Tea Ranno
La sposa vermiglia
ROMANZO
Alla memoria di nonna Annettina,
nonna Mattiuzza,
zia Nella, zia Iolanda
e Vincenzina.
A Lina, mia madre,
a Sara e Laura, le mie figlie,
a Emanuele.
È l’alba, forse. O il pomeriggio. Il tempo corre svagato verso l’incoerenza e il melo ha troppe corone di cipolle per essere, appunto, un melo. Un cono di luce cade sul lungo taglio – dal centro del petto fino al pube – che i due vecchi stanno cucendo con uno spago nero. Da lontano giungono le voci di bambini che cantano.
Ecco, hanno finito.
L’hanno rammendata sul tavolo della cucina, adesso la portano in camera e l’adagiano sul letto.
È a questo punto che lei comincia a ridere. Ma non lei, Vincenzina, distesa con gli occhi chiusi; lei l’altra, la creatura che hanno dovuto chiuderle nella pancia perché se ne stesse finalmente buona. Comincia a ridere, a sussultare: «Ehi» chiama, «ehi, venite ad aprire?».
Invece quei due chiudono la porta a chiave e se ne vanno. Vincenzina li sente scendere giù per le scale.
«Ora se ne starà tranquilla» dice suo padre.
«Tranquilla, e al posto suo» precisa Licata con la solita arroganza.
Accanto al comò rimane Concetta, che si avvicina e le rimbocca le lenzuola, ma così strettamente da farle mancare l’aria. Intanto il prete ha sprangato le imposte e subito nella stanza è caduto un buio così fitto da non rivelare neppure quel rigo di luce, là dove il legno è sconnesso.
«E ti chiamàunu stidda persa» mormora la vecchia Niluzza apparsa con un campanellino in mano, «cuori ca nun quagghia, notti ca nun porta cunsigghiu.»1 La soddisfazione le spiana le rughe e il sorriso è quello di una donna finalmente vendicata: «Cchi ni sanu, iddi, d’o focu ca ti squagghia ’i catini e ti fa abbulàri comu ’na spruvèra?».2
E subito la stanza è invasa dal sole e il suo corpo, nudo sul letto, ancora esibisce quella mostruosa cicatrice. Dalla quale, d’un tratto, sbuca la punta metallica di una forbicina, subito seguita dalla gemella, e tutte e due, allegre allegre, lavorando dal di dentro, scuciono i punti, riaprono la ferita e lasciano che dalla carne aperta sbocci una figura di ragazza: precisamente quella che i due vecchi hanno tentato, con ago e filo, di ricacciare al posto suo.
La ragazza ha lunghi capelli sciolti, sguardo ardente, bocca d’un rosso lucido tanto simile al vermiglio caramelloso delle mele vendute per la festa del Santo. Sul viso un’espressione d’esultanza. Superba s’avvicina al balcone, si guarda intorno, si solleva sulla punta dei piedi: un piccolo salto ed è già in volo.
Possente, il suo volo. Non di colomba e neppure di cincia, piuttosto di sparviera.
Ci sono musiche d’operetta intorno a lei e una tale quantità d’aria che per un istante rimane senza respiro. Un colpo d’ala, e subito si trova sul cornicione del Municipio, e da lì alla Torre, e dalla Torre alla casa dei Gonzales, nella stanza dove Filippo sta cominciando a radersi. La vede e sbalordisce: «Amore mio» balbetta mentre il pennello insaponato gli cade dalle mani.
Lei ride: per il pennello che cade, la bacinella che si rovescia spargendo intorno acqua bianca, ma soprattutto per quell’“amore mio” così spontaneo che le accende dentro tutti i possibili soli. Ride e...
«Vincenzina» una mano la scrolla, «Vincenzina, che hai?»
Spalanca gli occhi. Il balcone è socchiuso, il petto di sua madre è affannato.
«Ti sono tornati i dolori?» le sta chiedendo preoccupata.
Scuote appena la testa mentre l’immensa gioia sfuma in una delusione che si fa voglia di pianto, groppo in quel suo stomaco integro, senza cicatrici né ragazze ridenti che, armate di forbicine, si conquistano la libertà.
«Perché?» domanda, e la sua voce un poco trema.
«Ti lamentavi.»
“Non erano lamenti, ma risate” vorrebbe dirle, “di quelle che cerchi di murarti in bocca affinché nessun diavolo di passaggio s’ingelosisca e te le faccia pagare.”
«Niente» risponde, «solo un sogno.»
Tutta quella potenza, quel senso smisurato di libertà scivolano via come gocce su un ombrello chiuso in fretta.
