Fino all'età di undici anni Polissena è vissuta felice con la sua famiglia, ma un giorno viene a sapere di essere stata adottata. Sconvolta, scappa di casa e si unisce alla Compagnia di Animali Acrobatici di Lucrezia, piccola acrobata stracciona, che l'aiuterà nella difficile ricerca della sua vera famiglia.
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Per le due amiche, una volta arrivate in città, non fu difficile trovare la strada per il Palazzo Reale.
Mirenài si estendeva sui fianchi di una collina a pan di zucchero e la Reggia si trovava proprio sulla cima, visibile da ogni parte dell’abitato. Era un edificio antico, pieno di torri e torrette, sulla più alta delle quali sventolava la bandiera con lo stemma dei Pischilloni, una stellina azzurra in campo d’oro, segno per la popolazione che la famiglia reale in quel momento si trovava in città.
“Finalmente ho ritrovato la mia casa!” pensò emozionata Polissena. Le dispiaceva un poco arrivarci di soppiatto, vestita da ragazzo e al seguito di una compagnia di saltimbanchi.
Se avesse potuto scegliere, quelle mura le avrebbe varcate in groppa a un cavallo bianco, trionfante, col suo vestito più bello, quello di velluto carnicino che la moglie del mercante le aveva fatto fare per lo scorso Natale, e i capelli al vento.
Ma non poteva scegliere. “Pazienza” si disse. “La cavalcata trionfale la farò tra una settimana per mostrarmi al popolo, il ‘mio’ popolo, che andrà in delirio alla vista della sua vera Principessa.”
Nel frattempo il popolo di Mirenài, ignaro della sorpresa che l’aspettava, guardava passare lo strano gruppo formato dai due ragazzini e dagli animali con la blanda curiosità di chi vive in una grande capitale ed è abituato a vederne di tutti i colori.
Quando Lucrezia e Polissena arrivarono in cima alla salita, videro che davanti alla Reggia si apriva una piazza grande e bella, con statue e fontane, da ogni punto della quale si poteva ammirare il panorama della città, delle campagne e dei boschi intorno e del mare lontano.
Una piccola folla di popolani sostava ai lati del portone del Palazzo, ch’era spalancato e custodito da soldati armati d’alabarda. Era evidente che stavano aspettando qualcosa.
— Cosa succede? — domandò Lucrezia a un ragazzino.
— La famiglia reale sta per rientrare dalla sua passeggiata quotidiana — le fu risposto.
— Non si tratta d’una passeggiata pura e semplice — intervenne a spiegare una donna. — Tutte le mattine la Principessa e il Reggente vanno alla Piazza d’Armi a passare in rassegna le truppe.
— Sta per scoppiare una guerra? — chiese Polissena allarmata.
— No — rise l’altra. — Ma i soldati bisogna tenerli in esercizio, sennò si impigriscono.
— E lo stesso vale per i regnanti — aggiunse un uomo anziano, che i trucioli di legno nei capelli qualificavano come un falegname.
— Com’è la Principessa? È bella? È gentile? Le volete bene? — chiese Polissena.
— Bellissima. Gentilissima. E l’amiamo alla follia — rispose la popolana.
— Lei e il Reggente sono giusti? Governano saggiamente? Hanno a cuore il benessere dei sudditi? — chiese Lucrezia.
— Giustissimi. Saggissimi… — cominciò la donna, ma il falegname l’interruppe: — Senti un po’ ragazzina, cosa ti aspetti? Che ci mettiamo a sparlare dei nostri sovrani con degli sconosciuti? Forse con delle spie? Che rischiamo la prigione e la forca solo per soddisfare la vostra curiosità?
— Allora non sono… — ribatté Polissena, ma Lucrezia le allungò un calcio per farla tacere. Non riuscì a impedire però che l’amica domandasse: — E la Regina Madre?
— Ecco, guarda! Puoi controllare con i tuoi stessi occhi. È la dama che apre il corteo — disse la donna, indicando il viale lastricato e fiancheggiato da leoni di pietra che portava alla piazza. Tutta la folla si era girata a guardare da quella parte. I bambini sventolavano i fazzoletti all’indirizzo dei cavalieri che stavano arrivando, lentamente, rigidi e solenni, in groppa a cavalli coperti da eleganti gualdrappe ricamate. Due trombettieri a piedi e un tamburino precedevano il corteo, e quattro ufficiali a cavallo lo scortavano ai due lati.
