche lui. Uno dei marinai biondi urlò, ma il nero non disse nulla. Doveva essere un tipo silenzioso. Guardò fisso davanti a sé e si avviò verso un magazzino all’imbocco del molo, dove c’era una lunga fila di uomini con le casse di frutta. Erano tutti silenziosi come lui. Attendevano di scaricare.
Una sirena risuonò improvvisamente nel porto. Sembrava il muggito delle mucche che pascolavano nel retro della casa dove aveva vissuto sino a pochi giorni prima. Non reagì nessuno, e Nicola si chiese che senso avesse quel segnale. Poi se quelli fossero davvero cinesi o coreani. O giapponesi. Che differenza c’è, pensò, rispetto a me che vengo dalla terra di Ulisse. Improvvisamente uno di loro gli sorrise e disse qualcosa al compagno accanto, che sorrise a sua volta.
Nicola li fissò, impassibile. Provava un senso di rabbia e ribellione, ma disse a se stesso che nessuno era degno di vederla esplodere. Chiuse gli occhi e ascoltò le sirene delle navi che continuavano a muggire nel porto di New York.
Lo zio Sabatino era venuto a prenderli al porto. Si era trasferito in America molti anni prima, e non lo avevano mai conosciuto. A dire il vero non ne avevano mai sentito parlare, fin quando zia Adele, l’unica rimasta in vita di una famiglia che un tempo era stata numerosa, li aveva convocati alla fine del funerale, spiegando che era stato deciso così per il loro bene. Non avrebbero avuto neanche problemi con la lingua, che avevano imparato dalla mamma, nata ad Akron, nell’Ohio, dove i genitori erano emigrati senza alcuna fortuna prima di tornare al paese quando lei era ormai ventenne.
Era stata un’idea di don Roberto, il parroco che li aveva battezzati. I primi tempi avrebbero potuto dormire nella casa dei suoi confratelli a New York, ma la sola idea aveva fatto rabbrividire Nicola, che aveva detto no, che non c’era bisogno e non vedeva l’ora di conoscere quel parente che aveva fatto fortuna in America. Così almeno gli era stato presentato. Zia Adele aveva aggiunto che era rimasto sconvolto per la morte dei genitori, e che somigliava tale e quale al padre, di cui era un lontano cugino.
Lo zio Sabatino li abbracciò forte, appena scesero dalla nave, sembrava quasi volesse stritolarli. Doveva essere il suo modo di dimostrare l’affetto. Nicola reagì con lo stesso impeto: quello zio sconosciuto era comunque famiglia, e lui voleva farglielo sentire. Anche se non assomigliava affatto al padre.
A Maria invece venne da ridere per quelle effusioni così appassionate. Lo zio Sabatino era grosso e sudato, e diceva sempre «benedizione!». Sembrava davvero felice di ritrovare un pezzo della sua famiglia, ma poi, quando ricordava il motivo per cui i due ragazzi erano stati spediti in America, faceva la faccia triste. Spiegava che era addolorato, anzi distrutto per la morte dei genitori, ma considerava una benedizione il fatto di conoscerli. Questo intendeva, non se la dovevano prendere. Poi cominciò a baciarli sulle guance e disse che erano identici al padre. Ma a vederli bene anche alla madre.
Prese le valigie di entrambi con le sue mani grasse e spiegò che la procedura per entrare in quel paese era lunga, ma che aveva parlato con le persone giuste e che potevano venirsene via subito con lui.
I ragazzi accolsero la novità con sollievo: avevano sentito parlare di quarantena, di un lungo soggiorno in un’isola nella baia di New York, ma grazie allo zio Sabatino era bastato il passaggio alla dogana.
Doveva aver fatto veramente fortuna, si vedeva anche dall’automobile, enorme e scintillante, che lui guidava lentamente, al centro della strada, senza preoccuparsi di chi suonava il clacson perché non riusciva a passare. Teneva un braccio fuori dal finestrino e fumava, fiero della sua Cadillac, ma a dire il vero tutte le automobili erano grandi come la sua, alcune anche di più.
Quella notte avrebbero dormito a casa di una coppia di amici a Manhattan, poi il giorno dopo si sarebbero trasferiti a Brooklyn, dove aveva trovato un posto nel quale sarebbero andati a vivere.
Mentre guidava, lo zio Sabatino continuava a guardare i nipoti arrivati dall’Italia.
«Benedizione, siete uguali a vostro padre.»
«Quel palazzo lo chiamano “ferro da stiro”. È uno dei primi grattacieli costruiti a New York, forse il primo.»
Indicava le attrazioni della loro nuova città e stringeva una sigaretta che aspirava velocemente tra una frase e l’altra. E sorrideva, felice di condividere la sua emozione con quel pezzo di famiglia ritrovato.
«Questo è il cuore del mondo, ragazzi. Non dimenticatelo mai.»
«Il fiume che vedete è l’Hudson, perché Manhattan è un’isola. Un tempo c’erano gli indiani, ma si sono fatti fregare e hanno venduto tutta la terra per un po’ di collanine.»