«Un bel sogno?»
«Non me lo ricordo.»
Si avvicina, le carezza la fronte: «Proprio niente ti ricordi?».
«Niente.»
Sua madre vorrebbe parlare, lo sa, lo sente. Lei, invece, non vede l’ora che se ne vada. Così continua a tenere gli occhi chiusi.
«Vuoi riposare ancora un poco?» le domanda.
Annuisce.
«Vuoi che chiuda le imposte?» Una premura esagerata, irritante.
«No.»
«Ti porto un bicchiere di latte? Qualche biscotto? Un uovo sbattuto col Marsala?»
La interrompe spazientita: «Fammi dormire». E subito, addolcendosi: «Per favore» aggiunge.
Donna Mariagrazia sospira: «Come vuoi tu» mormora, poi esce dalla stanza col passo silenzioso di chi è abituato a muoversi come un’ombra.
Vincenzina si sfiora la pelle liscia della pancia. Davvero le volevano ricucire dentro quella magnifica ragazza? Davvero quella è riuscita a liberarsi?
Sorride. Se riprendesse il filo del sogno forse riuscirebbe a scoprirlo.
Ed è solo per questo che subito si alza, serra le imposte, si ributta sul letto e affida agli occhi chiusi la ricerca di un sonno che la riporti all’immagine più vivida di quella visione: la forbicina che sbuca dalla ferita e taglia, allegramente taglia, per far sbocciare una ragazza nuova.
Fuori, sul balcone, le rose dondolano appena, mosse dalla brezza. Sono damascene purpuree che Corrado le portò dalla Turchia. Sui muri del Municipio il sole spande la sua luce d’oro.
«Non mi posso pensare senza di te» aveva mormorato Concetta.
Erano nell’orto, chine sui ciuffi di menta che stavano raccogliendo per insaporire più tardi i gamberetti crudi. Concetta vestiva di bianco, i capelli legati con un nastro mettevano in risalto il collo lungo, il bel profilo. Mai l’era sembrata così adulta, così improvvisamente diversa.
“Non mi posso pensare senza di te”, stava per dirlo lei e sua sorella, come al solito, l’aveva anticipata.
«Non ci credo» aveva però risposto. Se era stata la rabbia o la tristezza a mettere nella sua voce quella punta d’aspro, non avrebbe saputo dirlo.
Concetta l’aveva fissata con sorpresa. «Non credi che sei una parte di me?»
Lei aveva storto la bocca evitandosi così la risposta che non avrebbe saputo dare.
Concetta, allora, aveva posato la menta in una ciotola e, con quelle mani profumatissime, l’aveva avvicinata a sé: «È come se tu fossi il mio terzo braccio, Vincenzina, la mia terza gamba. Te lo giuro».
Si era liberata con rabbia: «Non si va in giro con tre braccia e tre gambe».
«E neppure con quattro mani e con quattro piedi» aveva mormorato lei, sorridendo. «Ma non siamo questo? Due che si fanno una?»
Aveva sentito gli occhi riempirsi di lacrime: «Fino a quando? L’anno prossimo mi manderanno a chiamare. Sarà il tempo giusto, no? Non troppo vecchia e abbastanza attraente da soddisfare il Divinissimo Sposo».
«Smettila! Papà ha detto...»
«Che cosa? Che ci ha ripensato? Che ha cambiato testa?», ormai piangeva senza curarsi di nasconderlo.
«Staremo insieme, Vincenzina, te lo giuro.»
Aveva riso tra le lacrime. «Ma fino a quando, eh? Fino a quando?»
«Fino a sempre.»
«Che significa “fino a sempre”?» l’aveva quasi aggredita. «Niente significa, te lo dico io.»
«Significa che, qualunque cosa accada, niente cambia, lo capisci? Niente. Per sempre insieme, tu e io, per sempre, in questa vita e pure nell’altra.»
«Mi verrai a trovare con tuo marito in convento?» Era dura, adesso, cattiva.
Concetta era impallidita: «Capiterà qualche cosa, vedrai. Te lo giuro, e tu là dentro non ci metterai piede».
«Come no! Verrà il principe azzurro sul suo cavallo bianco... anzi, sopra un cavallo alato: entrerà dalla finestra e mi porterà sulla luna, alla faccia di nostro padre e delle sue cattolicissime fisime.»
«E perché no?»
L’aveva abbracciata forte e l’odore della menta s’era fatto cinghia che le aveva avvinte in una stretta brusca, di quelle che talvolta possono diventare pretesto per un bisticcio.