Infastidita dalla folla che la stringeva, Polissena si arrampicò su una statua per vedere meglio. Era emozionatissima: stava per conoscere finalmente il volto di sua madre!
In quel momento, senza che lo avesse minimamente chiamato, le si affacciò alla memoria il bel viso ovale di Ginevra Gentileschi, gli occhi allegri e luminosi, la bocca ridente, rossa e fresca, che scopriva i denti bianchi come perle. E la voce di Agnese: «Vostra madre è la donna più bella non solo di Cepaluna, ma di tutta la nostra contea, e forse di tutto il regno.» Polissena scosse via con fatica dalla mente quel ricordo fastidioso che apparteneva a un passato da dimenticare, e fissò gli occhi sulla donna che si avvicinava lentamente, seduta all’amazzone su un cavallo bianco come la neve.
La Regina Madre era vestita di nero, come si addice a una vedova. Ma il suo vestito di seta pesante era trapuntato di perle e ornato allo scollo e ai polsi di pelo d’ermellino. Lunghe collane di perle le ricoprivano il petto, intrecciate a catene d’oro e a file di diamanti. Sulle spalle, gettato all’indietro a coprire la groppa del cavallo, portava un lungo mantello interamente foderato d’ermellino. Questo abbigliamento le conferiva, con grande soddisfazione di Polissena, un aspetto ieratico e lontano, come d’una divinità superiore e inaccessibile alle passioni terrene.
Purtroppo un alto e rigido colletto di pizzo impediva però di distinguerne bene la metà inferiore del viso. La fronte era coperta da una elaborata acconciatura di seta e di perle, con un pendente centrale che scendeva fino alla radice del naso. Il capo era protetto da un cappuccio bordato d’ermellino, le mani che reggevano le briglie, da guanti di velluto nero.
Polissena scrutava avidamente quel po’ che riusciva a vedere: gli occhi pesantemente truccati, il naso diritto, la bocca severa… e con sua grande gioia provava la sensazione che quei lineamenti non le fossero del tutto sconosciuti. Era sicura di averli già visti. O meglio, non li aveva completamente dimenticati.
Non si era ancora saziata di guardarli, che la Regina Madre passò oltre, e fu la volta della Principessa Isabella.
A Polissena sarebbe piaciuto constatare che l’usurpatrice era una creatura brutta, malaticcia, magari gobba, con un grande naso bitorzoluto e piccoli occhi porcini, la pelle butterata dal vaiolo, i denti storti e scuri, il mento sfuggente. Invece, con sua grande rabbia, dovette riconoscere che Isabella era una bambina bellissima, nonostante il broncio che le serrava le labbra, e lo sguardo annoiato.
La Principessa aveva i capelli neri e lucidi intrecciati con file di rubini, gli occhi azzurri orlati da ciglia lunghe e folte, le guance rosee, la bocca fresca e gonfia come un frutto succoso. Il naso era piccolo, e leggermente rivolto all’insù come quello di un bambino. Il vestito di pesante stoffa d’oro irrigidito da incrostazioni di rubini e smeraldi non riusciva a nascondere la grazia infantile del suo corpo snello. Nonostante l’aria gelida, non portava alcun mantello, ed era a testa nuda, perché i sudditi potessero contemplarla a loro piacimento. Se aveva freddo, non lo dava a vedere.
Dietro di lei cavalcava il Reggente, tutto vestito di rosso cupo, col petto e le spalle coperti di decorazioni militari e in testa un cappello rosso bordato di pelliccia.
Lucrezia e Polissena si erano aspettate di vedere un volto malvagio, astuto, un ghigno crudele, e furono molto stupite dall’espressione tranquilla di quell’uomo robusto, che non staccava lo sguardo sollecito e affettuoso dalla nuca della Principessina.
“È logico” si disse Polissena. “Non è suo zio, come tutti credono. È suo padre e le vuole bene. Ha addirittura commesso un delitto per lei. Peccato che fossi io la vittima di quel delitto.”