I due ragazzi non sembravano particolarmente interessati ai racconti, ma lo zio continuava con veemenza.
«Oggi vivono nelle riserve e sono tutti ubriaconi. C’è chi li difende e dice che sono stati trattati male, ma a me non fanno per niente pena. Se fossero stati in gamba avrebbero vinto loro, è una cosa che s’impara qui, nella vita vince sempre il migliore. Ve l’immaginate tutta l’America popolata di gente che dice “tu, lingua biforcuta”?»
Aspirò forte la sigaretta, come se volesse farsi un regalo per quello che aveva detto.
«Quello è l’Empire State Building, il grattacielo più alto di New York. Non è bellissimo? Pensate che è stato costruito quando la gente, per sopravvivere, scendeva in strada a prendere la minestra. Questo è il bello dell’America. La puoi attaccare, umiliare, mettere in ginocchio, ma non muore mai. Anzi risorge più forte di prima. È come l’araba felice o come si chiama, non mi ricordo mai, ma ci siamo capiti, no? Benedizione, come sono contento che siete qui.»
La casa degli amici si trovava a Hell’s Kitchen. Lo zio Sabatino spiegò che era un quartiere nel quale bisognava credere e investire, perché nel giro di pochi anni sarebbe diventato di lusso. I soldi li aveva fatti comprando e vendendo case, «qui è tutto facile, non come da noi, e la gente si sposta sempre. Non esiste una casa dove si rimane a vivere per tre o quattro generazioni».
Fece uno strano sorriso e disse nuovamente: «Non esiste».
L’appartamento si trovava al quarto piano di un palazzo che non aveva ascensore. «I walk-up sono più difficili da vendere perché ormai la gente vuole tutte le comodità» spiegò lo zio, «ma ce ne sono di bellissimi» e cominciò a salire le scale con le due valigie, camminando davanti ai nipoti. Continuava a stringere una sigaretta accesa e sudava da ogni poro. Si fermò solo una volta, per asciugarsi la fronte, poi, arrivato al quarto piano, suonò il campanello e sorrise ai ragazzi, come se volesse convincerli che dovevano essere felici di trovarsi nel cuore del mondo, in quel quartiere che presto sarebbe diventato elegante.
Aprì la porta una signora bionda piena di riccioli, che salutò lo zio con un bacio sulla guancia, poi si presentò ai ragazzi.
«Benvenuti, nipoti italiani. Io sono Nancy.»
Nicola le strinse la mano svogliatamente. Maria abbracciò la signora, che disse: «Sarete stanchissimi. Vi ho preparato la cena, poi, se volete, potete andare a letto. Vi mostro la stanza».
I ragazzi seguirono la signora riccioluta e poi guardarono entrambi lo zio, che aveva poggiato le valigie e si era accasciato su una sedia. Fumava e si asciugava il sudore.
Non c’era alcuna traccia di marito. Chissà perché lo zio Sabatino aveva parlato di coppia. Maria notò un frigorifero gigantesco, almeno tre volte quello che avevano a casa, pieno di succhi di frutta e cibi coloratissimi. E un televisore acceso, anche se non lo stava guardando nessuno. Non ne aveva mai visto uno, e non capiva perché ne parlassero tutti: un cinema piccolo incastrato in un mobile di casa. Anche se lo spettacolo trasmesso in quel momento doveva essere divertente, il pubblico rideva pazzamente.
Quando rimasero soli in camera, si mise alla finestra a guardare la città. Erano davvero alti, quei palazzi, e non aveva mai visto neanche luci al neon di quei colori. E manifesti così grandi. Ce n’era uno che reclamizzava un film. Doveva essere una storia di gente che danzava, o dipingeva, e si intitolava An American in Paris.
Nicola non aveva alcuna voglia di affacciarsi a guardare la città. Rimase in silenzio continuando a fissare la sua valigia. Le luci al neon gli sembravano orribili.
Nancy li chiamò poco dopo. Erano appena le sei del pomeriggio, ma diceva che era ora di cena e aveva preparato delle bistecche.
La donna non si sforzò di fare conversazione, e anche lo zio sembrava aver esaurito la voglia di parlare mostrata in macchina. Sorrideva all’amica, e indicava con lo sguardo com’erano carini i nipoti.
Maria mangiò con gusto la sua bistecca, mentre Nicola non sorrise mai e non disse una parola.
Poi più tardi, a letto, guardò di nuovo la luce offensiva dei neon e cominciò a cantare una canzone che gli aveva insegnato il padre: «Fenesta vascia ’e padrona crudele, quanta suspire m’hai fatto jettare! M’arde ’stu core, comm’a ’na cannela, bella, quanno te sento annommenare!».
Maria gli sorrise. Ricordava anche lei quella canzone, e come la cantava il padre. Si rivolgeva alla madre come se le facesse la corte, e poi spiegava che la canzone finisce male, ma a loro era andata bene perché si amavano.
Nicola si avvicinò alla finestra e cominciò a cantare più forte. Sembrava che volesse sfidare l’intera città dei gratt...