Ma nessuna delle due aveva voglia di bisticciare, ciò che davvero desideravano era di restare ancora così: annodate in un corpo che le comprendeva entrambe. Come avrebbero potuto perdersi, infatti, quel pezzo di sé con cui parlavano di stelle e di pesci, di amori, delle ombre che la notte si formano sui muri e hanno nomi di affogati, d’incaprettati, mentre la paura si cambia in terrore e ci si accuccia sotto le stesse coperte per trovare nel respiro dell’altra sollievo e conforto?
E i discorsi? Dio e le sirene: esistono le sirene? Esiste Dio? E le corse per la campagna, i modelli dei vestiti copiati dai giornali. Una collana che è mia e però è anche tua. Meglio le scarpe o gli stivaletti? Tienimi forte, Concettina, ché in quel posto non ci voglio andare, ché monaca non mi ci voglio fare. Tienimi stretta, Vincenzina, ché ho freddo, e questo buio non mi piace. Accendi una luce, fatti portare un lume. Dammi la mano. Non te ne andare.
Era quasi una bimba quando suo padre e sua madre avevano deciso di non maritarla: erano dell’idea che su tre femmine – Rosa già sposata a Ragusa con un professore, Concetta promessa a Mimmo Fazio – almeno una la si dovesse consacrare al Signore. Così, del resto, era già stato fatto con i maschi: Corrado, il primogenito, avrebbe ereditato la fortuna degli Sparviero e Lucio era diventato sacerdote. Al convento era stata destinata la più piccola, che di farsi monaca però non voleva saperne neppure ammazzata, perciò aveva strepitato, digiunato, fatto il diavolo a quattro per strappare a suo padre almeno la promessa di non essere rinchiusa prima dei sedici anni: «Non prima, per carità». Allora aveva cominciato a pregare, pregare e implorare e fare voti perché succedesse qualcosa, una cosa qualunque che la liberasse da quella condanna...
... Era morta Concetta.
Dall’oggi al domani.
Un dolore sempre più forte che dai fianchi era salito allo stomaco e dallo stomaco al petto: «Neppure respiro» smaniava.
Poi era venuta una febbre altissima.
Poi non aveva riconosciuto più nessuno.
Poi era morta.
Nei due giorni in cui sua sorella era stata in agonia, Vincenzina non aveva più saputo a quale santo votarsi. Aveva supplicato l’Iddio grande e terribile, il Figlio Suo amoroso, la Vergine che tutto può.
«Fatela campare» aveva mormorato inframmezzando le parole alle lacrime, le lacrime ai singhiozzi, mentre sua sorella sembrava caduta dentro un sonno d’incantamento dal quale usciva ogni tanto solo per lamentarsi. «Fatemi la Grazia, non ve la prendete, non me la togliete, vi prego non ve la portate, e se c’è qualcuno che proprio proprio deve morire allora pigliatevi me, e se mi ascoltate, se lei si alza e riprende a parlare e a camminare e torna a essere quella che era, ve lo giuro mi chiudo in convento, mi ci muro viva.»
Aveva diciotto anni, Concettina, non se ne poteva andare così.
Aveva diciotto anni. Capelli chiari, lisci; se li arricciava di nascosto col ferro caldo. Avrebbe sposato Mimmo Fazio con l’anno nuovo.
Quando l’era venuto quel dolore forte, che pensavano provocato da una cassatella di ricotta guasta – e subito avevano mandato a chiamare il dottore, che le aveva toccato la pancia gonfia, l’aveva guardata come si guarda una pupa di cera e le aveva fatto un’iniezione che per un poco l’aveva quietata –, quando l’era venuto quel dolore, Vincenzina s’era seduta accanto a lei e da lì non s’era mossa. Le aveva carezzato la fronte, asciugato le lacrime, inumidito le labbra; le aveva massaggiato le gambe e i piedi e, siccome questo pareva darle sollievo, aveva continuato così per tutta la notte. E intanto aveva pregato, ininterrottamente pregato. Pregava e prometteva: il silenzio, il convento, l’ubbidienza perfetta a suo padre e a sua madre – lei che mai s’era tenuta una parola in bocca. Se sua sorella fosse guarita si sarebbe rasata i capelli, avrebbe digiunato, avrebbe osservato tutte le regole, anche le più ingiuste, non avrebbe più mangiato dolci, niente più fragole, mai più bevuto caffè, mai più assaggiato una crema.
La mattina dopo Concetta aveva socchiuso gli occhi. «Dammi la mano» le aveva detto, e st...