CAPITOLO SECONDO
Quando il corteo fu scomparso dentro il cortile del Palazzo, Lucrezia si rivolse a uno degli alabardieri per chiedere notizie del bando.
— Vuoi provare anche tu a far sorridere la Principessa Reale, ragazzina? — esclamò la guardia. — Lo sai che se non ci riesci finirai in prigione per sette anni?
— E se ci riesco?
— Sarai nominata marchesa, diventerai ricca, e potrai vivere a corte, oppure nei tuoi nuovi possedimenti.
— E se concorro in società con mio cugino Ludovico e i miei animali?
— Tutti in prigione. Oppure tutti marchesi. Le ricchezze però dovrete dividervele tra voi. Non pretenderai che la Regina Madre moltiplichi la ricompensa per otto!
— Benissimo. Quand’è che ci dobbiamo presentare e a chi?
— Tutti i pomeriggi il Gran Ciambellano riceve le iscrizioni nella stanza attigua alla portineria. Quella porta là, in fondo al cortile. Se vi sbrigate, fate ancora in tempo.
Le perquisirono, frugando in ogni tasca dei loro vestiti, poi le lasciarono entrare.
Il Gran Ciambellano era un uomo vecchio, lungo e magro, con una corona di riccioli bianchi alla base del collo, e il resto del cranio pelato… Le ricevette con malgarbo, guardando sospettoso gli animali.
— Ancora due saltimbanchi. Due plebei così ambiziosi da rischiare il carcere per diventare marchesi — sbuffò.
— Veramente quello che ci interessa è la felicità della Principessa — disse Lucrezia. E Polissena pensò ironicamente: “Della vera Principessa.”
— Potete scrivere subito sull’iscrizione che del titolo nobiliare non ce ne importa affatto e che non lo vogliamo — concluse la piccola girovaga. Polissena non era molto d’accordo. Marchesa era già qualcosa. Se per caso non fosse riuscita a smascherare Isabella, o in attesa di farlo, non le sarebbe dispiaciuto far ricamare sui fazzoletti una corona a tre palle.
Con sua grande soddisfazione il Ciambellano rispose: — Non si può rinunciare al titolo. La Regina Madre non può rimangiarsi le sue promesse. — Il suo sguardo però diventò benevolo. Consultò un registro. — Ci sono già nove temerari che si son prenotati, e la Principessa Reale non ne può esaminare più di tre al giorno. Il vostro turno dunque è fra quattro giorni, alle undici del mattino.
— E se nel frattempo qualcuno dei nove riuscisse a far sorridere la Principessa?
— Non ci riuscirà nessuno. Neppure voi — disse scettico il Ciambellano. Intinse la penna d’oca nel calamaio e chiese: — Come vi chiamate?
— Lucrezia, Ludovico e gli Animali Acrobatici — disse Polissena.
Il Ciambellano prese nota, poi si grattò la zucca, sospirò, e si mise a scartabellare un altro registro. — Due valletti educati e di bell’aspetto… — borbottò, parlando tra sé e sé come se fosse solo — … e che possano prendere servizio immediatamente. Dove li vado a trovare?
— Prego? — si intromise Lucrezia, cui non garbava affatto aspettare tutti quei giorni prima di penetrare nella Reggia. (Come d’altronde non garbava a Polissena, ch’era impaziente di avvicinare la madre e farsi riconoscere.) — Prego, signor Gran Ciambellano. Se vi servono due valletti perché non assumete me e mio cugino?
Il Ciambellano alzò lo sguardo dalle carte e le osservò entrambe con attenzione. — Bell’aspetto… Sì, non c’è male. Tu, biondina, puoi passare tranquillamente per un maschio. Naturalmente bisognerà darvi una ripulita. — Si grattò ancora la testa. — E a buone maniere come andiamo? Lo sapete che se vi prendo, sarete addetti al servizio personale della Principessa Reale?
— Io ho recitato molte volte la parte del cameriere — disse Lucrezia, esibendosi in una profonda riverenza.
— E io ho ricevuto un… — cominciò Polissena. Stava per dire “un’ottima educazione”, m...
Indice dei contenuti
Copertina
Polissena del Porcello
Parte prima - A Cepaluna
Parte seconda - La Compagnia Giraldi e i suoi Animali Acrobati